Giugno 2001

L’ANNO DELL’UE

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Atlantico più largo
Jacopo Viviani  
 
 

 

 

 

E’ l’Europa in grado di ben figurare
in questo compito?
Probabilmente sì,
ma non si può
essere troppo
ottimisti.

 

Le tre grandi aree del mondo sviluppato si trovano in un momento di trapasso per ragioni diverse. Cominciando dagli Stati Uniti, che da dieci anni sono i portabandiera della crescita grazie alla new economy e soprattutto grazie all’aumento della produttività di tutti i fattori della produzione, si è avuto di recente un dimezzamento del tasso di crescita che ha spinto Greenspan a ridurre di corsa il tasso di riferimento sui federal funds e lo stesso tasso di sconto, senza attendere la formale riunione dell’Open Market Committee. La Borsa, che stava rischiando l’implosione, ha subito reagito in maniera positiva, ma successivamente gli alti e i bassi si sono succeduti, particolarmente nel settore dei titoli tecnologici. La convinzione generale, quindi, è che l’aereo americano stia atterrando, anche se si discute ancora se continuerà a farlo con tassi di crescita minori o se avrà un impatto recessivo duro.
Quest’ultima ipotesi non è la più probabile, ma alla fine non può essere del tutto esclusa: dipende fondamentalmente dalla reazione dei consumatori che hanno fatto forti acquisti di beni di consumo durevoli (per esempio, automobili fuoristrada), sono altamente indebitati, risparmiano poco o nulla e fanno affidamento spesso sui guadagni di Borsa per provvedere alla propria vecchiaia. Se la paura si dovesse diffondere subitanea, la domanda non scenderebbe dolcemente, ma cadrebbe a vite e le imprese della new economy, la cui valutazione dipende dal tasso di crescita del fatturato invece che dai profitti attuali o sperati, vedrebbero crollare le proprie quotazioni con effetti negativi per azionisti, creditori, e, soprattutto, occupati.
L’America è inerme di fronte a questa prospettiva? Tutt’altro. Da un lato, la Federal Reserve è disposta a ridurre ulteriormente il costo del denaro, il che, quand’anche non servirà a rilanciare gli investimenti o i consumi in un periodo di domanda calante o almeno incerta, permetterà alle imprese che hanno un’alta leva fiscale di ridurre il flusso degli interessi passivi, mentre parallelamente calano i profitti. Dall’altro, la nuova Amministrazione repubblicana si impegnerà per una riduzione delle imposte per mantenere fede almeno in parte alle promesse elettorali; la situazione di parità numerica tra repubblicani e democratici nel Senato potrà rendere questa strategia più difficile, ma non potrà bloccarla. Quand’anche nell’intero 2001 non dovesse diventare operativa, essa influirà sicuramente sulle aspettative.

Se si ammala la Grande America

Mario Deaglio


I dati sull’inflazione americana rappresentano la notizia meno incoraggiante sulla scena economica mondiale degli ultimi, tormentatissimi mesi. E questo perché, dietro alle cifre, fa capolino una parola pericolosa che speravamo d’aver dimenticato.
La parola è “stagflazione”, quel misto micidiale di stagnazione produttiva e di aumento generalizzato dei prezzi che ha costituito il mal sottile delle economie e delle società occidentali in gran parte degli anni Settanta e Ottanta.
Tutto ciò obbliga a considerare, con franchezza e senza allarmismi, una prospettiva scomoda: dopo un decennio di gloriosa crescita senza surriscaldamento, la situazione americana potrebbe sfuggire di mano. Se infatti la tendenza venisse confermata, il Governatore Greenspan, grande regista del successo economico degli Stati Uniti, non potrebbe fare quello che ha in programma, e cioè abbassare ancora i tassi per rianimare l’economia con denaro meno caro. Rendere meno caro il denaro in questa situazione significherebbe infatti versare benzina sul fuoco dell’inflazione.
La possibilità di una rapida ripresa americana è pertanto legata alle riduzioni fiscali del presidente Bush, anch’esse, peraltro, non prive di rischi inflazionistici. Queste riduzioni, però, sono politicamente difficili: siccome negli Stati Uniti i poveri pagano pochissime imposte, andrebbero in grandissima misura a vantaggio dei cittadini con redditi elevati e aumenterebbero ancora i divari di una società già contrassegnata da fortissime differenze.
Tutte queste paure spiegano il pessimismo delle Borse negli ultimi tempi, un pessimismo contagioso perché, se mai l’America dovesse prendersi la polmonite, l’Europa, come minimo, si prenderà il raffreddore. Questo orizzonte burrascoso fa da sfondo al dibattito politico italiano, lontanissimo da simili temi.
In realtà, in passato abbiamo sofferto troppo di stagflazione per poter trascurare quanto sta succedendo all’estero. E’ dunque legittimo chiedere alle forze politiche italiane che cosa faranno nel caso di una crisi importata dall’America.

Il Giappone continua ad essere il grande malato. Per quasi tutti gli anni Novanta è stato in recessione, e, sebbene sia stata annunciata più volte, la ripresa stenta a materializzarsi. I pacchetti fiscali di grandi opere pubbliche e le iniezioni di pubblico denaro per i salvataggi bancari non sono stati in grado di ridare slancio ad un’economia che nei decenni precedenti aveva fatto faville. Le conseguenze negative di questa politica cominciano a farsi sentire nella dimensione del debito pubblico e nella preoccupazione che esso suscita nelle agenzie di rating deputate a certificare la qualità dei titoli. La crisi giapponese da un lato preoccupa per la lunghezza del periodo e per essere stata in gran parte conseguenza dello scoppio di una bolla speculativa che aveva gonfiato i valori azionari e immobiliari in misura così forte da compromettere le strutture portanti dell’economia nipponica.
Questa era imperniata sulla presenza di grandi gruppi di imprese, sull’influenza pervasiva dello Stato attraverso il pubblico coordinamento della politica industriale e dello sviluppo tecnologico, e sul ruolo della banca principale in un sistema in cui industria e finanza si sostengono a vicenda attraverso una rete di azionariato incrociato. Un terzo elemento era costituito dall’occupazione a vita che si accompagnava a un salario fortemente legato all’anzianità e a una sindacalizzazione su base aziendale. La crisi del sistema bancario giapponese – nient’affatto risolta –, la spinta concorrenziale della globalizzazione che ha reso obsoleta la programmazione dall’alto, e, infine, la perdita di credibilità del sistema politico e della burocrazia per l’emergere degli episodi di corruzione, hanno minato alla base un sistema che oggi non sembra essere più in grado di crescere, assicurando al contempo la pace sociale. Nuovi equilibri dovranno emergere; i venti della concorrenza potranno fare molto a questo riguardo, ma non tutto, poiché i problemi riguardano fondamentalmente la struttura politico-sociale del Paese.
Infine, l’Europa, o almeno quella parte di essa che ha abbracciato l’Unione e che, sia pure con le eccezioni inglese, danese e svedese, ha adottato l’euro si vede attribuito il compito di rilevare il testimone dalle mani dell’economia americana per continuare la staffetta della crescita. E’ l’Europa in grado di ben figurare in questo compito? Probabilmente sì, ma non si può essere troppo ottimisti. La politica strutturale è quella che spesso viene invocata e va dalla riforma delle pensioni e dei sistemi di tassazione alla ulteriore flessibilizzazione del lavoro, alla liberalizzazione di molti mercati: professioni, servizi di pubblica utilità, sistema dei pagamenti, eccetera. Tuttavia, queste sono riforme che vanno adeguatamente preparate, al fine di evitare che la medicina si riveli alla distanza più nociva del male.
La politica fiscale è non soltanto vincolata dal patto di stabilità e di crescita, ma è ancora attributo delle singole Tesorerie nazionali, che al massimo possono tentare un coordinamento, soprattutto se Bruxelles preme in tal senso, senza dimenticare che i bilanci europei non sono nelle condizioni di quello americano. La politica monetaria ha come obiettivo primario la stabilità dei prezzi e quindi non ha la libertà di manovra che la legge garantisce alla Federal Reserve. Tuttavia, l’euro ha cominciato ad apprezzarsi, dopo che le sorti dell’economia americana sono diventate meno brillanti e il grado desiderato di restrizione monetaria può essere assicurato anche con il cambio, oltre che con il tasso di interesse.
Ciò significa che l’aumento dei prezzi importati, in particolare del petrolio ove fosse mandata a effetto la minaccia di un nuovo taglio alla produzione da parte dei produttori cartellizzati, potrebbe essere più facilmente neutralizzato. Un aumento forte e repentino dell’euro rispetto a dollaro e yen favorirebbe i consumatori europei e permetterebbe alle altre aree di trovare nel Vecchio Continente un forte mercato di sbocco, ma gli esportatori europei sarebbero sottoposti a dura prova, insieme con la nostra bilancia commerciale. Apprezzamento dell’euro, va bene. Ma est modus in rebus, ultra citraque...

   
   
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