Marzo 2001

CONTRO L’ASSISTENZIALISMO

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Ancora troppo Stato
nell’economia del Sud
Giuliano De Vitis
 
 

 

 

 

 

Esiste una strada per ridurre
il peso dello Stato nel Mezzogiorno:
è necessario ridurlo per l’intera
economia nazionale.

 

Lo sviluppo si raggiunge promuovendo e rafforzando il mercato, in quanto è il mercato, e non lo Stato, che crea lavoro. E’ questa la frontiera dell’inizio secolo, dalla quale ci separa ancora la concezione di un Mezzogiorno come affare di Stato, cioè di un problema meridionale da affrontare con sussidi, con agenzie di sviluppo, con quei “lavori socialmente utili” che il presidente della regione Puglia ha giustamente definito (e i fatti hanno dimostrato che effettivamente sono) «una bomba ad orologeria».
Eppure, esisteva, almeno in nuce, una sponda molto diversa, un’idea non nuova, ma finalmente ritenuta efficace, per inquadrare la questione degli squilibri territoriali italiani in un contesto di interventi “culturali” diversi dal passato e con tre elementi di novità: la persistente ampiezza del problema stesso; il fatto che esso sia prevalentemente riconducibile all’eccessiva presenza dello Stato nell’economia locale e all’inefficienza di quella presenza; la diffusa esistenza di una cappa di incertezza, e non soltanto di rischi aggiuntivi rispetto al resto del Paese, tra le origini della mancata ripresa degli investimenti nelle aree meridionali.

Il Mezzogiorno è notoriamente la più grande tra le aree a lenta crescita, ma non è uno Stato sovrano, come ad esempio la Grecia e il Portogallo. Pertanto, deve utilizzare strumenti ordinari di sostegno regionale, non deve ricevere sussidi addizionali rispetto ai livelli ritenuti compatibili con un regime di competizione. Esiste una strada per ridurre il peso dello Stato nel Mezzogiorno: è necessario ridurlo per l’intera economia nazionale. La drastica cura dimagrante del settore pubblico aprirebbe la strada alla soluzione del terzo elemento innovativo dello scenario: l’esistenza, appunto, di una cappa di incertezza che rappresenta una remora alle decisioni di investimento molto più tenace dei rischi ambientali, le cosiddette diseconomie esterne. Per correggere gli effetti delle quali, ma senza rimuoverne l’esistenza, sono state erogate svariate tipologie di incentivi finanziari alle imprese. Erogazioni che hanno finito con l’annebbiare la percezione imprenditoriale del costo finanziario del capitale e la capacità di promuovere investimenti efficaci ed efficienti. In tal modo, un eccesso di capitale fisso per addetto è stato installato nell’economia meridionale, mentre simultaneamente aumentava il numero dei disoccupati.
Ruota intorno a questa lacerante distorsione la scarsa presenza sui mercati esteri delle imprese meridionali. Anche perché vivere di contributi all’investimento è assai più comodo che dover vivere della capacità di espandere i propri ricavi. Ma quando il triangolo tra Stato, imprenditori e sindacati occupa l’intera scena, e lo Stato si impegna a compensare i rischi esistenti con donazioni finanziarie a titolo gratuito, (o peggio ancora, clientelare), il sistema economico finisce per perdere slancio e vitalità. Ed è naturale, dunque, che le residue energie attive vengano distorte dall’incertezza generata dal conflitto tra rami e parti dell’amministrazione dello Stato, nonché da una cultura che premia l’interpretazione delle procedure piuttosto che la rendicontazione dei risultati.
La combinazione di questi effetti ha sterilizzato anche la realizzazione dei patti territoriali, mentre l’assenza del metro calmieratore del costo finanziario del capitale ha azzerato ogni significato economico. La verità è che, nelle regioni meridionali, bisognerà prendere le distanze da quella che Mario Monti ha definito «la via finanziaria» allo sviluppo, per tornare ad enfatizzare il valore del debito nel sostegno della crescita. Anche la “via finanziaria” poggiava sul debito: il debito dello Stato per finanziare le erogazioni che azzeravano la percezione del costo del capitale nel ceto imprenditoriale e intrigavano, eccitavano la volontà di potenza del ceto politico. Il debito sul quale si potrà fondare una nuova fase di crescita è quello delle imprese verso le banche: un tipo di debito che impone all’imprenditore la disciplina di un uso rigoroso delle risorse, e che intriga ed eccita la sua capacità di organizzare la produzione.

Questa tipologia di debito è una frusta per la crescita ben più efficace della concertazione tra le parti sociali. Ma il debito, che è l’altra faccia del credito, si espanse insieme con la diffusione della fiducia. E la fiducia richiede coesione sociale, condivisione delle regole civili, allargamento degli scambi potenziali.
Questo processo virtuoso genera la riduzione dell’incertezza e contribuisce a determinare le condizioni che hanno permesso nel Veneto, nelle Marche, negli Abruzzi, anche nella Puglia, di trovare la strada di una relazione costruttiva tra banche e imprese.
Un’espansione di queste relazioni può dar luogo a politiche del lavoro più incisive, i cui risultati porteranno sicuramente all’espansione di comportamenti di mercato tra tutti gli attori economici.

   
   
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