Dapprima
esitante e attonito, questo tragico
presente è diventato
incolto e violento,
cioè volgare.
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Ne azzeccasse mai una, Francesco Alberoni. Aveva scritto: sono
scomparsi gli intellettuali. Sono scomparsi in pochi anni come certe
specie preistoriche, come i dinosauri. E la gente non se ne è
nemmeno accorta...
Gli intellettuali erano stati una presenza costante nella storia
italiana ed europea. Molto spesso filosofi, ma anche riformatori
religiosi, politici, scienziati, i quali, oltre che del loro campo
specialistico, si erano occupati di problemi universali, ponendosi
e ponendo interrogativi, criticando le idee correnti, facendo balenare
nuovi orizzonti. Erano stati intellettuali Socrate, che aveva scavato
nellanimo umano, e Platone, che aveva immaginato un nuovo
tipo di organizzazione sociale. Galileo non era stato solo uno scienziato,
né Pascal un semplice teologo. Marx non si era dedicato soltanto
alle politiche economiche, né Lenin esclusivamente alla politica.
Per non parlare del nostro passato prossimo, con gli Adorno, i Marcuse,
i Sartre, e poi i Lacan, i Levy-Strauss, i Foucault, gli Aron.
Adesso, annota Alberoni, è calato il silenzio, a meno che
non si squittisca al Costanzo Show o a Domenica in. Perché?
Perché viviamo in unepoca senza movimenti, ai quali
gli intellettuali danno corpo e voce, con i quali si realizzano
confronti e scontri. Ora siamo in tempi di stelle fredde: ciascuno
si occupa della propria vita e dei propri interessi economici, senza
trascendere gli orizzonti del proprio particulare.
La mutazione sarebbe avvenuta per due motivi di fondo. Il primo:
noi plagiamo i modelli degli Stati Uniti. Dopo la crisi del marxismo
negli anni Settanta e il crollo dellUrss alla fine degli anni
Ottanta, il modello americano ha vinto su tutti i fronti. Come mai?
Non è forse perché lEuropa ha pencolato, magari
per forza di cose, tra Est e Ovest, senza riuscire a darsi un modello
unico e proprio?
Se una cosa ci era nota, è questa: gli americani sono sempre
stati pragmatici, anti-intellettuali; non si sono mai rotta la testa
sul perché delle cose. Gli era sufficiente capire come si
ottengono certi risultati pratici: nella loro Carta fondamentale
è previsto che si debba tendere alla felicità, e si
tratta di una felicità tutta terragna, da nuove frontiere
concrete, aggredibili, tanto spesso attinte, che hanno convinto
gli States che lintera società americana sia già
prossima alla perfezione.
Il secondo: il punto di riferimento degli intellettuali europei
è stato costantemente il proprio Paese, la propria nazione,
e solo in seconda istanza la comunità internazionale. Questo
riferimento è stato messo in crisi dal processo di unificazione,
che tuttavia fa fatica a trasformarsi da processo economico in processo
politico e meno che mai culturale. E privo di
autentici valori ideali, di progetti di grande respiro proiettati
nel futuro.
Tutto chiaro, dunque? Per nulla. Appena il breve spazio di un mattino,
ed ecco che il parco giurassico si rianima. Tranne Enzo Biagi, che
scrive dappertutto, tranne forse che sui muri, e che rifiuta di
firmare qualsiasi appello, e col nulla osta di Giorgio Bocca, per
il quale «nellera del dominio della cultura di massa
e della stupidità di massa, il manifesto-appello esprime
il desiderio dellélite di contare ancora qualcosa»,
i firmaioli della prima ora tornano alla ribalta: il torinese Alessandro
Galante Garrone (più 66 intellettuali) firma contro Comunione
e Liberazione e chiama alla vigilanza e alla militanza «i
veri democratici» per impegnarli contro i rischi di una nuova
dittatura; leurodeputato e filosofo Gianni Vattimo, che raccatta
firme a Strasburgo e denuncia «un grave rischio politico non
solo per lItalia, ma per tutta lEuropa democratica»,
per via della proposta di Storace di rivedere i testi di storia
utilizzati nelle scuole, contro la quale firmano un filosofo tedesco
(Jurgen Habermas), uno storico francese (Olivier Duhamel), e tanto
per cambiare, Galante Garrone, Paolo Flores dArcais, Asor
Rosa, Norberto Bobbio, Nicola Tranfaglia, e affini; il poeta Edoardo
Sanguineti (più un esercito di intellettuali) che chiedono
al direttore del Corriere della Sera la testa del critico musicale
Paolo Isotta, al modo del 1979, quando Gae Aulenti, Paolo e Vittorio
Taviani, Maurizio Pollini e Luca Ronconi reclamarono la medesima
decapitazione, senza peraltro ottenere nulla; e il grande
vecchio dellintellettualità nostrana, Norberto
Bobbio, che se la prende con Berlusconi (e fin qui, passi: è
una presa di posizione politica), ma anche con Karol Wojtyla, perché
a lui, cioè a Bobbio, che pochi mesi prima aveva scritto
di non credere in Dio, non piace la «familiarità con
i santi» in virtù della quale il pontefice polacco
«dimostra di essere un perfetto Papa della controriforma»,
e finisce col beccarsi la replica dellOsservatore Romano,
secondo il quale «è proprio vero, per chi è
ideologicamente anchilosato in un unico senso, la sapienza non cammina
con gli anni».
Mette in riga i professionisti della firma un intellettuale (non
a caso) americano: «Firmare appelli e pubblicare pronunciamenti
non è impegno. Per me impegno consiste soltanto
nel partecipare a reali eventi di cambiamento, condivisi con forze
socialmente effettive. Non si tratta più di impegno quando
lintellettuale si limita a parlare soltanto ai suoi simili».
Che è esattamente il contrario di quanto suggerivano personaggi
come Umberto Eco o Tullio De Mauro, quando apponevano
la propria firma in calce a un documento in cui ci si impegnava
«a combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato
fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento». Chissà
se oggi abbatterebbero quello stesso Stato che ha messo a loro disposizione
una cattedra universitaria e un ministero!
Dopo una certa età, ha scritto Franco Fortini, si diventa
intolleranti al ricorrere delle mode, ai cicli dei gusti. Agli anziani
quasi sempre ne viene scetticismo o cinismo. Ma di sommo fastidio
sono soprattutto le ripetizioni, per così chiamarle, permanenti.
Fine della citazione. E nuovo ricorso ad una testimonianza, questa
volta di Ferdinand Braudel: «La storia non è altro
che una continua serie di interrogativi, rivolti al passato in nome
dei problemi e delle curiosità, nonché delle inquietudini
e delle angosce del presente che ci circonda e assedia».
Dapprima esitante e attonito, questo tragico presente è diventato
incolto e violento, cioè volgare. Guardiamo il panorama:
per le strade girano silenziosi gli epigoni dei movimenti giovanili,
gli scaltri teenagers da fiera delle vanità, aggressivi e
alienati tanto al chilo, e non pare che né loro né
i nuovi e vecchi poveri né gli esuberi, né
gli emarginati, e nemmeno le massaie al supermarket abbiano una
luce felice negli occhi. Intanto, i cervelli grandi e piccoli dellitalico
joli mois de mai, assorbite le sbornie e le albe nei
covi catacombali, si perdono davanti agli schermi baluginanti della
tv o dei computer. Nelle strade e nei parchi non cè
più nessuno. Le piazze sono deserti in pugno a guardie e
ladri. La sera si esce, se si esce, guardinghi. La paura ci è
compagna tutti i giorni.
La sensazione che può trattarsi di una candid camera globale
non è poi così lontana. Trentadue anni fa, nessuno
avrebbe potuto pensare la stessa cosa. Trentadue anni fa si parlava
di realtà, non di effetti di realtà. Trentadue anni
fa si pensava alla vita come a qualcosa di indiscutibilmente vero,
non di terribilmente plagiario, come poi accadde quando si attese
una primavera, e fu solo Campagna di primavera scritta
col sangue in una Risoluzione strategica brigatista, che ha finito
per lasciarci in eredità gli echi angoscianti che ci assediano.
Oggi ci si sbrana in attesa di un futuro a sorpresa. Ma quali sorprese
ci allieteranno quando saremo a brandelli? Le alchimie, le profezie,
i vaticini? Abbiamo bisogno di così tanta sicurezza, oppure
siamo soltanto in attesa di una Grande Cosa Nuova, di un nuovo rigore
e di una nuova disciplina? Dietro langolo cè
una visione più umana o un nuovo totalitarismo? Ci sono i
sogni gentili di Martin Heidegger o le peggiori allucinazioni di
George Orwell?
Dice Peter Weir che nella fuga centrifuga di tutti noi cè
una certezza sola: il positivismo è finito, la fiducia nelle
sorti progressive è svanita, i lumi della razionalità
in grado di gettare luce e mostrare inequivocabilmente la via sono
spenti per sempre. La vecchia lezione è fallita. I maestri
sono stati in linea con la nostra storia di accaniti trasformisti.
Allora, firmino ancora quel che vogliono. Chi li aveva presi alla
lettera, o giace o si è dato pace. Sono finiti anche i saldi
di fine stagione. E noi, tirato un sospiro, accesa lennesima
sigaretta, proveremo come sempre altrimenti.
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