Marzo 2001

IL CORSIVO

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Gli anni
delle stelle fredde
Aldo Bello
 
 

 

 

 

 

Dapprima
esitante e attonito, questo tragico
presente è diventato
incolto e violento,
cioè volgare.

 

Ne azzeccasse mai una, Francesco Alberoni. Aveva scritto: sono scomparsi gli intellettuali. Sono scomparsi in pochi anni come certe specie preistoriche, come i dinosauri. E la gente non se ne è nemmeno accorta...
Gli intellettuali erano stati una presenza costante nella storia italiana ed europea. Molto spesso filosofi, ma anche riformatori religiosi, politici, scienziati, i quali, oltre che del loro campo specialistico, si erano occupati di problemi universali, ponendosi e ponendo interrogativi, criticando le idee correnti, facendo balenare nuovi orizzonti. Erano stati intellettuali Socrate, che aveva scavato nell’animo umano, e Platone, che aveva immaginato un nuovo tipo di organizzazione sociale. Galileo non era stato solo uno scienziato, né Pascal un semplice teologo. Marx non si era dedicato soltanto alle politiche economiche, né Lenin esclusivamente alla politica. Per non parlare del nostro passato prossimo, con gli Adorno, i Marcuse, i Sartre, e poi i Lacan, i Levy-Strauss, i Foucault, gli Aron.
Adesso, annota Alberoni, è calato il silenzio, a meno che non si squittisca al Costanzo Show o a Domenica in. Perché? Perché viviamo in un’epoca senza movimenti, ai quali gli intellettuali danno corpo e voce, con i quali si realizzano confronti e scontri. Ora siamo in tempi di stelle fredde: ciascuno si occupa della propria vita e dei propri interessi economici, senza trascendere gli orizzonti del proprio “particulare”.
La mutazione sarebbe avvenuta per due motivi di fondo. Il primo: noi plagiamo i modelli degli Stati Uniti. Dopo la crisi del marxismo negli anni Settanta e il crollo dell’Urss alla fine degli anni Ottanta, il modello americano ha vinto su tutti i fronti. Come mai? Non è forse perché l’Europa ha pencolato, magari per forza di cose, tra Est e Ovest, senza riuscire a darsi un modello unico e proprio?
Se una cosa ci era nota, è questa: gli americani sono sempre stati pragmatici, anti-intellettuali; non si sono mai rotta la testa sul perché delle cose. Gli era sufficiente capire come si ottengono certi risultati pratici: nella loro Carta fondamentale è previsto che si debba tendere alla felicità, e si tratta di una felicità tutta terragna, da nuove frontiere concrete, aggredibili, tanto spesso attinte, che hanno convinto gli States che l’intera società americana sia già prossima alla perfezione.
Il secondo: il punto di riferimento degli intellettuali europei è stato costantemente il proprio Paese, la propria nazione, e solo in seconda istanza la comunità internazionale. Questo riferimento è stato messo in crisi dal processo di unificazione, che tuttavia fa fatica a trasformarsi da processo economico in processo politico e – meno che mai – culturale. E’ privo di autentici valori ideali, di progetti di grande respiro proiettati nel futuro.

Tutto chiaro, dunque? Per nulla. Appena il breve spazio di un mattino, ed ecco che il parco giurassico si rianima. Tranne Enzo Biagi, che scrive dappertutto, tranne forse che sui muri, e che rifiuta di firmare qualsiasi appello, e col nulla osta di Giorgio Bocca, per il quale «nell’era del dominio della cultura di massa e della stupidità di massa, il manifesto-appello esprime il desiderio dell’élite di contare ancora qualcosa», i firmaioli della prima ora tornano alla ribalta: il torinese Alessandro Galante Garrone (più 66 intellettuali) firma contro Comunione e Liberazione e chiama alla vigilanza e alla militanza «i veri democratici» per impegnarli contro i rischi di una nuova dittatura; l’eurodeputato e filosofo Gianni Vattimo, che raccatta firme a Strasburgo e denuncia «un grave rischio politico non solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa democratica», per via della proposta di Storace di rivedere i testi di storia utilizzati nelle scuole, contro la quale firmano un filosofo tedesco (Jurgen Habermas), uno storico francese (Olivier Duhamel), e tanto per cambiare, Galante Garrone, Paolo Flores d’Arcais, Asor Rosa, Norberto Bobbio, Nicola Tranfaglia, e affini; il poeta Edoardo Sanguineti (più un esercito di intellettuali) che chiedono al direttore del Corriere della Sera la testa del critico musicale Paolo Isotta, al modo del 1979, quando Gae Aulenti, Paolo e Vittorio Taviani, Maurizio Pollini e Luca Ronconi reclamarono la medesima decapitazione, senza peraltro ottenere nulla; e il “grande vecchio” dell’intellettualità nostrana, Norberto Bobbio, che se la prende con Berlusconi (e fin qui, passi: è una presa di posizione politica), ma anche con Karol Wojtyla, perché a lui, cioè a Bobbio, che pochi mesi prima aveva scritto di non credere in Dio, non piace la «familiarità con i santi» in virtù della quale il pontefice polacco «dimostra di essere un perfetto Papa della controriforma», e finisce col beccarsi la replica dell’Osservatore Romano, secondo il quale «è proprio vero, per chi è ideologicamente anchilosato in un unico senso, la sapienza non cammina con gli anni».
Mette in riga i professionisti della firma un intellettuale (non a caso) americano: «Firmare appelli e pubblicare pronunciamenti non è “impegno”. Per me impegno consiste soltanto nel partecipare a reali eventi di cambiamento, condivisi con forze socialmente effettive. Non si tratta più di impegno quando l’intellettuale si limita a parlare soltanto ai suoi simili». Che è esattamente il contrario di quanto suggerivano personaggi come Umberto Eco o Tullio De Mauro, quando “apponevano” la propria firma in calce a un documento in cui ci si impegnava «a combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento». Chissà se oggi abbatterebbero quello stesso Stato che ha messo a loro disposizione una cattedra universitaria e un ministero!
Dopo una certa età, ha scritto Franco Fortini, si diventa intolleranti al ricorrere delle mode, ai cicli dei gusti. Agli anziani quasi sempre ne viene scetticismo o cinismo. Ma di sommo fastidio sono soprattutto le ripetizioni, per così chiamarle, permanenti.
Fine della citazione. E nuovo ricorso ad una testimonianza, questa volta di Ferdinand Braudel: «La storia non è altro che una continua serie di interrogativi, rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità, nonché delle inquietudini e delle angosce del presente che ci circonda e assedia».
Dapprima esitante e attonito, questo tragico presente è diventato incolto e violento, cioè volgare. Guardiamo il panorama: per le strade girano silenziosi gli epigoni dei movimenti giovanili, gli scaltri teenagers da fiera delle vanità, aggressivi e alienati tanto al chilo, e non pare che né loro né i nuovi e vecchi poveri né gli “esuberi”, né gli emarginati, e nemmeno le massaie al supermarket abbiano una luce felice negli occhi. Intanto, i cervelli grandi e piccoli dell’italico “joli mois de mai”, assorbite le sbornie e le albe nei covi catacombali, si perdono davanti agli schermi baluginanti della tv o dei computer. Nelle strade e nei parchi non c’è più nessuno. Le piazze sono deserti in pugno a guardie e ladri. La sera si esce, se si esce, guardinghi. La paura ci è compagna tutti i giorni.
La sensazione che può trattarsi di una candid camera globale non è poi così lontana. Trentadue anni fa, nessuno avrebbe potuto pensare la stessa cosa. Trentadue anni fa si parlava di realtà, non di effetti di realtà. Trentadue anni fa si pensava alla vita come a qualcosa di indiscutibilmente vero, non di terribilmente plagiario, come poi accadde quando si attese una primavera, e fu solo “Campagna di primavera” scritta col sangue in una Risoluzione strategica brigatista, che ha finito per lasciarci in eredità gli echi angoscianti che ci assediano.

Oggi ci si sbrana in attesa di un futuro a sorpresa. Ma quali sorprese ci allieteranno quando saremo a brandelli? Le alchimie, le profezie, i vaticini? Abbiamo bisogno di così tanta sicurezza, oppure siamo soltanto in attesa di una Grande Cosa Nuova, di un nuovo rigore e di una nuova disciplina? Dietro l’angolo c’è una visione più umana o un nuovo totalitarismo? Ci sono i sogni gentili di Martin Heidegger o le peggiori allucinazioni di George Orwell?

Dice Peter Weir che nella fuga centrifuga di tutti noi c’è una certezza sola: il positivismo è finito, la fiducia nelle sorti progressive è svanita, i lumi della razionalità in grado di gettare luce e mostrare inequivocabilmente la via sono spenti per sempre. La vecchia lezione è fallita. I maestri sono stati in linea con la nostra storia di accaniti trasformisti. Allora, firmino ancora quel che vogliono. Chi li aveva presi alla lettera, o giace o si è dato pace. Sono finiti anche i saldi di fine stagione. E noi, tirato un sospiro, accesa l’ennesima sigaretta, proveremo – come sempre – altrimenti.

   
   
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