E lEuropa in grado di ben figurare
in questo compito?
Probabilmente sì,
ma non si può
essere troppo
ottimisti.
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Le tre grandi aree del mondo sviluppato si trovano in un momento
di trapasso per ragioni diverse. Cominciando dagli Stati Uniti,
che da dieci anni sono i portabandiera della crescita grazie alla
new economy e soprattutto grazie allaumento della produttività
di tutti i fattori della produzione, si è avuto di recente
un dimezzamento del tasso di crescita che ha spinto Greenspan a
ridurre di corsa il tasso di riferimento sui federal funds e lo
stesso tasso di sconto, senza attendere la formale riunione dellOpen
Market Committee. La Borsa, che stava rischiando limplosione,
ha subito reagito in maniera positiva, ma successivamente gli alti
e i bassi si sono succeduti, particolarmente nel settore dei titoli
tecnologici. La convinzione generale, quindi, è che laereo
americano stia atterrando, anche se si discute ancora se continuerà
a farlo con tassi di crescita minori o se avrà un impatto
recessivo duro.
Questultima ipotesi non è la più probabile,
ma alla fine non può essere del tutto esclusa: dipende fondamentalmente
dalla reazione dei consumatori che hanno fatto forti acquisti di
beni di consumo durevoli (per esempio, automobili fuoristrada),
sono altamente indebitati, risparmiano poco o nulla e fanno affidamento
spesso sui guadagni di Borsa per provvedere alla propria vecchiaia.
Se la paura si dovesse diffondere subitanea, la domanda non scenderebbe
dolcemente, ma cadrebbe a vite e le imprese della new economy, la
cui valutazione dipende dal tasso di crescita del fatturato invece
che dai profitti attuali o sperati, vedrebbero crollare le proprie
quotazioni con effetti negativi per azionisti, creditori, e, soprattutto,
occupati.
LAmerica è inerme di fronte a questa prospettiva? Tuttaltro.
Da un lato, la Federal Reserve è disposta a ridurre ulteriormente
il costo del denaro, il che, quandanche non servirà
a rilanciare gli investimenti o i consumi in un periodo di domanda
calante o almeno incerta, permetterà alle imprese che hanno
unalta leva fiscale di ridurre il flusso degli interessi passivi,
mentre parallelamente calano i profitti. Dallaltro, la nuova
Amministrazione repubblicana si impegnerà per una riduzione
delle imposte per mantenere fede almeno in parte alle promesse elettorali;
la situazione di parità numerica tra repubblicani e democratici
nel Senato potrà rendere questa strategia più difficile,
ma non potrà bloccarla. Quandanche nellintero
2001 non dovesse diventare operativa, essa influirà sicuramente
sulle aspettative.
Se
si ammala la Grande America
Mario Deaglio
I dati sullinflazione americana rappresentano la notizia
meno incoraggiante sulla scena economica mondiale degli ultimi,
tormentatissimi mesi. E questo perché, dietro alle
cifre, fa capolino una parola pericolosa che speravamo daver
dimenticato.
La parola è stagflazione, quel misto micidiale
di stagnazione produttiva e di aumento generalizzato dei prezzi
che ha costituito il mal sottile delle economie e delle società
occidentali in gran parte degli anni Settanta e Ottanta.
Tutto ciò obbliga a considerare, con franchezza e senza
allarmismi, una prospettiva scomoda: dopo un decennio di gloriosa
crescita senza surriscaldamento, la situazione americana potrebbe
sfuggire di mano. Se infatti la tendenza venisse confermata,
il Governatore Greenspan, grande regista del successo economico
degli Stati Uniti, non potrebbe fare quello che ha in programma,
e cioè abbassare ancora i tassi per rianimare leconomia
con denaro meno caro. Rendere meno caro il denaro in questa
situazione significherebbe infatti versare benzina sul fuoco
dellinflazione.
La possibilità di una rapida ripresa americana è
pertanto legata alle riduzioni fiscali del presidente Bush,
anchesse, peraltro, non prive di rischi inflazionistici.
Queste riduzioni, però, sono politicamente difficili:
siccome negli Stati Uniti i poveri pagano pochissime imposte,
andrebbero in grandissima misura a vantaggio dei cittadini
con redditi elevati e aumenterebbero ancora i divari di una
società già contrassegnata da fortissime differenze.
Tutte queste paure spiegano il pessimismo delle Borse negli
ultimi tempi, un pessimismo contagioso perché, se mai
lAmerica dovesse prendersi la polmonite, lEuropa,
come minimo, si prenderà il raffreddore. Questo orizzonte
burrascoso fa da sfondo al dibattito politico italiano, lontanissimo
da simili temi.
In realtà, in passato abbiamo sofferto troppo di stagflazione
per poter trascurare quanto sta succedendo allestero.
E dunque legittimo chiedere alle forze politiche italiane
che cosa faranno nel caso di una crisi importata dallAmerica.
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Il Giappone continua ad essere il grande malato. Per quasi tutti
gli anni Novanta è stato in recessione, e, sebbene sia stata
annunciata più volte, la ripresa stenta a materializzarsi.
I pacchetti fiscali di grandi opere pubbliche e le iniezioni di
pubblico denaro per i salvataggi bancari non sono stati in grado
di ridare slancio ad uneconomia che nei decenni precedenti
aveva fatto faville. Le conseguenze negative di questa politica
cominciano a farsi sentire nella dimensione del debito pubblico
e nella preoccupazione che esso suscita nelle agenzie di rating
deputate a certificare la qualità dei titoli. La crisi giapponese
da un lato preoccupa per la lunghezza del periodo e per essere stata
in gran parte conseguenza dello scoppio di una bolla speculativa
che aveva gonfiato i valori azionari e immobiliari in misura così
forte da compromettere le strutture portanti delleconomia
nipponica.
Questa era imperniata sulla presenza di grandi gruppi di imprese,
sullinfluenza pervasiva dello Stato attraverso il pubblico
coordinamento della politica industriale e dello sviluppo tecnologico,
e sul ruolo della banca principale in un sistema in cui industria
e finanza si sostengono a vicenda attraverso una rete di azionariato
incrociato. Un terzo elemento era costituito dalloccupazione
a vita che si accompagnava a un salario fortemente legato allanzianità
e a una sindacalizzazione su base aziendale. La crisi del sistema
bancario giapponese nientaffatto risolta , la
spinta concorrenziale della globalizzazione che ha reso obsoleta
la programmazione dallalto, e, infine, la perdita di credibilità
del sistema politico e della burocrazia per lemergere degli
episodi di corruzione, hanno minato alla base un sistema che oggi
non sembra essere più in grado di crescere, assicurando al
contempo la pace sociale. Nuovi equilibri dovranno emergere; i venti
della concorrenza potranno fare molto a questo riguardo, ma non
tutto, poiché i problemi riguardano fondamentalmente la struttura
politico-sociale del Paese.
Infine, lEuropa, o almeno quella parte di essa che ha abbracciato
lUnione e che, sia pure con le eccezioni inglese, danese e
svedese, ha adottato leuro si vede attribuito il compito di
rilevare il testimone dalle mani delleconomia americana per
continuare la staffetta della crescita. E lEuropa in
grado di ben figurare in questo compito? Probabilmente sì,
ma non si può essere troppo ottimisti. La politica strutturale
è quella che spesso viene invocata e va dalla riforma delle
pensioni e dei sistemi di tassazione alla ulteriore flessibilizzazione
del lavoro, alla liberalizzazione di molti mercati: professioni,
servizi di pubblica utilità, sistema dei pagamenti, eccetera.
Tuttavia, queste sono riforme che vanno adeguatamente preparate,
al fine di evitare che la medicina si riveli alla distanza più
nociva del male.
La politica fiscale è non soltanto vincolata dal patto di
stabilità e di crescita, ma è ancora attributo delle
singole Tesorerie nazionali, che al massimo possono tentare un coordinamento,
soprattutto se Bruxelles preme in tal senso, senza dimenticare che
i bilanci europei non sono nelle condizioni di quello americano.
La politica monetaria ha come obiettivo primario la stabilità
dei prezzi e quindi non ha la libertà di manovra che la legge
garantisce alla Federal Reserve. Tuttavia, leuro ha cominciato
ad apprezzarsi, dopo che le sorti delleconomia americana sono
diventate meno brillanti e il grado desiderato di restrizione monetaria
può essere assicurato anche con il cambio, oltre che con
il tasso di interesse.
Ciò significa che laumento dei prezzi importati, in
particolare del petrolio ove fosse mandata a effetto la minaccia
di un nuovo taglio alla produzione da parte dei produttori cartellizzati,
potrebbe essere più facilmente neutralizzato. Un aumento
forte e repentino delleuro rispetto a dollaro e yen favorirebbe
i consumatori europei e permetterebbe alle altre aree di trovare
nel Vecchio Continente un forte mercato di sbocco, ma gli esportatori
europei sarebbero sottoposti a dura prova, insieme con la nostra
bilancia commerciale. Apprezzamento delleuro, va bene. Ma
est modus in rebus, ultra citraque...
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