Il treno si fermò
a Foggia, perché la stazione era stata occupata dalle squadre
fasciste
che lindomani
avrebbero dovuto marciare
sulla Capitale.
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Nel nostro presente, ma io mi limiterei a dire solo orizzonte,
è entrata la nuova economia, che designa tutta linnovazione
dallorbita tecnologica a quella finanziaria. Un binario privilegiato
per tutti e per tutto è linformazione e la comunicazione.
Per questi termini cè la debolezza dellItalia
e degli altri Paesi europei, essendo attuale, vigente, solo negli
Stati Uniti.
Debbo però subito affermare che per noi la leggenda non è
mai esistita, perché ci siamo sempre esibiti e confrontati
fra noi sul fatto, sulla persona, sui valori singoli e individuali
e li abbiamo comunicati nella verità. Almeno nella nostra
verità. Perciò i grandi inviati sono divenuti grandi
reporter. E io stesso nella mia lunga carriera ho aspirato
e aspiro ancora a poterla concludere con questa qualifica.
Daltra parte i miei articoli sul settimanale della nostra
Federazione hanno riaffermato lobbligatorietà per la
nostra professione della legge del mercato, che è poi quella
dellopinione pubblica. E si tratta di articoli che risalgono
per lo meno al 1993, anno in cui mi dovevo dividere dalle cifre,
delle quali ho vissuto tutta la mia vita professionale, perché
lultimo mio articolo comparso sulla bella e importante rivista
Dimensione, edita dalla Camera di Commercio di Pescopagano, recava
come titolo Il prodotto interno lordo è unopinione.
Qualcosa di simile scrive un giornalista di spicco, Giorgio Bocca,
nel suo articolo La trappola del PIL, affermando tra
laltro che la tecnica e le scoperte sono a doppio taglio e
che il feticcio del prodotto interno lordo non è un rimedio
(LEspresso, 21 novembre 2000).
Sette volti, uno di essi non da leggenda, nella mia vita
Sono Nitti, mio compaesano e mio familiare, un colonnello
monarchico del 1922, Alberto De Stefani, Angelo Costa, Luigi Gedda,
Luigi Medici, Giulio Andreotti.
Ma prima di condurvi a questo confronto, debbo aggiungere che cè
il mio 3 giugno 1909 di nascita a Melfi e ora cè il
Giubileo a Roma, da giornalista decano, anticipato ma bruciato dal
tempo. Passato da impensabili Vie dellImpero, rivista del
1927 che richiese il mio primo articolo, alla trattazione dei fatti
del giorno in ogni momento preceduti dalla verifica.
Limmediatezza del passato cè stata solo nel teatro,
e solo perché non poteva diversamente essere. Forse perciò
cera un disegnatore satirico le cui caricature venivano presentate
come ritratti. Si chiamava Onorato, ma di lui le presentazioni giornalistiche
titolavano lOnorato Teatro. Era mio vicino di casa, sapevo
che era di Lucera, si distingueva per laccoppiamento con il
suo vestito di un britanno fiocchetto al collo. Già allora
per me queste erano cose importanti e non so ancora la ragione di
questa secondaria scelta, diremo così, di costume. Oggi però
si parla anche di Dario Fo, premio Nobel, passato dal teatro al
teatrino.
Ed eccomi a parlare di Nitti, ancora una volta per voi, miei eventuali
lettori.
Lha chiamato in causa anni or sono Giulio Andreotti, che avendo
contato i senatori proposti dal grande statista quando questi nel
dopoguerra aveva bisogno dellapprovazione del Capo dello Stato
li confrontò con quelli suoi, in numero minore, che avevano
bisogno di concorrere ad una maggioranza parlamentare che forse
lui avrà potuto ottenere. Ciò evidentemente non mi
ha mai interessato e forse ne sanno qualcosa gli enciclopedici archivi
di Andreotti, che non ha neppure Cossiga, pur essendo un professionista
della politica. Qualcuno, per me erratamente, condivide invece la
passionalità con la politica. Secondo Andreotti, nel commentare
il raffronto Nitti si sarebbe rivolto a lui con un eufemismo popolaresco,
che Nitti non ha mai usato, neppure dopo il suo ritorno dallesilio,
che a me fece scrivere che disponeva, per il suo imprescindibile
uso delle pantofole, solo dellattrattiva elettoralistica di
un vagone letto. Ma allora già cera il porta a porta,
durissimo a morire, e al quale si è venuto reagendo con lastensionismo.
Andreotti, almeno questa volta, non è bene documentato. Perché
non sa o non gli è stato detto che fra l8 e il 10 ottobre
del 22 Mussolini e Federzoni si dichiararono favorevoli ad
una soluzione imperniata su Vittorio Emanuele Orlando e che lo stesso
Mussolini nelle delusioni del 25 luglio ricordò che neppure
la guerra del 15-18 era stata popolare, e che il tanto
noto Cacoia, inventato da DAnnunzio, amico di
Nitti e condiviso da Mussolini, aveva dovuto ricorrere alle amnistie.
Ma in quali condizioni? Ne parla Nitti nel quarto volume delledizione
nazionale delle sue opere. Ma ne parlano anche i 25 caduti e le
centinaia di disertori della sua e mia terra natale.
Nitti mi riporta alla mia primissima fanciullezza, aperta ai giornali.
Lo era, perché a cinque anni ero al corrente del famoso processo
romano Cavallini, che vedeva a Napoli implicato un sacerdote, don
Minzoni. Un fratello di mio padre difendeva il prete, il suocero
difendeva limputato principale.
Non solo i giornali circolavano per casa, ma anche le notizie dirette
comunicate alla nonna e da essa trasmesse a tutti i nipoti, nipoti
che avevano aggiunto al proprio nome un numero, quello romano. Perché
ci chiamiamo tutti Gennaro, come il nonno paterno. Questi non lho
mai conosciuto perché sono nato un anno dopo la sua morte,
e ho preso il posto di un mio fratello, dello stesso nome, morto
di polmonite, perché allora non era stata ancora scoperta
la penicillina.
Ma cera anche la prima guerra mondiale che stava per scoppiare,
nonostante il parecchio contrario di Giolitti e la nascosta
denuncia italiana della Triplice, nella quale cerano già
Salandra e Orlando. Il Mattino, il giornale di Napoli che arrivava
a Melfi nel corso dellanno anche con una corsa ciclistica
e tazzine regalate agli abbonati, era tra le mani anche dei bambini.
E poi cera il mio interesse, accompagnando mio padre la sera
sulla piazza, ai commenti che egli scambiava con un suo carissimo
amico, che molto stimava, sui libri che Formiggini stampava. E si
trattava di letture molto sofisticate anche per ambienti più
avanzati del mio.
E poi più tardi è arrivato Il Mondo di Giovanni Amendola,
ma pubblicato da Alberto Cianca. Proclamava una politica che anche
mio padre condivideva e anche io pretendevo di doverne sapere qualcosa.
Sapevo nientemeno che i principali giornali avevano uno stenografo,
che era pure giornalista. Uno di questi era lavvocato Vico
Pellizzari.
Sapevo pure che ci si rivolgeva politicamente ai giovanissimi, definiti
poi Balilla, e fra questi cero anchio, che un paio di
mesi sarei partito per Roma, dove avrei ascoltato il grido di saluto
al Re da parte di un colonnello.
In partenza con mio padre lui per i suoi doveri e speranze
verso di me e con la prospettiva di una cattedra di diritto ecclesiastico
allUniversità di Perugia, e io con i miei doveri di
studente della 4ª ginnasiale e di essere presente alla prima
lezione al Quirino Visconti, collegio romano giunti a Foggia
fummo fermati con il treno alla stazione, perché questa era
stata occupata dalle squadre fasciste che lindomani avrebbero
dovuto marciare sulla Capitale. Ripartimmo con loro in tempo perché
Mussolini potesse avere lincarico di formare il nuovo governo.
Vi fu la conseguente sfilata delle squadre fasciste davanti al Quirinale
e al Re Vittorio Emanuele. E fu davanti al Palazzo della Consulta,
accompagnato, anzi custodito da mio padre, che fui colpito più
che dagli applausi della folla dal solitario anziano signore che
dopo aver gridato il nome del Re per tre volte, rimanendo inascoltato,
concluse con un: «Ho capito». Aveva capito per primo.
Aveva cioè compreso che ad un re soldato sarebbe successo
qualcosaltro. Non certo che avrebbe, per valutazioni aridamente
parlamentari, fiancheggiato la dittatura e consentito le guerre
dellEtiopia, dellAlbania e dellAsse. Forse auspicava
un re Umberto II, e non il principe, che aveva sempre e solo obbedito,
sapendo essere solo Re quando ha abdicato per espatriare in Portogallo
e da esule, abbandonato anche dai suoi strettissimi familiari, la
moglie e i figli, morire solo in una clinica di Cascais. Forse limmaginazione
di quel vecchio signore che aveva attratto la mia attenzione era
rivolta ad uomini che prima o poi avrebbero opposto e fatto prevalere
il lealismo sabaudo sul regime mussoliniano.
Io ho conosciuto uno di questi convinti, era Edgardo Sogno. Lho
conosciuto durante il fascismo nel Gabinetto di un ministro fascista
degli Scambi e Valute, direttore di una rivista dal titolo Economia
Fascista, che compilavamo con Santi Savarino, antifascista silenzioso,
ma solido mio amico anche tanti anni dopo, quando lui, amico di
Don Sturzo di cui era conterraneo, ne favoriva al ritorno dallesilio
lattivita giornalistica, essendo anche divenuto senatore democristiano.
Ma in quel Gabinetto, di cui prima ho detto, cera anche Edgardo
Sogno, che io notai perché silenzioso, elegante in un grigio
vestito, carattere insolitamente torinese, lì. Scambiammo
una sobria chiacchierata. Non so chi sia stato nella Resistenza.
Quale postumo riconoscimento gli sia stato dato. Quale sia stata
la sua vera e intima convinzione. So ora che la dicotomia tra resistenza
antitotalitaria e resistenza comunista fu nel dopoguerra il filo
conduttore di tutte le politiche di Sogno. Forse lanima del
vecchio signore del 22 con il suo «ho capito»
sarà alfine così sopita.
Ed ecco laltro volto che si risveglia in me, e con il quale
ho avuto il privilegio di collaborare dal 1946 al 1970 in Confindustria,
in due lunghe fasi della sua presidenza, e cioè da quando
recò a Roma il vento degli industriali del Nord a quando,
per puro spirito di servizio, ne ha riassunto nel 66 fino
al 1970 la presidenza. Gli ho organizzato le sue prime quattro conferenze
stampa, tra laltro con i miei comunicati che per lui dovevano
rappresentare e perciò subire una scaletta. Lho rivisto
molti anni dopo indifferente a temi da altri svolti nella sua presidenza.
Chi sbadiglia, pensavo, non decide. Eravamo però nel 68,
ed egli si scosse ad una mia affermazione, e cioè che nella
scuola si era creato un vero e proprio rapporto sindacale e reagì
con una domanda di curiosità: chi è il datore di lavoro?
Si sentì rispondere con il mio, da lui inaspettato, «gli
studenti». Per lui erano due 68 che non dovevano esserci,
ma allora alla Normale di Pisa cerano anche le bombe molotov
comuniste, di qualche successivamente grosso esponente comunista.
Su Costa ci sono stampati molti libri contenenti le sue frequenti
lettere a De Gasperi, due uomini che io considero (e come me tanti
altri), con Einaudi e con Di Vittorio, tra i fondatori della nuova
Italia.
Una volta mi disse che gli piaceva un sindacato unitario e forte
e un Di Vittorio si stimavano reciprocamente comunista,
il primo dal volto umano. Allora cera anche il Togliatti della
svolta di Salerno e sua moglie Montagnani, che capeggiava le donne
comuniste e che saliva le nostre scale di Piazza Venezia non solo
per protestare ma anche per proporre.
Su di lui si sono scritte tante cose. Riguardano la sterilizzazione
del problema dei comitati aziendali di gestione, lavviamento
della scala mobile, della quale oggi ci si domanda cosa sia. Ma
ora un vice presidente della Confindustria, Mondello, scrive che
«Costa rappresenta unalta figura morale, che ci ha insegnato
come si possa coniugare cultura e intelligenza con il mondo dellimpresa».
A me è capitato di collaborare con questo tipo di presidente,
e anche con De Michelis, con Cicogna, con Lucchini, con Carli. Ma
la mia presenza nei computer della Confindustria, che pure è
cominciata nel 38 ed è finita nel 77, mi è
riconosciuta per la direzione del 46 della Gazzetta per i
lavoratori e nellinvito da qualche anno alle assemblee confindustriali,
molto strategiche. Nulla si sa dellazione della Gazzetta per
i lavoratori nel 48, nulla dellAttualità Stampa
del 62 (riviste volute per linformazione, e non per
la suggestione dei lavoratori), la quale ultima quando era indispensabile
cera, senza dover ricorrere allotturazione del naso,
come suggeriva sia pure a malincuore Montanelli. Non cè
la lettera di Guido Carli, che mi ringrazia per la mia condotta
nella conclusione del rapporto confederale con il Circolo di Studi
Diplomatici, essendone stati componenti i più grandi ambasciatori
italiani del Novecento, e io il regolatore, a ciò delegato
dalla Confindustria. Il suo presidente, ultimo da me visto che era
stato funzionario della stessa sul finire del fascismo, si interessò
con me di sapere solo le ragioni del trasferimento allEUR;
il resto lo affidava al suo direttore generale, Savona, che mi comunicò
lo sganciamento che avrei dovuto operare e dellutilizzazione
della mia persona, che non fu da me richiesta. Tutto per me con
questa Confindustria della mia vita è finito lì, con
la personale amicizia per tre veramente grandi nellalta burocrazia:
Gian Battista Codina, Mario Morelli, Franco Mattei, al quale ebbi
a dire che era sprecato per la Confindustria essere destinato più
in alto. Come difatti è proprio avvenuto.
Ma a fronte di questa Confindustria, cè stato Alberto
De Stefani, per lintera sua vita di ministro preside della
Facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza, scrittore storico-finanziario,
che non ha dovuto mai attendere 50 anni per far valere il proprio
pensiero e la propria azione, come sembra sia accaduto a Sarcinelli,
altro grande di questi studi nel secolo scorso.
Lho conosciuto sul finire della sua vita, dopo una sua lettera
indirizzatami il 23 giugno del 1957, nella quale oltre a dire di
«essere lieto di mandarmi una testimonianza della sua simpatia
per me e per lopera mia» (ma io della validità
di questa non mi sono mai accorto) scrive che il suo è uno
scritto con cui ha raggiunto, in breve tempo, il pareggio del bilancio
dello Stato: Prosperità e non fiscalità, che ha anticipato
di oltre 40 anni la politica di Kennedy e di Johnson. Ma cosa si
dice ora che sono passati da allora altri 40 anni? La carta intestata
di De Stefani è alla dannunziana, Tutto prima del tramonto.
Ma che cosa dicono questi tramonti ai loro responsabili?
Fra questi non cè Luigi Gedda, che ho visto solo due
volte, ma con il quale ho collaborato fino agli ultimissimi Comitati
Civici, quelli fino al 62. Gedda, due mesi prima delle elezioni
del 18 aprile del 1948, fondò i Comitati Civici, dopo aver
ricevuto lidea da Papa Pio XII con due indicazioni: mobilitare
i cattolici e gli italiani con unefficace propaganda in grado
di opporsi al PCI e superare lastensionismo. Gedda ha concorso
ai risultati che si conoscono, ed è stato protagonista nella
battaglia per la libertà e per la democrazia. Non ha chiesto
nulla, ma ha avuto un bastone: quello delle parrocchie. Egli ne
ha aggiunto un altro: quello della Confindustria, e lha trovato
subito e pronto. Ci sono stato anchio. Egli è morto
solo e dimenticato alcuni mesi fa. Lo hanno definito il grande regista
dei Comitati Civici.
Ed eccomi ora a ricordare un altro grande dellItalia, Luigi
Medici. Gran parte della mia attività professionale si è
dovuta incontrare con la sua. Nato a Sassuolo nel 1907, io a Melfi
nel 1909, è morto a 93 anni, qualche mese fa. E stato
definito alla sua morte un artefice del miracolo italiano, già
morto per gli altri, ma superstite con la propria coscienza e con
la mia fede. Ho avuto sempre a che fare con lui e lho trovato
sempre amichevolmente disponibile.
Sapeva, e gli era stato riconosciuto, che aveva la vocazione dellinsegnamento
e del naturale affiancamento con i giovani. Già nel 1950
Luigi Einaudi lo esaltava. Forse perciò era pronto a scrivere
il riassunto dei suoi interventi ai convegni indetti dalla Rivista
Politica Economica, allora apparentemente edita dallAssociazione
delle società per azioni. Questi riassunti mi preoccupavano,
ma lui a mia richiesta si prestava a scrivere quelli che li riguardavano.
Non altrettanto faceva Giacomo Acerbo, le cui benemerenze
fasciste (mi sembra da preside della Facoltà di scienze
economiche) gli facevano credere di potersi distaccare da noi giornalisti
con la penna in mano di allora. Però di questi non si può
certo dire quanto si è scritto di Medici, passato indenne
da ogni contaminazione di mani pulite, e tra il ristretto manipolo
di uomini che hanno creato le basi perché lItalia divenisse
una delle maggiori potenze industriali.
E concludo con Giulio Andreotti. Ho già detto prima qualcosa
di lui. Conosco di lui solo la brillantina in testa, come quella
da me sempre usata, al punto da farmi confondere con lui dal raffinato
venditore di pipe della vicina Piazza Montecitorio, dove Andreotti
aveva il suo studio prima di passare a Piazza in Lucina. Egli era
amichevole e quasi garante dei giornalisti che avevano gli uffici
nel suo palazzo. Verso le otto del mattino andava a Montecitorio
e veniva circondato dai giornalisti. Qualcuno di loro era mio amico,
uno, fiorentino, si chiamava Guido Naroni, era stato direttore del
Popolo di Roma, era passato a Salò, per dirigere a Venezia
il Gazzettino, era stato direttore dellagenzia ARI a Roma,
era divenuto anche direttore di Esteri, Rivista del Ministero degli
Esteri, era amico di una certa dirigenza politica della Confindustria.
Contava e sapeva contare. Da fiorentino era riuscito a sposare uninglese,
con tutto quanto può significare una donna inglese di un
certo livello. Disponeva di capitali propri, che a quellepoca
impressionavano.
Probabilmente ci sarà stato alle sue spalle qualche sorriso
compiacente o per lo meno giustificativo; anche di quello non cè
traccia negli archivi. Di chi parlo certamente non cè
traccia in quello di Cossiga, che a me piace per la prevalenza della
passione sulla politica e così si può parlare di unItalia
mancata.
Il prevalente alleato del mercato
Quelli fin qui tracciati sono per me ritratti, fotografie allo
stesso tempo percepite ma reali. Il nostro lavoro ha a che fare
con molti valori: la logica, limmaginazione, naturalmente
proprie, ma suscettibile e forse pure bisognosa di contributi esterni,
che aprono la mente e si avvicinano alla verità che è
quella che conta perché è anche etica. Ci rivolgiamo
infatti agli altri, nel rispetto dei nostri valori, che ci differenziano
spesso dagli altri e non ce ne dobbiamo affatto dispiacere. Ho letto
perfino che la diffamazione è un reato che va abolito. Ma
i reali intendimenti sono quelli di modificarlo, come la Camera
del resto sta facendo. Ma noi stiamo a discutere sullidentificazione
del diritto, sui troppi veleni che essendo in mare sono anche sui
media, sulleliminazione dei vertici che vogliono comandare
sugli altri, sullidentificazione del pensiero, di quel pensiero
che garantisce tutti, sul ripudio di ogni trappola.
E appunto come trappole si aggirano certi programmi da definire,
che oltre sempre da definire, qualcosa devono farci pur sapere sulla
loro attuabilità. Pure in questa o in quella sottocompagine
minore dove si parla di Welfare, di situazioni da riformare e di
livelli di spesa da aumentare, di pronto coinvolgimento anzitutto
strutturale del Mezzogiorno, di riduzione del suo deficit occupazionale
cui fa da riscontro lattivazione imprenditoriale e di manodopera
del Nord, di aumenti di spesa soprattutto nel campo delle tante
opere pubbliche urgenti quasi ovunque, di indefiniti incrementi
di spese per gran parte del personale pubblico: scuole, sicurezza,
giustizia, accoglienza dellimmigrazione non delinquenziale.
I mezzi di copertura quasi sempre si affidano a generiche previsioni
(molto spesso denunciate nella loro infondatezza o nella loro incapacità
di tradursi in reali apporti specifici dal Governatore della Banca
dItalia, più eloquente oggi di quanto siano stati nel
passato tutti i suoi predecessori, e ciò perché i
tempi sono quelli che sono e la loro sepoltura non appare vicina).
E che deve dire e cosa dice la stampa? Riferisce e commenta. E conduce
ad essere dispersiva nella puntualizzazione delle notizie
quella finanziaria, in particolare, accumula le notizie anche minori
per farne derivare indicazioni per il tanto incerto oggi investitore
e piccolo risparmiatore, al quale ormai è innanzi agli occhi
un già fiscabile riducibile 5% sui BOT, che sale e scende
ma anche ad essere distorsiva.
E così ogni giornalista deve entrare nella riflessione, che
deve fare i conti con limmediatezza della comunicazione della
notizia. Talvolta ci si rivolge ad esperti nordamericani, ma nessuno
di loro sembra molto più esperto di noi, delle nostre cose,
come noi del resto sappiamo altrettanto poco delle loro cose, proprio
perché la globalizzazione conosce lestraneità
anglosassone, se ne ipotizzano effetti che ancora non ci sono (sempre
che ci saranno) ed è ancora in gestazione, oggetto di spinte,
di mitigazioni, di resistenze. Norme e istituti in gran parte ci
sono, ma lorizzonte è quello di certi Paesi europei,
a cominciare dal nostro.
E poi ci sono le tante trappole, per dirla con parole del già
ricordato nostro collega Bocca, a doppio taglio.
Cè quella che riguarda la nostalgia del passato (un
Andreotti e un DAntoni che pensano ancora ad aggregazioni
di unificazione delle forze cattoliche, che ognuno vuole invece
dalla propria parte nascondendo il più possibile il proprio
irrinunciabile).
Cè ancora la trappola per salvare il salvabile. Se
ne parla per la Thatcher, con la sua rinnovata onda tuttora lunga.
Cè la trappola della ricerca e della contestazione
del nuovo solo perché è nuovo: poi si vedrà
quello che cè dentro. Purtroppo, però, non siamo
ad un mercato ortofrutticolo di certa frutta o di certe zucche,
piccole o grandi che siano. Cè la trappola delle cifre
ufficiali. Cè ancora la trappola dellillusione
dellesistenza di un pensiero che automaticamente ci difende
dallutopia, ma non ci porta al reale. E ciò perché
in quasi tutti i Paesi ci sono governi che dettano alle loro opposizioni
i propri provvedimenti, tutte provvidenze, ecc. che poi si accompagnano
a sondaggi dopinione, vincenti pure sugli assenteismi.
Molti di noi domandano spiegazioni, ma a rispondere è sempre
un vago da interpretare, e spetta a noi giornalisti doverlo fare,
perché è linformazione di qualità che
deve vincere. Una volta si diceva: «vincere e vinceremo».
Addirittura questo era il finale anche delle lettere private. Ma
la stampa allora, come i libri scolastici e storici, erano quelli
che erano, come oggi sono sopravvenuti gli altri, che da qualche
parte almeno si dice che siano almeno da aggiornare. Daltra
parte, si sa che la storia è sempre contemporanea.
Noi giornalisti poi abbiamo a che fare con un diritto che è
fatto in TV, con il tanto discusso filmato sulla pedofilia o quello
sul linciaggio in Palestina, con richieste anche che provocano scioperi
di colleghi e giornali e che riguardano il rinnovo del contratto,
ma che affermano di non chiedere privilegi ma garanzie affinché
ai cittadini arrivino informazioni sicure, libere dai condizionamenti
politici, economici e pubblicitari. Un programma ambizioso, avrebbe
detto De Gaulle, di fronte ad un corteo che lo circondava e che
invocava «morte ai coglioni». Ma questa volta si tratta
di noi, di noi tutti, con la nostra battaglia, che è soprattutto
personale, di difesa della fede e della vocazione in noi stessi.
Intanto ci viene annunciato laccordo tra il nostro Ordine
e la Statale di Milano: Per i giornalisti accordo in Ateneo.
Tanti sono gli atenei in Italia e tanti i nostri ordini in sedi
di atenei. Aumentiamo tutti impegno e sforzi. Cè un
lungo cammino da percorrere.
Io personalmente credo di avere avuto alla Sapienza di Roma nel
1929 un primo riconoscimento. Il titolare della cattedra di Diritto
internazionale, Tommaso Perassi, consulente allora del ministero
degli Esteri, mi disse ufficialmente che la mia tesi di laurea sulle
Capitolazioni, da lui suggeritami, era una trattazione giornalistica
e non accademica. Mio padre, docente, mi ottenne il cambio di relatore.
Ma il presidente della Commissione di esame, il grande commercialista
Cesare Vivante, ebbe a dirmi che il mio curriculum di studi era
discontinuo. Io però continuai per la mia strada, che è
sempre stata quella che ha avuto e ha a che fare con lincubo
dellattrazione della lettera 22. La mia porta
oggi il numero 25: nella lotteria oggi dominante facciamo circolare
anche queste cifre.
Non amo più le cifre, ma...
Per dovere professionale, devo dirvi anzitutto che bisogna guardare
con sguardo più attento le cifre di inizio delle carriere,
a cominciare da quella scolastica. Qualcuno ha ricordato in questi
giorni che Mozart aveva sei anni quando ha rivelato il suo genio
e la sua magia arrivando con fatica alla tastiera del pianoforte.
Io, a livelli bassissimi, a 5 anni, avevo scritto sulla pagina di
un diario scolastico sotto il titolo di un Dettato,
ma si è trattato di un Copiato, che non è sopravvissuto,
ma la pagina è sotto i miei occhi, con un bel 10 da me apposto.
Andavo già a scuola di infanzia, presso una maestra che a
casa mi dava lezioni e si chiamava Stella. Mia madre, che mi aveva
accolto con maglie di lana di pecora, di cui ricordo il colore e
il prurito, perché mio fratello predecessore era morto di
polmonite, (allora non cera la penicillina, come ho prima
ricordato), mi aveva trattenuto con lei per tre anni, ma al quarto
anno corresse le mie intemperanze mandandomi a scuola, con due vestiti
nuovi, di cui ricordo il colore. E così è cominciata
la mia corsa ai voti. Io il mio 10 però me lo ero segnato,
ma la mia vita non me li ha più fatti vedere.
Ma per noi tutti ci sono cifre più serie, più vere,
più autentiche, anche se a volte più negative. Un
terzo degli italiani legge e scrive con molta fatica, un altro terzo
supera queste difficoltà, vale a dire che non legge libri
o giornali e preferisce la televisione. E poi un altro terzo è
analfabeta di ritorno, perché una volta chiusi i libri di
scuola non li ha più riaperti. E per dare una spiegazione
cè anche Stendhal che ci dà una mano, con una
domanda: «Se non ci si diverte, perché si insiste ad
insegnare?».
Impariamo, impariamo anche noi. E non bastano per il giornalismo
scritto i titoli di prima pagina, e per quello parlato e visivo
la voce o la mimica. Ci sono naturalmente le ricette. Ma io, alla
mia età, non ne conosco alcuna. Cerco sempre i soliti quattro
lettori...
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