La rapidità della
parola poetica
prescinde dalle
coordinate del tempo e dello spazio reali, prescinde dai nodi della
logica, della dialettica, della causalità.
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Nel galileiano Dialogo dei massimi sistemi, Sagredo, intervenendo
nello scontro dialettico fra il tolemaico Simplicio e il copernicano
Salviati, oppone al metodo rigoroso e analitico di questultimo
il suo discorso. Questo è fondato su procedimenti analogico-associativi
incoercibili nella dimensione del logos (inteso come ordine espositivo
organizzato intorno alle categorie della logica serrata interna
al binomio causa-effetto) e riducibili, invece, alla dimensione
del logos come parola, ossia (cito da Italo Calvino, Lezioni americane)
come «ragionamento istantaneo, senza passaggi», speculare
a quello della mente divina, «infinitamente superiore a quella
umana», epifanizzata dalla parola, il Verbo che diventa carne
e si oggettiva nel messaggio e nellesempio del Cristo.
La parola sistematica, epperò dialettica, era stata lo strumento
della maieutica di Socrate, la parola come epos apollineo e dionisiaco
era stata il veicolo della paideia omerica e poi tragica, la parola
come mythos era stata lenzima dellantica teologia olimpica,
fondando, per bocca dei bestioni vichiani, mediante quel procedimento
analogico-associativo ripreso, a partire da Baudelaire, dai poeti
simbolisti, il primo edificio della poesia che raggiunge nellIliade
e nella Bibbia vette finora, forse, inattinte.
La parola, dunque, come fondamento del mondo: la parola-mythos;
la poesia e le religioni; parola-logos, il diritto e la filosofia,
comprese, in essa, la logica, la matematica, leconomia, la
scienza. Ma non a questultimo statuto del verbo, bensì
al primo, mitico e velocissimo, analogico e associativo della parola
creatrice, e perciò poetica, rimandano i pensieri di Sagredo:
«Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente
fu quella di colui che simmaginò di trovar modo di
comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra
persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo
e di tempo? parlare con quelli che son nelle Indie, parlare a quelli,
parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non
di qua a mille a dieci mila anni? e con qual facilità».
Queste riflessioni galileiane sembrano quantaltre mai profetiche,
se le rapportiamo alla dimensione antropologica che tutti noi investe
alle soglie del nuovo millennio. Ma occorre distinguere, e in questordine
ci soccorre un assioma di Italo Calvino: «[...] in unepoca
in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano
e rischiano di appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme
e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione
tra ciò che è diverso in quanto è diverso,
non ottundendone, bensì esaltandone la differenza [...].
Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo
avari, in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre
con agio e distacco [...]». La rapidità della parola
poetica prescinde dalle coordinate del tempo e dello spazio reali,
prescinde dai nodi della logica, della dialettica, della causalità
e brucia nella sintesi e nel sincronico distanze cronologiche, associando
e divagando, come accade nelluniverso simbolico
dei poeti primitivi (ce lo insegna il Vico, ma ancor prima di lui
Kebes, il tebano, nel platonico Fedone) e nelluniverso poetico
dei fanciulli, anzi, dei fanciullini, dei visionari
e dei profeti, veggenti e ciechi, forti solo e soltanto della parola
che di-vaga e si aggira nei labirinti dellio e formula quel
linguaggio dellinteriorità che da Socrate ad Agostino
ad Heidegger è giunto fino a noi e giungerà nei secoli
venturi a quanti cercheranno in interiore la verità. Che
essa sia inferno o cielo, poco importa, diceva Baudelaire. Donde
quella che vorrei chiamare la retorica della digressione. Si pensi
a Sterne e a Diderot, ma anche a Calvino: «La divagazione
o digressione è una strategia [...], una moltiplicazione
del tempo allinterno dellopera, una fuga perpetua [...]
dalla morte». Parola, dunque, come scoperta, come annuncio,
come vita. Trilogia tutta cristiana nella quale sembra riassumersi
la scelta che Francesco Rausa ha fatto, intitolando questo suo libro
postremo, ma non ultimo, Duemila, parola.
Se la funzione della letteratura, in quanto comunicazione letteraria
con un suo specifico sistema di segni, è quella di sollevare
il materiale (ossia il tempo della realtà) nellimmaginario,
di metaforizzare il mondo della storia in mondo possibile (la formula
è di Lubomir Dolezel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili,
recentemente edito da Bompiani, 1999), di trasformare un luogo reale
in luogo mentale per universalizzare il messaggio di verità
che essa veicola, calandosi nella polis, nella società, nella
storia epocale per poi librarsi nelle regioni del metatemporale
e dellassoluto; se funzione dellintellettuale è
quella di agire, attraverso la parola, sulla società per
modificarla, per imporre i propri modelli culturali, il proprio
sistema di valori, i propri linguaggi, ebbene io credo, in tutta
umiltà, che Francesco Rausa abbia assolto compiutamente a
tale funzione, offrendoci un testo che ci consente di risalire al
poeta Rausa (anche quando la parola da mythos tenta di farsi logos)
e dal poeta alluomo, ossia allautore storico con le
sue ragioni (diceva Macrì), quelle del sangue e dellistinto,
e dalluomo a questo nostro tempo (meccanico e tecnologico)
per distanziarci da esso, e dal tempo al Millennio che muore e che
trova nelle oltre duecento pagine una sorta di gigantesca summa
del pensiero occidentale, quasi una consegna, un viatico per le
generazioni future.
Ma qual è la struttura fisica e, ovviamente,
formale e ideologica dellopera di Francesco Rausa?
Trattasi, per riferirci al genere letterario, di un prosimetro,
ossia di unassociazione di prosa e versi. Genere antichissimo
che ha i suoi antecedenti nella satira menippea del mondo classico,
inventore Menippo di Gadara, esemplata da Varrone Reatino, ma soprattutto
dallApokolokyntòsis di Seneca, dal Satyricon di Petronio
e via via, in età medievale, dai prosimetri di Boezio (De
consolatione philosophiae) e di Dante (La vita nuova), fino alle
più note espressioni del nostro Novecento, penso soprattutto
ai Canti Orfici (1914) di Dino Campana.
La stessa struttura del macrotesto è semantica del carattere,
della personalità vulcanica, inquieta, tormentata dellautore,
insofferente nei confronti di una disciplina espositiva rigorosamente
sistematica e metodica, obbediente, invece, alle pulsioni magmatiche
e vertiginose dellintelletto e del cuore, le quali si polarizzano
e si giustificano nel nome e nel segno di quel élan vital
di bergsoniana memoria, rappresentando, nellottica del filosofo
spiritualista francese, una delle sorgenti (se non la sorgente per
eccellenza) del misticismo e della religione. Insofferenza incoercibile,
dicevo, e irrefrenabile, che non conosce i limiti dello spazio e
del tempo quotidiani, organizzandosi intorno al solo baricentro
della agostiniana distentio animi, la quale si materializza nel
grande affresco di una parola che transita dallantico al nuovo
con assoluta libertà di associazione nellordine dei
valori e delle idee. Libertà possibile solo nella sfera dellarte,
come ho detto in precedenza, libertà che è dono o
conquista dello spirito capace di comprendere in una grande, michelangiolesca
epitome spiritualistica la proteiforme insorgenza del pensiero umano
nelle sue manifestazioni storiche e positive, rivisitate, però,
alla luce dellesperienza cristiana. Da qui i colpi dala
di Francesco Rausa, i voli pindarici, la riduzione del diacronico
nel sincronico che solo la parola poetica può realizzare
ad onta del linguaggio della scienza o della filosofia. E la parola
di Francesco Rausa si annuncia come espressione di un ascolto ora
sgomento, ora fideistico, dellio, in preda a unansia
metafisica fondata sullattesa di una nuova parusia, pentecostale
luce salvifica che respinga le tenebre del nichilismo e della morte
di Dio, sulla quale luomo del Novecento ha costruito il suo
dramma e la sua ultima luciferina caduta.
Questo il senso complessivo dellopera di Rausa, la cui irrequietezza
interiore si drammatizza non solo nel binomio prosa-versi, ma anche
allinterno degli istituti metrici che, nellordine della
poesia, compaginano la parola poetica: polimetria, anisosillabismo,
versi liberi e spezzati (penso ai frequenti endecasillabi a scalino),
timbri melici di alta intensità (cui concorrono rime ora
baciate, ora interne, ora diasporizzate eslege nel testo, enjambements,
rime piane, aperte e facili) cui corrispondono, spesso, registri
tonali e cifre stilistiche alternative, coerenti con un pensiero
poetante non più liricizzato, ma oggettivato in grazia del
ricorso allascolto dei drammi della vita.
Un Rausa lirico, dunque, mistico, assorto nella contemplazione del
divino nel sensibile (parole-chiave, in questo senso, luce, spirito,
verità, parola, bellezza, assoluto), erede ed epigono dello
spiritualismo di Agostino, di Pascal, di Bergson, di Maritain, di
Teilhard de Chardin, di Claudel (per quella sua poésie-prière),
di Comi, accanto a un Rausa antropologo, pensatore eclettico, apologetico,
che polemizza contro il Novecento blasfemo (come egli più
volte ha scritto) e coglie nel linguaggio associativo, analogico,
sincretico dellarte e della speculazione universali le spore
del suo neoumanesimo integrale.
Il Rausa pensatore può apparire rapsodico, magmatico, compilatore
di una lanx satura che a prima vista può sembrare un pot-pourri,
uno zibaldone di pensieri. Ma è proprio tale carattere asistematico
della sua enquête, della sua ricerca del bene, del bello,
del vero, a rendere fascinoso e intrigante il tessuto ideologico.
Scriveva Bergson: «Per un essere cosciente, esistere significa
mutare, mutare significa maturarsi, maturarsi significa creare infinitamente
se stesso».
In questa mutevole sintassi verbale e contenutistica il segno più
marcato delluomo Rausa. Con Maritain, egli intende annunciare,
in Duemila, Parola, che il punto centrale della sua visione del
mondo è luomo nella sua globalità, è
luomo nella sua contraddizione di finito e infinito, donde
il maritainiano trinomio (anima segreta e sintesi del libro): persona-comunità-Cristo,
il teilhardiano punto Omega, lincorporazione dellumanità
in Lui, Coscienza e Persona infinita che fonda e dà senso
a tutte le coscienze e persone finite. Donde il teorema che mi sembra
emergere da alcune liriche di Francesco Rausa: Parola come incarnazione
dello Spirito assoluto, Verbo che si epifanizza nel perenne divenire
della storia e dellarte. Da qui, ricordando Comi, lidentità
fra stato di grazia poetico e stato di grazia spirituale. Parola
Duemila: nesso analogico che postula ascolto e tempo, ascolto
nuovo e tempo nuovo. Parola poetica come annuncio e rivelazione,
ossia testimonianza e responsabilità del poeta, ufficio duplice
che perora la sua condizione di credente e di uomo impegnato fra
gli uomini. Impegno civile, passione politica, religiosità,
arte sono tuttuno. Come nel grande poeta della Commedia, così
nel piccolo suo epigono del Novecento.
Tramite della rivelazione è il Cristo-logos, Parola per
eccellenza, consustanziale alla condizione stessa delluomo,
perciò, a dirla con Karl Rahner (il maggior teologo del Concilio
Vaticano II, allievo di Heidegger), udibile: «La cristologia
è linizio e la fine dellantropologia e questa
antropologia è in eterno teologia» che si rivela attraverso
la parola.
Parola, dunque, veicolo di grazia per chi sappia ascoltarla.
Questo mi sembra lepicentro tematico che compagina i disiecta
membra del libro, ossia ne circoscrive e delimita lapparente
natura silvatica e rapsodica. Tutto ciò convoca, a dispetto
della scienza e dei sistemi, il carattere extrametodico dellarte,
quindi della poesia, donde il ben noto titolo di unopera straordinaria
di Hans Gadamer, Verità e metodo, titolo semantico di una
bipolarità diadica, non risolvibile al di fuori del circolo
ermeneutico che recupera la storia, tutta la storia passata, come
condizione senza la quale è impossibile la conoscenza, che,
invece, si pone come «movimento di reciproca e progressiva
sintonizzazione tra soggetto e oggetto», sicché luomo
non può collocarsi fuori dalla tradizione perché essa
è parte integrante della sostanza storica del suo esserci.
Fusione resa possibile non in forza del nesso metodico, ma in grazia
di quel nesso vivente fra antico e nuovo che è la tradizione
storica.
La poesia, dunque, in quanto parola per eccellenza è sempre
un incontro con la verità e con lesperienza dellarte
che rinnova e perfeziona chi la esperisce.
«Ogni incontro con il linguaggio dellarte [scrive Gadamer]
è un incontro con un evento non conchiuso ed è esso
stesso parte di questo evento».
La parola di Francesco Rausa è, per dirla con Petrarca, volto
della sua anima: ora vulcanica e magmatica, ora lirica e musicale,
essa rappresenta il terreno tutto interiore in cui vorticano Erlebnis
e impegno civile, preghiera e filosofia, razionalità e pathos,
impeto e memoria, parenesi e misticismo, linguaggio dellinteriorità
ed eziologia, cultura ed erudizione, umanismo e teologia, pluralità
(plurivocità della tradizione, della storia) e singolarità
irripetibile e unica dellio. Donde i periodi, sia nella prosa
che nei versi, dalle ampie volute, quasi arcate gotiche che congiungono
passato e presente con vertiginose insorgenze analogiche e extrametodiche,
donde la cifra di libro-cattedrale, di medievale speculum o summa,
come è dato rilevare considerando le fonti da lui citate
in esergo a ogni suo scritto (quasi un libro nel libro), semantiche
di letture oceaniche e sterminate.
Esse vanno dalle scritture vetero e neotestamentarie alle letterature
greca, latina, italiana, europea, dalla filosofia alla teologia
(i Padri della Chiesa), dallestetica, alletica, alla
musicologia, allarte figurativa intesa come epifania dello
Spirito e come occasione per sviluppare, nellio interpretante,
il canovaccio del pensiero.
Pensieri e parole sono organizzati dallautore in un trittico
che ha in sé le stimmate di un viaggio in interiore: Folgori,
Cammino, Profezia, lessemi apparentemente scevri di rapporto fra
loro, ma semantici, invece, di un processo che parte dalla Luce
(la Parola dei profeti e dei Santi, la Verità rivelata) per
irradiare il cammino delluomo nel nuovo millennio, auspice
e guida la profezia di una palingenesi cui soltanto la parola potrà
dare compimento.
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