Emerge
il notevole divario tra il Mezzogiorno
e le altre ripartizioni territoriali, divario che le politiche
di intervento
straordinario non sono state in grado di colmare.
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Lorganizzazione del territorio e della società locale
improntata al modello fordista-keynesiano, che aveva dominato la
scena mondiale sin dagli anni Venti, iniziò a denunciare
a partire dagli anni Settanta segni manifesti di crisi. Al fallimento
dellimposizione alle regioni economicamente più arretrate
dei modelli di crescita affermatisi con successo nelle aree a tradizionale
vocazione produttiva, presupponendo che «la diffusione dello
sviluppo si sarebbe realizzata senza incontrare ostacoli in quanto
lambiente veniva concepito come passivo, indifferenziato e
incapace di auto-organizzarsi» (Conti, 1997), si aggiunse
il declino della polarizzazione industriale anche nelle aree forti.
I cambiamenti del mercato, e particolarmente la sua crescente segmentazione,
i costi e le rigidità della gerarchia delle grandi imprese
fordiste, il processo di globalizzazione sollecitato dalla progressiva
liberalizzazione del commercio internazionale (dovuto, fra laltro,
alla creazione della World Trade Organization nel 1986) e allazione
delle imprese transnazionali (Giaccaria, 1999) sempre più
numerose a seguito di acquisizioni, fusioni e joint-venture tra
società di Paesi diversi, e, infine, lincremento della
concorrenza internazionale a seguito dello sviluppo di Paesi di
nuova industrializzazione (Newly Industrializing Countries, NICs),
possono essere annoverati tra le cause della crisi del modello organizzativo
fondato sulla produzione di massa. Da ciò scaturì
lavvicendamento tra il paradigma tecnologico proprio del fordismo,
e cioè la produzione standardizzata, e quello che Piore e
Sabel (1984) definirono come il nuovo paradigma dellorganizzazione
industriale, rappresentato dalla specializzazione flessibile. Con
una domanda da parte del mercato sempre più polverizzata
e differenziata, una struttura che sia flessibile, cioè in
grado di seguire tale domanda nei suoi continui mutamenti, e che
sia specializzata per far fronte alla incessante richiesta di una
qualità superiore, rappresenta la soluzione produttiva ottimale.
Essendo flessibilità e specializzazione prerogative soprattutto
di strutture produttive di ridotte dimensioni, ne è derivato
laffermarsi delle piccole imprese non solo a un livello locale,
caratteristica questa che esse non avevano perso neppure negli anni
di pieno dominio della produzione di massa centrata sulla grande
impresa fordista, ma anche a un livello sopranazionale, specialmente
in produzioni influenzate dalla moda e in quei settori in cui il
processo produttivo è divisibile in fasi diverse (Trigilia,
1994).
Punti di forza di questo processo sono: lintroduzione di nuove
tecnologie (microelettronica e informatica, che coinvolgono oggi
la quasi totalità della produzione manifatturiera) e la flessibilità
del fattore lavoro (elasticità di orario, pluralità
di mansioni, disponibilità agli straordinari e a rapporti
di lavoro a tempo determinato, accettazione del cottimo,
ecc.).
Si sono andati così sempre più accentuando quei fenomeni
di deurbanizzazione, delocalizzazione e deindustrializzazione che
sin dagli anni Settanta erano stati favoriti dalla caduta dellimpedenza
territoriale a seguito dellaccresciuta disponibilità
di sistemi di trasporto, segnando, così, il passaggio dalla
gerarchizzazione degli spazi alla deverticalizzazione regionale
(Celant, 1988): «alle relazioni verticali ed alla crescente
integrazione, che esaltavano il ruolo gerarchicamente dominante
della grande regione urbano-industriale, si sono aggiunte, spesso
sostituendole, relazioni orizzontali e delocalizzazioni che diminuiscono
la dipendenza dei sistemi locali minori, favorendo il reciproco
interscambio e il dipanarsi di una trama sempre più densa
di flussi materiali ed immateriali» (Dini, 1995).
Il clima favorevole alle piccole e medie imprese e quindi
a una industrializzazione diffusa che ha nella elasticità
del ciclo produttivo e nel formarsi di strutture di impresa a rete
le sue peculiarità, non pregiudica lesistenza delle
grandi imprese che, anzi, stanno facendo leva proprio sullintroduzione
della microelettronica per ristrutturarsi. Del resto «i prodotti
standard non solo non sono stati espulsi dal mercato, ma rappresentano
ancora la componente largamente maggioritaria dellofferta,
e gli investimenti richiesti dallautomazione flessibile tendono
a rendere le economie di scala la strada più sicura per lammortamento»
(ibidem).
Lo scenario mondiale che ne consegue non è chiaramente definito
e non è privo di contraddizioni: se alcune tra le grandi
aziende occidentali si stanno muovendo sulla strada di un «qualcosa
che non è ancora chiaro che cosa diverrà - post-fordismo,
neofordismo, specializzazione flessibile o altro» (Becattini,
1994), le aziende orientali, quelle giapponesi in particolare, hanno
evitato del tutto la dialettica fordismo-post-fordismo, dimostrando
che la produzione flessibile non è in contrasto con le grandi
dimensioni e che la partecipazione dei lavoratori non è solo
esclusiva della produzione non di massa. Kanban e just-in-time sono
le parole chiave di tale connubio.
La più rilevante conseguenza spaziale di tale processo è
il fiorire di numerose imprese subfornitrici che fanno pieno assegnamento
sulla prossimità al committente e sulla presenza di una fitta
trama di relazioni tra le imprese, elemento, questo, che può
portare allo sviluppo di particolari aggregazioni imprenditoriali
sul territorio, comè il caso dei distretti industriali.
E stato questo aspetto, più che quello propriamente
produttivo, di tale nuova forma di organizzazione della produzione,
ad aver attecchito nelle economie occidentali, già ricche
di capacità ed esperienze relazionali tra imprese ma, al
contrario, scevre delle attitudini necessarie per ladozione
di forme pure di just-in-time, alle quali sono state preferite forme
ibride di just-in-case e just-in-time e forme di produzione
snella (lean production, cioè una produzione in cui
si esternalizzano fasi specifiche del ciclo produttivo interno alla
fabbrica attraverso un ampio ricorso alla subfornitura) (ibidem).
Tutto ciò ha ulteriormente stimolato quelle forze endogene
delle varie regioni, quelle specificità locali
che la precedente visione dello sviluppo capitalistico considerava
come «obsolescenze da eliminare e che oggi vengono considerate,
invece, come importanti fattori della competitività e della
crisi, del benessere e della miseria, dellespansione e della
recessione: molteplici ispirazioni e teorie hanno così restituito
al territorio un ruolo fondamentale per la spiegazione dei comportamenti
economici e sociali» (Giaccaria, 1999).
I sistemi locali del lavoro
I sistemi locali del lavoro (SLL) sono aggregazioni di Comuni che
identificano mercati del lavoro omogenei indipendentemente dallesistenza
di vincoli amministrativi, quali lappartenenza a una data
Provincia o Regione (ISTAT, 1999a). Lenfatizzazione dellaspetto
del lavoro nella denominazione del sistema locale deriva proprio
dal fatto che i sistemi locali del lavoro sono stati individuati
a partire dallinformazione sul pendolarismo, cioè su
quel fenomeno che concerne gli spostamenti giornalieri dei componenti
il nucleo familiare tra comuni diversi per motivi di lavoro o di
studio.
Lintroduzione nel censimento della popolazione di un quesito
sugli spostamenti giornalieri, avvenuta per la prima volta con l11°
Censimento generale della popolazione del 1971 e ripetuta in occasione
dei successivi censimenti del 1981 e del 1991, risulta strumento
indispensabile per lindividuazione dei SLL. Anche se lIstituto
Nazionale di Statistica realizzò nel 1971 solo uno spoglio
campionario di tali dati, la possibilità, per le regioni
che ne facevano richiesta, di procedere al loro spoglio integrale,
permise laccumulazione dellesperienza necessaria per
una regionalizzazione del territorio italiano (ISTAT, 1997).
Per regionalizzazione, in questo caso, deve intendersi lo studio
finalizzato allinterpretazione della configurazione geografica
locale di un territorio, volta alla ricerca della sua struttura
nascosta, cioè dei reticoli di relazioni umane
formati dalle traiettorie della vita quotidiana delle persone, in
quanto interagenti tra loro, che connettono le sedi fisiche in cui
di volta in volta esse si associano per svolgere delle attività
(ibidem).
Tale studio, consistito in un processo di classificazione dei dati
realizzato attraverso la cluster analysis, è stato realizzato
per la prima volta nel 1986 dallIstituto Nazionale di Statistica,
in collaborazione con lIstituto Regionale per la Programmazione
Economica della Toscana (IRPET) e con lUniversità inglese
di Newcastle upon Tyne, sulla base dei dati del Censimento della
popolazione del 1981, ed è stato ripetuto in occasione di
quello del 1991.
Lesigenza di una regionalizzazione del territorio italiano
in sistemi locali del lavoro è scaturita dallinadeguatezza
a rappresentare la geografia sociale ed economica del Paese attraverso
il ricorso obbligato ad unità territoriali amministrative,
quali Comuni, Province o Regioni. Infatti la dimensione locale ha
un senso solo se essa corrisponde effettivamente al territorio dove
la popolazione svolge la maggior parte della propria vita quotidiana,
dove produce e consuma, e stabilisce rapporti sociali ed economici
(ISTAT, 1997).
Naturalmente si tratta di un campo in continua evoluzione: ne è
testimonianza la variazione intervenuta negli stessi sistemi locali
del lavoro nel periodo compreso tra il 1981 e il 1991. In conseguenza
di cambiamenti coinvolgenti la struttura delle relazioni umane sul
territorio, si è avuta, infatti, una riduzione del numero
dei sistemi locali che sono passati, nel decennio considerato, da
955 a 784, e ciò a causa dellestensione dei reticoli
degli spostamenti quotidiani per motivi di lavoro, agevolati, tra
laltro, da unaccresciuta mobilità personale.
In attesa del 14° Censimento generale della popolazione del
2001, i sistemi locali del lavoro restano quelli definiti nel 1991.
La strategia di regionalizzazione adottata dallIstituto Nazionale
di Statistica si basa sullautocontenimento, cioè sulla
«capacità di un territorio di comprendere al proprio
interno la maggiore quantità (possibile) delle relazioni
umane che intervengono fra le sedi dove si svolgono le attività
di produzione (località di lavoro) e quelle dove si svolgono
le attività legate alla riproduzione sociale (località
di residenza), concorrendo in questo modo al riconoscimento dei
propri confini» (ibidem).
Sulla base delle esperienze fatte, gli studiosi considerano un livello
di autocontenimento intorno al 75% sufficiente per il riconoscimento
della configurazione geografica di un sistema locale.
Per quanto riguarda la Regione Puglia si è avuta, analogamente
a quanto è avvenuto a livello nazionale, una riduzione del
numero dei sistemi locali ad essa appartenenti, i quali sono passati
dai 46 del 1981 ai 39 del 1991. La variazione intervenuta nelle
varie Province è differente: nelle Province di Bari e Lecce
si è avuta una riduzione, rispettivamente di 5 e 4 sistemi
locali, nella Provincia di Taranto si è avuto un incremento
di 2 sistemi, mentre il numero di quelli di Foggia e di Brindisi
è rimasto invariato.
La dinamica dei sistemi locali del lavoro italiani
Le considerazioni del presente lavoro si basano soprattutto sui
dati del Censimento intermedio dellindustria e dei servizi.
I censimenti tradizionali tendono a sottostimare particolari
tipologie di unità produttive (microimprese artigianali e
lavoratori autonomi del settore manifatturiero e delle costruzioni,
per quanto riguarda lindustria), a causa della difficoltà
della loro individuazione mediante le tecniche di rilevazione utilizzate.
Di converso, attraverso lutilizzo integrato degli archivi
amministrativi, il Censimento intermedio è stato in grado
di individuare anche le attività produttive, come, ad esempio,
quelle che non necessitano di una sede fissa di lavoro, che normalmente
sfuggono ai rilevatori dei censimenti classici, i quali utilizzano
la rete stradale per lidentificazione delle imprese e delle
loro unità locali (ibidem).
Da tutto ciò si desume la necessità di valutare con
cautela le differenze riscontrabili dal confronto dei dati del Censimento
intermedio con quelli dei censimenti precedenti, in quanto tali
differenze potrebbero derivare da quanto rilevato in precedenza
piuttosto che da effettive variazioni intervenute nel tessuto produttivo
oggetto di analisi.
Lo spazio economico italiano è stato oggetto, negli ultimi
due decenni, di un processo di ridefinizione, il quale è
stato determinato dagli stessi fattori che hanno ridisegnato lorganizzazione
socio-economica locale e che hanno riconfigurato i modelli tradizionali
di sviluppo regionale: laffermazione del modello di industrializzazione
leggera e lespansione dei sistemi localizzati di piccole imprese
(ISTAT, 1997).
Il modello di industrializzazione leggera può essere definito
come «un modo di organizzare la produzione che si fonda sulle
economie esterne di localizzazione per il conseguimento dei risparmi
di costo, invece che sulle economie interne di scala» (ibidem),
e se si considera che i grandi impianti industriali verticalmente
integrati hanno gestito, a partire dagli anni Settanta, la propria
ristrutturazione necessaria per superare la rigidità e garantirsi
la sopravvivenza stessa, soprattutto con lesternalizzazione
di intere fasi di produzione (subcontracting) al fine di snellire
il processo produttivo interno alla fabbrica e con la conseguenza
di offrire a piccole imprese la possibilità di svilupparsi
(Dini, 1995), si può stabilire una relazione diretta tra
tale ristrutturazione e laffermazione del modello di industrializzazione
leggera.
Parallelamente a tutto ciò, andavano espandendosi, soprattutto
nel NEC, i sistemi localizzati di piccole imprese attraverso autonomi
processi di proliferazione aziendale (spin-off) (ISTAT, 1997).
Tutto ciò richiama lattenzione sulla necessità
che unindagine sullorganizzazione economico-produttiva
in cui è articolato il territorio italiano, abbia, come unità
di analisi, il sistema locale, in quanto esso «rappresenta
lunità di produzione integrata dove società
ed economia si compenetrano, seppure con modalità differenti
a seconda delle diverse situazioni di sviluppo del predominio relativo
delle dimensioni aziendali e delle specializzazioni settoriali»
(ibidem).
Dallanalisi dei cambiamenti intervenuti tra il 1991 e il 1996
nei 784 sistemi locali del lavoro italiani, dei quali 140 appartengono
al Nord-Ovest, 143 al Nord-Est, 136 al Centro e 365 al Mezzogiorno,
emerge, quale fenomeno di maggior rilevanza del quinquennio, lulteriore
affermazione, in un contesto di generale contrazione degli addetti
nel manifatturiero, dellinsieme dei sistemi specializzati
nellindustria leggera. I quattro gruppi che compongono questo
insieme, e cioè i sistemi del made in Italy, quelli del cuoio
e della pelletteria, quelli del tessile e quelli dellocchialeria,
sono tutti riusciti a guadagnare posizioni rispetto agli altri gruppi,
passando nel complesso dal 36,1% al 36,6% degli addetti nazionali
(ISTAT, 2000b).
Complessivamente sono 11 i gruppi in cui sono stati classificati
dallIstituto Nazionale di Statistica (2000b) i vari sistemi
locali sulla base delle caratteristiche settoriali; tali gruppi,
a loro volta, sono stati riuniti nellinsieme dei sistemi manifatturieri
(che comprende i sistemi urbani, quelli estrattivi e quelli turistici),
nellinsieme dei sistemi della manifattura leggera (già
considerati), nellinsieme degli altri sistemi manifatturieri
(che comprende i sistemi dei materiali da costruzione, quelli dei
mezzi di trasporto e quelli degli apparecchi radiotelevisivi), e,
infine, nellinsieme dei sistemi senza specializzazione. Per
ottenere tali gruppi di SLL, lISTAT ha utilizzato un procedimento
che si serve del numero degli addetti alle unità locali per
divisione di attività economica, in modo da descrivere con
un buon livello di dettaglio le specializzazioni settoriali.
Secondo lelaborazione fatta dallISTAT dei dati del Censimento
intermedio dellindustria e dei servizi, il gruppo dei sistemi
locali senza specializzazione è tra i più consistenti,
con 311 sistemi locali, localizzati soprattutto nel Mezzogiorno
(229 SLL contro gli 82 del Centro-Nord), e con 2.278 Comuni, in
cui vi risiedono quasi 13 milioni di persone (cioè il 22,4%
della popolazione nazionale), ma soltanto con il 19% delle unità
locali (di cui il 15,4% opera nelle attività manifatturiere)
e con il 14,2% degli addetti (di cui il 9,1% manifatturieri) (ibidem).
Sotto il profilo geografico, i sistemi del Nord che appartengono
a questo gruppo si collocano soprattutto nella fascia montana alpina
e appenninica, mentre al Centro tali sistemi investono la costa
toscana e laziale fino ad arrivare allentroterra umbro. Nel
Mezzogiorno i sistemi di questo tipo si articolano in quattro blocchi:
il primo comprende quasi tutto il Gargano e lentroterra del
Sannio e lIrpinia; il secondo abbraccia il Cilento, buona
parte della provincia di Potenza, qualche area pugliese e la Calabria;
il terzo interessa la Sicilia, escluso solo alcune aree costiere;
il quarto coincide con la parte centrale della Sardegna. Il gruppo
dei sistemi locali senza specializzazione non mostra vocazioni specifiche
(se non una certa presenza delle costruzioni e del commercio) e
non risulta investito da processi di sviluppo: tali sistemi hanno
perso dal 1991 al 1996 il 10% degli addetti manifatturieri e il
5% di quelli totali (ibidem).
La netta prevalenza, nellambito dellinsieme dei sistemi
senza specializzazione, di sistemi locali del lavoro meridionali,
fa emergere chiaramente «lesistenza di un Mezzogiorno
tuttora poco coinvolto in processi di cambiamento economico»
(Viesti, 1999), e anche lestrema frammentazione, presente
in queste zone, del tessuto insediativo, sia residenziale che produttivo,
che genera numerosissimi sistemi locali molto piccoli.
Linsieme dei sistemi locali non manifatturieri è costituito:
dai sistemi urbani (39 SLL, che rappresentano le più importanti
aree urbane del Paese, come quelli di Roma, Milano, Napoli, Venezia,
Palermo, Bologna e altri, ma anche centri di medio livello) caratterizzati
dalla specializzazione nelle attività dei trasporti e dei
servizi; dai sistemi estrattivi (solo tre, Bitti, Silius e Iglesias,
tutti in Sardegna) in cui opera il 90% degli addetti allestrazione
di carbon fossile e di minerali metalliferi; dai sistemi turistici
(71 SLL, tra i quali molte famose località alpine, appenniniche,
lacuali, termali e marine) in cui lavorano più del 25% degli
addetti agli alberghi e ristoranti (ISTAT, 2000b).
I sistemi non manifatturieri, in cui risiede il 32,5% della popolazione
e in cui vi è una forte presenza di unità locali (il
32,3% del totale) e di addetti (33,1%), hanno visto crescere nel
quinquennio 1991-96 le unità locali del 20,7% e diminuire
gli addetti del 2,1%, soprattutto a causa dellandamento negativo
dei sistemi estrattivi (-23,7% degli addetti) e dei sistemi urbani
(-2,6% degli addetti) e nonostante quella positiva dei sistemi turistici
(+5,1% degli addetti) (ibidem).
I sistemi manifatturieri si distinguono nei due sottoinsiemi dei
sistemi dellindustria leggera e degli altri sistemi manifatturieri.
Nel primo di tali sottoinsiemi assume importanza fondamentale, il
gruppo dei sistemi del made in Italy, così denominato proprio
per la rilevanza delle esportazioni dei prodotti realizzati dalle
imprese presenti in questi sistemi, nelle quali resiste con grande
forza lorgoglio dello stile artigianale: «il made in
Italy è percepito come una sorta di patente internazionale
che rafforza anche lidentità e lappartenenza
allo stesso sistema produttivo» (CENSIS, 1998).
I sistemi locali del made in Italy sono specializzati nella confezione
di articoli di vestiario, nellindustria tessile, nella produzione
di mobili, nella fabbricazione e lavorazione di prodotti in metallo,
nellindustria meccanica e nella produzione di metalli e loro
leghe.
I sistemi del made in Italy del Nord si estendono lungo due fasce:
la prima si estende lungo la fascia prealpina dal Piemonte alla
provincia di Brescia ed è specializzata nella fabbricazione
di prodotti in metallo, nellabbigliamento e nel mobilio, mentre
la seconda comprende la Bassa, soprattutto mantovana, i sistemi
emiliani di Carpi, Mirandola e altri, che sono specializzati nella
maglieria e negli apparecchi medicali, e i sistemi veneti specializzati
nellabbigliamento, nel mobilio e nella meccanica. Scendendo
lungo la penisola, emerge linsieme dei sistemi romagnoli che
da Forlì si spinge verso Sud fino a includere gran parte
delle Marche settentrionali e della Toscana fino ad Arezzo e ad
alcuni sistemi del Pistoiese. Continuando a scendere, i sistemi
locali di questo gruppo sono sempre meno e sempre più isolati:
i sistemi marchigiano-abruzzesi da Ascoli Piceno a Teramo; i sistemi
molisani, che si estendono fino a Teano in Campania, e quelli del
Sannio e dellIrpinia; i sistemi di SantAgata de
Goti, San Giuseppe Vesuviano e Agerola in Campania e di Ascoli Satriano,
Spinazzola e Bisceglie in Puglia; la fascia di sistemi contigui
che si estende da Putignano al Salento e il piccolo nucleo del cosentino;
un piccolo gruppo di sistemi nella Sicilia nord-orientale e due
sistemi in Sardegna. Quasi tutti questi sistemi sono specializzati
nella confezione di articoli di vestiario (ibidem).
I sistemi locali che compongono il gruppo del made in Italy presentano
una forte propensione alle esportazioni, che ci si accinge ad evidenziare,
con lavvertenza, però, che i dati disponibili, (Viesti,
1997), si riferiscono a una o più province in cui si trova
il sistema produttivo da prendere in considerazione, più
che a un determinato sistema locale del lavoro.
Nellesportazione di articoli di vestiario ed accessori assumono
particolare importanza i sistemi delle province di Milano e Varese
(con 2.380 miliardi di lire di export nel 1995), di Treviso e Vicenza
(con 1.915 miliardi), di Modena, Reggio Emilia e Bologna (con 1.077
miliardi) e di Como (con 933 miliardi). In buona evidenza in questo
gruppo, in verità piuttosto numeroso, anche il Sud con alcuni
sistemi di Isernia (207 miliardi), Napoli (203 miliardi), Lecce
(169 miliardi) e Bari (102 miliardi). Oltre allabbigliamento,
i mobili rappresentano un settore importante del made in Italy:
qui si evidenziano i sistemi di Udine, Treviso e Pordenone (3.042
miliardi di export), quelli di Milano e Como (1.315 miliardi) e
di Pesaro, Forlì e Ancona (1.132 miliardi) ma, soprattutto,
quelli del mobile imbottito delle province di Bari e Matera (Area
murgiana) per la loro crescita straordinaria, che è consistita
nel passaggio dai 49 miliardi di esportazioni del 1986 ai 1.176
miliardi del 1995, seguendo un trend ascensionale eccezionalmente
sostenuto, che continua ancor oggi, e con la prospettiva di consolidarsi
sempre più in futuro (Viesti, 1997).
Linsieme dei sistemi del made in Italy risulta essere caratterizzato
anche dalla presenza di altri settori produttivi quali: la fabbricazione
di maglieria, in cui spiccano i sistemi dellarea Milano-Varese
(1.598 miliardi di lire nel 1995), Treviso-Vicenza (1.587 miliardi),
Firenze-Pistoia (1.576 miliardi) e Modena-Reggio Emilia-Bologna
(1.491 miliardi); la fabbricazione di tessuti, in cui si notano
i sistemi della provincia di Como (2.108 miliardi), di Milano e
Varese (1.973 miliardi) e di Vicenza (985 miliardi); la fabbricazione
di macchine utensili, capeggiata da Milano-Varese- Como con 1.885
miliardi di export, cui si affiancano altri sistemi presenti a Vicenza
e Treviso (730 miliardi) e a Pesaro e Forlì (664 miliardi);
la fabbricazione di macchine tessili, in cui si mettono in evidenza
i sistemi di Bergamo e Brescia (1.057 miliardi) e di Milano, Varese
e Como (869 miliardi) (ibidem).
Dellinsieme dei sistemi locali della manifattura leggera fanno
anche parte: i sette sistemi locali specializzati nellindustria
tessile (fra cui spiccano Castel Goffredo, il biellese e Prato),
con una popolazione di circa 600 mila persone in 139 comuni e 55
mila U.L. in cui operano circa 225 mila addetti, e i 42 sistemi
specializzati nellindustria del cuoio e della pelletteria,
i quali sono concentrati nel Veneto (Arzignano, San Giovanni Ilarione
e Montebelluna), in Emilia-Romagna (Cesena), in Toscana (Firenze,
Santa Croce sullArno e Castelfiorentino) e nelle Marche (Tolentino,
Fermo e Macerata), anche se nel Mezzogiorno ne troviamo alcuni isolati
in Campania (Aversa e Solofra) e in Puglia (Barletta, Casarano e
Tricase). Il gruppo dei sistemi del cuoio e della pelletteria comprende
circa 3,5 milioni di persone, 260.000 unità locali (il 6,9%
del totale) e 990.000 addetti (7,2%), di cui oltre 410.000 nelle
attività manifatturiere (l8,5% del totale). Sotto il
profilo demografico e sociale, questo gruppo, analogamente a quello
dei sistemi tessili, è caratterizzato da una forte presenza
della manodopera femminile e da una elevata incidenza degli occupati
con una bassa qualificazione professionale (ISTAT, 2000b).
Dal lato delle esportazioni spiccano, nei gruppi di sistemi locali
appena considerati: il sistema tessile pratese (con 3.142 miliardi
di export nel 1995), quello di Castel Goffredo in provincia di Mantova,
specializzato nella fabbricazione di maglieria (con 665 miliardi)
e quello laniero di Biella (con 978 miliardi); il sistema distrettuale
di Arzignano (2.108 miliardi), quello di Santa Croce sullArno
(2.100 miliardi) e Solofra, in provincia di Avellino (749 miliardi),
i quali, insieme, determinano oltre i tre quarti dellexport
italiano nel settore delle pelli e del cuoio; i sistemi dellarea
Ancona-Macerata-Ascoli (2.400 miliardi), quelli di Verona e Brescia
(1.350 miliardi), quello di Treviso (1.080 miliardi), quello della
Riviera del Brenta, in provincia di Venezia (923 miliardi) e quello
di Barletta (504 miliardi) risultano essere i sistemi più
importanti nellesportazione di calzature, soprattutto in gomma
e sportive, mentre, per quelle in pelle, si sono messi in evidenza
in modo particolare i sistemi intorno a Firenze e Pisa (2.500 miliardi)
e quelli di Casarano e Tricase (575 miliardi) (Viesti, 1997).
Ultimo gruppo facente parte dellinsieme dei sistemi della
manifattura leggera è quello specializzato nellocchialeria,
di cui fanno parte solo cinque sistemi locali, tutti nella provincia
di Belluno, con 55 Comuni e 147.000 abitanti, e quasi 11.000 unità
locali (di cui 2.100 nel manifatturiero) con 53.000 addetti (di
cui 26.000 nel manifatturiero e più di 12.000 nellindustria
di specializzazione) (ISTAT, 2000b).
Nel suo insieme la Provincia di Belluno ha realizzato un notevolissimo
incremento nelle esportazioni, passando dai 153 miliardi di lire
nel 1986 ai 1.072 miliardi del 1995 (Viesti, 1997).
Linsieme dei gruppi con specializzazione nelle attività
manifatturiere in settori diversi rispetto a quelli dellindustria
leggera è denominato insieme degli altri sistemi locali
manifatturieri (sistemi dei materiali da costruzione, sistemi
dei mezzi di trasporto e sistemi degli apparecchi radiotelevisivi);
esso è composto da 94 SLL, con 1.450 comuni e oltre 8,3 milioni
di abitanti (il 14,5% della popolazione italiana), mentre vi sono
localizzate 571.000 U.L. (il 15,1% del totale), di cui solo 86.000
operanti nel manifatturiero (il 14,6% del settore), e 2,2 milioni
di addetti (16,1%), di cui 883.000 nel manifatturiero (18,2%). Nel
corso del quinquennio 1991-96, tali sistemi locali hanno visto diminuire
gli addetti manifatturieri del 6% (circa 62.000 unità) mentre
gli addetti complessivi si sono ridotti solo del 2% (59.000 unità)
e le unità locali sono aumentate del 9% (48.000 unità).
Tale andamento è la risultante della diminuzione degli addetti
manifatturieri soprattutto del gruppo dei sistemi locali specializzati
nei mezzi di trasporto (-31.000 addetti, pari a una riduzione del
10%) e di quello degli apparecchi radiotelevisivi (-6.000 addetti,
pari a una riduzione dell8%) (ISTAT, 2000b).
Dal punto di vista della localizzazione geografica, si rilevano
delle differenze a seconda del tipo di sistemi considerato: i sistemi
locali specializzati nei materiali da costruzione sono in prevalenza
localizzati al Nord e al Centro (tra cui spiccano Sassuolo, SantAmbrogio
di Valpolicella, Massa, Carrara, Pietrasanta, alcuni sistemi fiorentini
e Civita Castellana); quelli specializzati nei mezzi di trasporto,
che, oltre alla storica localizzazione torinese (che vanta quattro
SLL), si trovano nel Lazio (Cassino), in Abruzzo e Molise (Lanciano,
Sulmona e Termoli), in Campania (Morcone, Ariano Irpino e Avellino),
in Basilicata (Melfi) e in Sicilia (Termini-Imerese); quelli degli
apparecchi radiotelevisivi, infine, risultano concentrati soprattutto
al Centro e nel Mezzogiorno (Rieti, Frosinone, LAquila, Avezzano,
Sessa Aurunca e Battipaglia) (ibidem).
Per quanto riguarda le esportazioni, si segnalano: i sistemi dellarea
Modena-Reggio Emilia-Bologna, tra cui spicca il distretto industriale
di Sassuolo, specializzati nella fabbricazione di ceramica e piastrelle
(4.672 miliardi nel 1995, pari al 73% dellexport italiano
in questo settore); i sistemi specializzati nel marmo delle province
di Massa-Carrara e di Lucca (1.058 miliardi) e di Verona (1.042
miliardi); il sistema di Civita Castellana, in provincia di Viterbo
(205 miliardi), specializzato in porcellane, e quello del vetro
di Venezia (189 miliardi) (Viesti, 1997).
Prendendo quale valore di riferimento il valore mediano dellinsieme
degli indici di industrializzazione dei sistemi locali, si nota
che nel Nord-Ovest dItalia pochi sistemi (solo il 15% dellintera
ripartizione) scendono al di sotto di tale valore, manifestando
un elevato livello di industrializzazione, con lunica eccezione
di alcuni sistemi liguri. La Liguria, infatti, un tempo fortemente
industrializzata, è oggi lunica regione del Nord il
cui indice di industrializzazione è più basso di quello
nazionale ed è preceduta da due regioni meridionali quali
lAbruzzo e il Molise.
Il Nord-Est risulta, nella quasi totalità (134 SLL su 143,
pari al 94%), caratterizzato da sistemi locali con un indice di
industrializzazione superiore al valore di riferimento, mentre nel
Centro si trova una quota consistente (31,6%) di sistemi al di sotto
di tale valore, in modo particolare quelli del versante tirrenico
centrale.
I sistemi locali del Mezzogiorno dItalia risultano, nel 90%
dei casi, avere un indice di industrializzazione inferiore al valore
di riferimento e, di conseguenza, nessuna regione meridionale può
vantare un indice di industrializzazione su base nazionale superiore
a 1 (che è il valore dellItalia). Particolarmente problematica
è la situazione della Sicilia e della Calabria, in quanto,
in queste regioni, solo due SLL hanno un indice superiore al valore
di riferimento.
Questi dati confermano la presenza, soprattutto nelle regioni settentrionali,
di unità locali di maggiore dimensione, dato ancor più
rilevante considerato che le U.L. industriali del Nord del Paese
(596.000 unità) sono più del doppio sia di quelle
del Centro (221.000 unità), che di quelle del Mezzogiorno
(254.000 unità).
Ulteriore conferma dellesistenza di disparità Nord-Centro/Sud
può venire dallanalisi della densità delle unità
locali per ogni 1.000 residenti; anche qui, infatti, i sistemi locali
settentrionali e centrali, con le uniche eccezioni di quelli liguri
e laziali, hanno, mediamente, una densità maggiore di quella
media italiana, mentre quelli meridionali sono, quasi tutti, al
di sotto di essa.
Se si confrontano i primi venti sistemi locali italiani del 1996
con più elevato indice di industrializzazione, con la graduatoria
dei SLL del 1991, (ISTAT, 1997), la quale vedeva ai primi posti
i sistemi di Monte San Pietrangeli (AP), Montegranaro (AP), Monte
San Giusto (MC), Lumezzane (BS), Porto SantElpidio (AP), Vestone
(BS), Arzignano (VI), Cossato (BI), San Giovanni Ilarione (VR) e
Thiene (VI), è possibile fare alcune considerazioni. Innanzi
tutto emerge la flessione dei tre sistemi locali marchigiani specializzati
nellindustria calzaturiera, che, pur non essendo particolarmente
accentuata, denota una situazione di stasi, se non di vera e propria
crisi, che sta interessando numerosi sistemi locali specializzati
nel calzaturiero (tra gli altri anche Barletta e Casarano-Tricase),
a causa, soprattutto, della forte concorrenza nel settore da parte
dei Paesi del Sud-Est asiatico.
Il sistema di Arzignano (pelli) e quello di Sassuolo (ceramica)
hanno guadagnato posizioni, fino a raggiungere la vetta della classifica;
quelli di Porto SantElpidio (calzature), Thiene e San Giovanni
Ilarione (entrambi specializzati nel tessile-abbigliamento) sono
scesi, rispettivamente, alla tredicesima, ventiseiesima e cinquantesima
posizione.
Il dato più rilevante è comunque la crescita esponenziale
del sistema locale di Melfi (fabbricazione di autoveicoli), la quale,
tuttavia, risulta essere in controtendenza rispetto alla generale
affermazione, rilevabile nel quinquennio 1991-96, dei sistemi
locali dellindustria leggera, caratterizzati dalla concentrazione
locale di piccole e medie imprese.
Ad ogni modo lottima performance di Melfi è significativa
anche del «passaggio da unorganizzazione della produzione
che massimizzava limpiego dei sistemi di automazione e riduceva
le possibilità di esternalizzare produzioni e conoscenze,
che la FIAT aveva adottato, con esiti negativi, per i suoi stabilimenti
di Termoli e Cassino, ad un nuovo modello produttivo caratterizzato
da una più spinta valorizzazione della risorsa umana e dellindotto
locale, seppure localizzato allinterno dello stesso stabilimento»
(Zanni, 1999).
E questa unulteriore conferma dellesistenza di
unindispensabile simbiosi tra sviluppo economico e territorio.
Conclusioni
Dallanalisi fatta, emerge il notevole divario, sia per quanto
riguarda il numero di imprese che per quello di addetti, tra il
Mezzogiorno e le altre ripartizioni territoriali, divario che ha
origini antiche e che le politiche di intervento straordinario,
basate su iniziative di sviluppo concentrate in aree selezionate
(poli di sviluppo) e susseguitesi, a partire dal 1950, per quattro
decenni, non sono state in grado di colmare.
Malgrado la persistenza di tali disparità regionali, occorre
sottolineare, da un lato, lesistenza di una discreta diffusione
del benessere e, dallaltro, laprirsi di buone prospettive
di sviluppo autoctono (e non) per il Mezzogiorno.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è sufficiente segnalare
che il PIL pro capite delle regioni meridionali è superiore
a quello dei Paesi periferici dellUnione europea (ad eccezione
della Spagna) e pari a quello raggiunto dallItalia settentrionale
e centrale solo nel 1975. Inoltre, i suoi livelli di consumo si
approssimano a quelli del resto del Paese molto di più di
quanto sarebbe lecito aspettarsi sulla base di corrispondenti livelli
produttivi: nel 1989, ad esempio, il rapporto Sud/Nord-Centro era
di 0,69 per i consumi privati pro capite e di 0,56 per il PIL pro
capite (Commissione delle Comunità Europee, 1993). Ciò
testimonia il fatto che, mentre «modelli e schemi di consumo
si sono mossi in direzione di una maggiore uniformità sul
piano regionale, il fallimento dello sviluppo di unadeguata
base industriale ha fatto del Mezzogiorno uneconomia strutturalmente
dipendente, tanto che, dopo quarantanni di politiche di sviluppo,
il proseguimento sine die di queste era dato ormai per scontato»
(ibidem).
Labbandono delle vecchie politiche di fiscalizzazione e di
sgravio contributivo, accompagnato da nuove regole di programmazione
e di spesa per lo Stato come per le regioni e da una crescente importanza
delle politiche regionali comunitarie, ha determinato, infatti,
specie tra il 1992 e il 1995, un vistoso rallentamento dei tassi
di crescita complessivi delleconomia meridionale (Viesti,
1999).
Tutto ciò ha però risvegliato, in una
qualche misura, liniziativa locale e questo, a sua volta,
ha permesso la crescita di talune attività economiche (e
si arriva al secondo aspetto), anche se in modo piuttosto disomogeneo
sul territorio.
Se si considera, ad esempio, landamento della produzione industriale
del 1998 e nel 1999, si ravvisano segnali positivi per le imprese
del Mezzogiorno, in particolare per quelle di minori dimensioni,
anche se, in questo periodo, sono state le regioni del Nord-Est
ad aver avuto la maggiore crescita in particolare, lEmilia-Romagna,
il Friuli-Venezia Giulia ed il Trentino-Alto Adige. LItalia
Nord-Occidentale ha rilevato andamenti meno brillanti rispetto al
passato: un rallentamento è stato registrato per Piemonte
e Liguria, mentre è stata la Lombardia ad innalzare landamento
della ripartizione (ISTAT, 1999c).
La situazione dellItalia centrale è risultata duplice:
ai buoni andamenti dellUmbria e del Lazio, si sono contrapposti
il rallentamento delle Marche e soprattutto la stagnazione della
Toscana, che si protraeva già da due anni, con una situazione
di difficoltà acuta nel settore della micro-impresa e dellartigianato.
In controtendenza, invece, molte regioni del Sud che hanno evidenziato
una vivacità produttiva rafforzata anche da altri indicatori
di natura occupazionale e di natalità imprenditoriale. In
particolare, Molise, Puglia e Basilicata hanno fatto rilevare tassi
tendenziali di incremento della produzione superiori al 4%; positivi
anche gli andamenti dellAbruzzo, della Sardegna e della Campania,
mentre è stato registrato un forte calo per la Sicilia e
soprattutto per la Calabria, con una variazione negativa di oltre
3 punti percentuali (ibidem).
Malgrado questi contrastanti andamenti regionali, che testimoniano
la presenza di territori meridionali con grandi differenze interne,
la situazione delle regioni del Sud sembra, nel complesso, lanciare
importanti segnali di risveglio, in particolare con riferimento
allandamento delle imprese più piccole: infatti, quelle
aventi meno di 19 dipendenti fanno registrare al Sud il migliore
andamento rispetto a quello delle altre ripartizioni.
Anche sul fronte delle esportazioni si registra una crescita del
Mezzogiorno, +9,6% del valore delle esportazioni nel 1997 rispetto
allanno precedente e +8,2% nel 1998, che, analogamente ai
valori dellItalia nord-orientale (+4,8% nel 1997 e +5,2% nel
1998), risultano essere stati superiori alla media del Paese (+4,3%
nel 1997 e +2,7% nel 1998) (ISTAT, 2000c). Questi dati sono stati
allincirca confermati nel 1999, anche se la ridotta quota
delle esportazioni, rispetto al totale dellexport nazionale,
realizzate da queste regioni (2,9% della Campania, 2,3% della Puglia,
2% dellAbruzzo e 0,4% della Basilicata, nel 1998) e in generale
dal Mezzogiorno (10,2% nel 1998), fa comprendere di essere ancora
solo allinizio di un lungo e non facile processo di emancipazione
dalle regioni del Nord, le quali sono ancora i principali destinatari
delle produzioni meridionali.
Infine, il sospetto che le imprese minori delle regioni meridionali
stiano realizzando la crescita della propria produzione (e, quindi,
delle proprie esportazioni) attraverso riduzioni dei prezzi unitari,
accompagnate da contrazioni dei margini, fa crescere il timore di
una riduzione dei livelli di autofinanziamento e quindi del processo
dinvestimento [ISTAT, 1999c].
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