Marzo 2001

DECIMA MUSA

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Totò: una maschera
Giuseppe Gubitosi
 
 

 

 

La bombetta doveva ricordare l’epoca
nella quale l’abito
fu creato, e doveva
ricordare
la povertà, insieme al tight troppo largo
e alla stringa per
le scarpe in luogo
della cravatta.

 

Il nome di Totò, secondo le ricerche araldiche da lui condotte, era Angelo Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio ed egli era altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo, e molte altre cose, titoli che sono riportati nel libro d’oro della nobiltà italiana.
Il diritto di fregiarsi di questi titoli gli è stato riconosciuto dal tribunale di Napoli il 18 luglio 1945, prima che entrasse in vigore, nel gennaio 1948, la Costituzione Italiana, che ha abolito i titoli nobiliari (con l’art. XIV delle Disposizioni transitorie e finali). Era morto da alcuni mesi il padre di Totò, Giuseppe de Curtis, che sua madre aveva sposato il 24 febbraio 1921, dopo la morte del marchese de Curtis, ovvero colui che avrebbe dovuto diventare suo suocero, che si opponeva al matrimonio di suo figlio Giuseppe, il marchesino de Curtis, con Anna Clemente, esponente di una famiglia troppo povera per lui. Dalla relazione tra Giuseppe de Curtis e Anna Clemente era nato nel 1898, al rione Sanità (ufficialmente il rione Stella), Antonio, il futuro Totò, la cui nascita era stata denunciata dallo zio materno Vincenzo Clemente con il nome di Antonio Vincenzo Stefano e il cognome della madre, Clemente. Fu questo il cognome mantenuto da Antonio (che si faceva chiamare, quando lavorava sulle scene, Totò già da molto tempo) fino a che la madre non sposò il marchesino de Curtis. Poi, nel 1933, fu adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, dal quale derivarono i titoli nobiliari vantati da Totò.

Il 1945, l’anno della morte di Giuseppe de Curtis, era un anno molto importante per Totò, il quale continuava l’attività teatrale, ma cercava anche la strada per sfondare nel cinema. Nel cinema aveva debuttato già nel 1937 con “Fermo con le mani”, a cui nel 1939 era seguito “Animali pazzi”, su soggetto di Achille Campanile, nel 1940 “San Giovanni decollato”, nel 1941 “L’allegro fantasma” e nel 1943 “Due cuori tra le belve”. Ma nessuno di questi film ottenne un vero e proprio successo, nonostante la maggiore “esperienza e sicurezza” di Totò e la presenza, nel terzo film, alla regia di Amleto Palermi, che aveva consentito a questo film di distinguersi dai precedenti, come diceva il critico del Corriere della Sera nell’edizione del 19-20 dicembre 1940, il quale completava il suo pensiero con queste parole: «già la sua maschera [la maschera di Totò] ha una consistenza, sullo schermo, ed un rilievo». Nel 1945, infatti, era uscito “Il ratto delle Sabine”, interpretato da Totò e da Carlo Campanini (il quale ricorda che stava recitando con Totò per questo film quando, e fu uno dei primi, ricevette le confidenze dell’attore comico napoletano in merito alle sue ricerche araldiche), realizzato per la regia di Mario Bonnard, che ebbe accoglienze contrastanti da parte della critica. Secondo il critico del romano Il Giornale del Mattino, «un film con Totò rappresenta sempre una garanzia per un’ora di buonumore» e sottolineava che «il pubblico ha riso dal principio alla fine», mentre Antonio Pietrangeli scriveva su Star (a p. 2 del n. 47, a. II, uscito il 15 dicembre 1945): «Questo Ratto delle Sabine ha indubbiamente il diritto al brevetto del più insulso, aberrante film prodotto dalla “cinematografia” italiana postbellica».
Totò si apprestava a interpretare il film realizzato dal regista Mario Mattòli, “I due orfanelli”, uscito nel 1947, ancora una volta insieme a Carlo Campanini. Un accoppiamento che Gian Luigi Rondi su Il Tempo salutava con queste parole: «Totò e Campanini – un incontro veramente felice – han prestato al protagonista tutta la loro varia e saporita comicità». Anche questo film fu accolto in maniera contrastante, ma in modo tale da riconoscere le potenziali qualità di Totò nel cinema. Infatti alle entusiastiche parole di Gian Luigi Rondi corrispondevano queste parole di Lorenzo Quaglietti su L’Unità: «Una volta di più, Totò ha deluso quanti gli riconoscono ampie possibilità nel campo del cinema».
Non c’è alcun dubbio che c’è un’evoluzione. Certo siamo ancora lontani dal tempo in cui verrà operata, dopo la morte di Antonio de Curtis, una rivalutazione di Totò, operazione in cui si distinse Goffredo Fofi, ma c’è un’evoluzione nell’atteggiamento della critica. Probabilmente bisogna attribuire questa evoluzione anche ad una maggiore attenzione di Totò verso i cardini del cinematografo, che farà di lui uno degli attori italiani più attenti alle caratteristiche degli italiani, ma intanto questa evoluzione ci fu e occorre prenderne atto.

Comunque, nel momento stesso in cui Totò cercava di affermarsi in campo cinematografico, portava a termine le sue ricerche araldiche e otteneva, grazie all’aiuto prestatogli dal suo amico avvocato Eugenio De Simone, la conferma da parte della Corte di Appello di Napoli di essere l’ultimo rampollo della stirpe imperiale di Bisanzio. Per la verità, Antonio de Curtis aveva già ottenuto il riconoscimento dei diritti spettantigli dal decreto ministeriale del 6 maggio 1941, ma molti erano i pretendenti, e Totò ci teneva moltissimo, tanto che, nel corso delle riprese per “Il ratto delle Sabine”, disse a Carlo Campanini: «A’ Carlè, io qui faccio per scherzo e lo sono veramente». Campanini pensava che Totò stesse raccontando una barzelletta, ma Totò soggiunse: «Ma io sono veramente re». Nella sua testimonianza Carlo Campanini aggiunge che la smania di Totò di essere nobile gli appariva così forte che non ebbe mai «il coraggio di chiamarlo principe». Non fu così per Carlo Dapporto, che un giorno lo chiamò principe. E come aveva fatto Dapporto, molti altri lo chiamarono principe.

Con la mania di far valere i suoi titoli nobiliari, Totò poteva sembrare ridicolo. A Carlo Dapporto disse, stando al ricordo di Carlo Campanini: «Ah, ma lo sai pure tu [...] meno male che sono solo principe. Pensa, se ero re che sentivo un fetente che veniva a bussare: S’accomodi, tocca a lei Altezza, sai sarebbe stata una cosa un po’ troppo mortificante».
Certo, in gran parte questa mania era da attribuire agli umili natali di Totò. Eppure un principe lo era davvero: della comicità, come hanno riconosciuto in molti. Totò, come ha osservato qualcuno, era l’ultima incarnazione della napoletanità, inventata da Matilde Serao e fatta propria dal marito, Edoardo Scarfoglio, il fondatore del Mattino. Era l’ultima maschera, dopo Pulcinella, di questa “napoletanità”.
Ma dal momento che la napoletanità si riduce a una variante dell’identità italiana, questa maschera non è che la maschera dell’identità italiana, camuffata da maschera della napoletanità. E si tratta, si badi, dell’Italia moderna, perché l’abbigliamento di Totò ricorda quello di Charlot, il personaggio creato da Chaplin, un americano, anzi un inglese americanizzato. Totò dice del suo abbigliamento: «Il mio corredo era composto da un solo abito per la scena che andava sempre più logorandosi, senza una sia pur remota possibilità di sostituzione [siamo nel 1922 e Totò era agli inizi della sua vita teatrale, caratterizzati da una profonda miseria. A quel tempo Totò recitava al Teatro Sala Umberto I di Roma]. Ebbi, da qui, l’idea di creare un “costume” che accentuasse la mia vera situazione vestiaria. Una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa con colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni “a saltafossi” [ovvero corti e larghi], comuni scarpe nere basse, un paio di calze colorate. Così nacque l’abito di Totò».
Ma Totò non può farci scordare che il suo abito assomiglia molto a quello di Charlot. Del resto, i poveri erano uguali ovunque, in Italia come negli Stati Uniti. E la bombetta, l’elemento che più avvicina l’abito di Totò a quello di Charlot, era un indumento tipico degli inizi del Novecento. Perciò la bombetta doveva ricordare l’epoca nella quale l’abito fu creato, e doveva ricordare, in quanto logora, la povertà, insieme al tight troppo largo e alla stringa per le scarpe in luogo della cravatta. Ché i poveri esistono dappertutto, nei Paesi poveri, come l’Italia, e nei Paesi in via di forte sviluppo, come gli Stati Uniti.
Per questa ragione diciamo che Totò è universale. Egli, con la sua maschera, non solo rappresenta la povertà dei meridionali come dei settentrionali, degli italiani come degli americani. La povertà di tutti, insomma, che è rappresentata da una maschera, come quella di Pulcinella. «Totò non poteva fare che Totò, come Pulcinella, che non poteva essere che Pulcinella, cosa altro potevi fargli fare? Il risultato di secoli di fame, di miseria, di malattie, il risultato perfetto di una lunghissima sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, una splendida stalattite, questo era Totò», ha dichiarato Federico Fellini.
In un brano de “La frusta cinematografica”, edito da Il Resto del Carlino a Bologna nel 1941, il volume che Eugenio F. Palmieri ha redatto facendolo derivare dalle rubriche da lui tenute sulla rivista di Mino Doletti, Film, che egli firmava con gli pseudonimi di Lunardo e di Tabarrino si legge: «E’ una “pazziata” il nostro attore, una tarantella; e i suoi film dovrebbero correre, saltare, precipitare, rimbalzare, fuggire: disumani e vorticosi, sventati e tremebondi, magici e stolti. Totò ripete Pulcinella; davanti alla macchina da presa, o registi, c’è Pulcinella: con quel mento a tubo. Questo ha da dire, sullo schermo, Totò: una fragorosa pulcinellata». Palmieri, si badi bene, fa nascere il Varietà, nel quale eccelse Totò, principalmente a Napoli: «E a Napoli – dove Pulcinella improvvisa, per la piazza e per la reggia, le sue mirabolanti avventure – l’Arte Varia fiorisce: colorato dominio di attori per i quali l’invenzione dei poeti è come un abito stretto. Dalla ribalta dialettale alla ribalta del Varietà, il comico partenopeo non raffigura, con gioiosa e immaginosa prepotenza, che un personaggio: se stesso».

(1 - continua)

   
   
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