Giugno 2001

COOPERAZIONE E INTEGRAZIONE

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Per un’Europa più forte
Gianni Agnelli  
 
 

 

 

 

L’obiettivo finale
di medio periodo
al quale tendere
è quello
di un ordinamento
federale dell’Unione.

 

Mi è capitato sovente di sentirmi domandare quali sono i miei legami con la Francia e che cosa pensi del ruolo e dell’importanza di questo grande Paese in Europa e nel mondo. Devo dire che mi è sempre stato difficile, nel rispondere, indossare i panni dell’osservatore neutrale, del cittadino di un altro Paese che sa guardare in casa altrui con curiosità e al tempo stesso con distacco.
La Francia è una parte di me, come lo è da sempre per qualsiasi persona che sia nata nelle province occidentali del Piemonte. E’ una questione di affinità spirituale che ha radici, nonostante l’apparente ostacolo delle Alpi, nella prossimità geografica, nelle intense relazioni umane e commerciali, nella secolare storia politica che lega Torino a Chambéry.
Su un piano più personale, è una questione di fascino e di attrazione che esercitano il mondo culturale francese, le bellezze naturali e artistiche, la forza delle istituzioni, il sentimento di appartenenza, lo spirito di servizio dell’amministrazione pubblica, e, non ultima, quella stabilità politica che non teme la coabitazione. Naturalmente, per me è anche una questione di forti legami economici: non c’è Paese, dopo l’Italia, in cui maggiore sia il mio impegno imprenditoriale.
Da amante della Francia e da imprenditore guardo con grande attenzione e molte attese a tutto ciò che può rafforzare le relazioni italo-francesi, tanto sul piano delle iniziative più squisitamente politiche, quanto su quello dei gesti concreti. Tra questi ultimi metto la decisione sulla realizzazione del nuovo collegamento ferroviario ad alta capacità tra Torino e Lione. Pensando a questa grande opera infrastrutturale non si può fare a meno di ricordarne un’altra, che ebbe a suo tempo importanza straordinaria per la sua rilevanza economica e per il suo valore simbolico: il traforo del Fréjus. Fu, quella, una coraggiosa decisione di Camillo di Cavour, l’artefice dell’unità d’Italia, convinto che l’integrazione continentale e l’apertura economica della giovane nazione dovessero passare da uno stretto rapporto con la Francia. Sono convinto che non diverse e non meno forti siano oggi le ragioni ideali e materiali che ci devono spingere a porre mano rapidamente al nuovo progetto. Che non andrebbe a beneficio solo dei nostri due Paesi.

Ho avuto la fortuna di assistere ai progressi dell’idea unitaria europea fin dai tempi di Schuman, Monnet e De Gasperi. So quale contributo Francia e Italia insieme vi hanno dato. So quanto talvolta sia stato faticoso rinunciare, nel nome di un superiore e comune interesse europeo, a certe prerogative nazionali. Ma come qualunque cittadino della mia generazione può fare, constato che la grande scommessa di cinquant’anni fa – che era una scommessa di sviluppo nella pace – si sta dimostrando vincente.
Dobbiamo andare avanti in questa logica di cooperazione e integrazione, l’unica che ci può permettere di costruire un’Europa più forte. Dobbiamo andare avanti, consapevoli anche di quelle specifiche missioni che la storia e la posizione geografica ci assegnano. Francia e Italia sono Paesi europei, ma sono anche Paesi mediterranei. E’ nel loro interesse lavorare perché si creino le condizioni per un maggior sviluppo economico della sponda Sud: perché ciò sarà determinante per allentare le pressioni demografiche che alimentano i flussi migratori verso l’Europa; perché tale sviluppo potrà contribuire ad arginare l’espansione dei fondamentalismi, che si stanno rivelando oggi la più seria minaccia per la pace; e perché un maggior peso dell’area mediterranea sarà un fattore di bilanciamento e di riequilibrio per la stessa Europa, che si appresta ad allargarsi alle economie dell’Est.
Ma la logica di cooperazione e integrazione di cui parlavo ci pone di fronte anche ad un’altra, assai impegnativa questione: quella dell’assetto futuro verso il quale deve muovere l’Europa.
A guardare le cose in modo realistico, nell’arco dei pochi anni che ci separano dalla prima ondata di ingressi dei Paesi dell’Est è difficile ipotizzare soluzioni diverse da quella che attribuisce ai Paesi membri dell’Unione la libertà di procedere ad un’integrazione a più velocità. Le differenze economiche e i diversi orientamenti delle opinioni pubbliche rendono utopistiche altre vie d’uscita.
Tuttavia, su un orizzonte più lungo, quello di un’Europa a più velocità o delle “cooperazioni rafforzate” non è il traguardo finale che ritengo più auspicabile. Alcune decisioni cruciali – come l’armonizzazione fiscale – verrebbero vanificate se non fossero estese a tutta l’area comunitaria.
Soprattutto, diverrebbe sempre più forte il rischio di un’Europa non più allargata, ma più ristretta ad un nocciolo duro di Paesi, l’esatto contrario di ciò che si vuole e si deve fare.
Se dunque in una fase intermedia non si può fare a meno di accettare velocità di crociera diverse, l’obiettivo finale di medio periodo al quale tendere è quello di un ordinamento federale dell’Unione. Una federazione che attorno ad un suo presidente, emblema dell’unità, sappia coagulare l’identità collettiva dei cittadini e che dalla molteplicità delle sue culture sappia trarre motivi di forza unitaria. La mia opinione è che il completamento dell’unificazione politica dell’Europa sia la condizione indispensabile per poter arrivare a dialogare, un giorno, da pari a pari e con una sola voce con le altre grandi entità continentali del mondo.
Quel giorno non è imminente. Oggi come oggi, l’Europa non può permettersi di rinunciare a una partnership forte con gli Stati Uniti. Non può farlo dal punto di vista della sicurezza, fintantoché non disporrà di una struttura di difesa. Non può farlo neppure sotto il profilo economico, dal momento che sono là, negli Stati Uniti, le risorse tecnologiche a cui attingere per dare sostanza alla crescita.

Certo, noi tutti abbiamo la legittima aspirazione a far sì che questa sia una vera partnership tra uguali. Ma per arrivare dovremo superare alcune prove importanti. La prima è quella di assorbire senza traumi l’allargamento ad Est e di corrispondere alle aspettative di sicurezza e di sviluppo dei futuri membri dell’Unione. La seconda, forse ancora più impegnativa, è quella di stabilire rapporti costruttivi con la Russia, attirandola stabilmente nell’area della democrazia e del mercato. La terza è quella di accelerare i ritmi dello sviluppo economico, liberando le capacità delle risorse umane, mobilitando i talenti scientifici, favorendo la competizione in ogni settore, valorizzando i punti di forza tipicamente europei. Si tratta, come si vede, di impegni gravosi e pressanti che potranno essere assolti solo con solidarietà europea, non con egoismi nazionali. E sempre in una prospettiva atlantica.
Lo scorso secolo gli Stati Uniti hanno fatto dell’America l’unica superpotenza del mondo. Nello stesso secolo noi europei, con due guerre civili e pressati da profonde divisioni ideologiche, abbiamo distrutto buona parte del potenziale dell’Europa. Oggi stiamo cercando di ricostruirlo. C’è chi pensa di ricostruirlo in antitesi agli Stati Uniti; c’è chi pensa di ricostruirlo in stretta alleanza con gli Stati Uniti. Io appartengo a questi ultimi e ritengo che chiunque saprà fare passi in quella direzione farà l’interesse dell’avvenire europeo.

   
   
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