Dicembre 2000

Sindacato: I disagi di una riforma incompiuta

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Una partita chiave per lo sviluppo
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

Si tratta di ripensare i rapporti con il lavoro e con l'impresa sotto la spinta della
new economy
che diffonde modelli di contrattazione molto elastici.

 

Scrive il filosofo Miguel de Unamuno che “in ciascuno di noi ci sono tre persone: quella che vedono gli altri, quella che vediamo noi, quella che vede Dio”. Tre anime dunque per ciascuno di noi.
Al Signor Simplicio farebbe anche piacere conoscere quante anime conta il Sindacato italiano. Impossibile esaudire la sua curiosità per la complessa intelaiatura reticolare che modella il sistema. Qualcuno parla di monarchie ereditarie, qualcun altro di corporazioni blindate in attesa della debolezza altrui, qualche altro ancora di scisma in atto, con qualche apostata in cerca di autonome avventure. Questi giudizi, severi ed estremi, non fotografano la realtà ma indicano una condizione interno di concorde discordia ed il disagio di alcune verità uricanti connesse alla difficoltà di operare nello stesso tempo come centrale di lotta e di governo.
Il Sindacato-Istituzione dovrebbe assoggettare a dubbio critico una vasta area di problemi. Dovrebbe spiegare come sia possibile amministrare un tasso elevato di disoccupazione mentre gli imprenditori vanno a prendere all’estero manovali, operai specializzati, tecnici laureati e premono sul governo per aumentare gli ingressi (un esempio di conflittualità prodotta da note rigidità interna). Dovrebbe chiarire quale apporto possa dare ancora la concertazione centralizzata quando la governabilità del sistema si pratica per più linee orizzontali (Regioni, Province, Comuni) che verticali (Amministrazione centrale). E quali vantaggi possa assicurare la contiguità con il ceto politico militante quando le logiche dello sviluppo sono dominate dalle sorti dell’euro, dagli umori del popolo ???? e dal venture capital che notoriamente esprimono altri impegnati sul mercato globale, abituati a creare “valore” senza intermediari. Ed ancora, come sia possibile assicurare più forza e credibilità all’azione sindacale (sollecitate dall’interno e dall’esterno delle organizzazioni) tenendo fermo il sistema attuale degli apporti finanziari.
La congiura del silenzio non aiuta chi deve stare comunque sul ring delle riforme e delle moderne relazioni industriali.
Personalmente attribuisco al Sindacato contemporaneo il ruolo di “avvocato del razionale” nella ricerca dell’equilibrio distributivo e redistributivo delle risorse. I suoi interessi primari non sono più ispirati da un modello di stato etico (con richiami e legami all’internazionalismo proletario) e da un’opzione elettorale, ma dalla necessità di rendere razionale il reale. Le istanze riformiste che a vario titolo premono sul Sindacato ignorano la memoria storica, le ideologie e le strettoie legali e contrattuali, hanno carattere pratico ed attengono al ruolo di mediazione ed alle responsabilità che il Sindacato deve assumere nel cantiere in cui convergono i molteplici fattori dello sviluppo (in Europa l’economia sociale di mercato, ora sotto attacco neo-liberista, non è in discussione ma ha bisogno di consistenti restauri che non si possono attuare senza il contributo progettuale del Sindacato).
Nella nuova geografia dello sviluppo agire per logiche congiunturali, con strategie di breve periodo, non è sufficiente. Rischia di affievolire lo slancio efficientista, caratterizzando il Sindacato come una confraternita di piccoli dèi stazionanti in un Olimpo usurato. Con l’orgoglio degli “oligarchi” destinato a produrre più illusioni che illusionisti, nel nome di una interpretazione formale della rappresentanza (più amministrativa che manageriale).
“Pensare globalmente – Agire localmente” è uno slogan di successo del mondo ambientalista. Ma anche il Sindacato potrebbe trovare in esso validi motivi d’ispirazione essendo ormai esaurita la spinta post-unitaria al centralismo istituzionale, portata al declino del concetto emergente di democrazia del villaggio. La sua azione ha bisogno di liberarsi dei riflessi condizionati e di arricchirsi d’iniziativa propositiva, duttilità e pragmatismo, a fronte di una realtà economica che, nel tentativo di affinare l’efficienza dei fattori di produzione, determina continue aggregazioni e disaggregazioni nel potere finanziario, negli assetti proprietari delle imprese, nell’organizzazione de lavoro aziendale. La crisi del posto fisso e il nomadismo che ne consegue, la funzione strategica del capitale umano e le realtà multietniche che caratterizzano la frontiera del lavoro post-industriale creano più centrali di ascolto e implicano la rilettura di una organizzazione sociale ormai destrutturata.
Vanno rivisitati i tradizionali valori di comunità ed appartenenza, le forme di convivenza (dalla scuola alle realtà amministrative) e più in generale i rapporti tra cultura e territorio. Per abbattere le incrostazioni corporative, costruire codici di meritocrazia in sintonia con gli indicatori di efficienza (più qualità e meno equalitarismo) e disegnare nuove geometrie cetuali. per andare oltre i rarefatti “interessi minimi” dei tesserati, verso la salvaguardia di interessi collettivi resi più conflittuali e sofisticati dal governo della competizione imposta dalla nuova economia del “just in time”. Scaricare questi nosi della modernità sulla politica è una comoda scorciatoia pre-moderna.
Una gestione fisiologica più efficace può essere conseguita ampliando gli spazi di autonomia sindacale, per battere strade negoziali inesplorate.
Travalicando l’alveo “presenzialista” che d£ significato di complementarietà ad un’attività che invece ha bisogno di recuperare stile e forza rivendivicativi, per una tutela più decisa ed autorevole del cittadino-consumatore-risparmiatore.
Nei programmi per lo sviluppo sarà utile porre attenzione alle questioni di vulnerabilità strutturale, alla mappa degli interventi ed alla loro selezione (le scelte strategiche sono sempre importanti per il sistema-paese), ma assumeranno rilevante significato i metodi formativi, le procedure di ???? al lavoro, le metodologie impiegate nell’organizzazione del lavoro, la partecipazione al controllo di gestione delle imprese ed alle possibili ipotesi di cogestione.
Anticipando corsie e contenuti di una progettualità che i “federalisti” non hanno ancora ed i “centralisti” non hanno più. Gli interrogativi attorno ai quali imprenditori e sindacati sono tenuti a confrontarsi sono affascinanti nella loro semplicità.
L’Italia dev’essere soltanto un mercato commerciale o deve impegnarsi seriamente nella ricerca e nell’innovazione, caratterizzando un suo modello di specializzazione? Quali ammortizzatori sociali sono compatibili con il capitalismo della globalizzazione, dell’informazione e del sapere? Quali contenuti deve avere la rappresentanza collettiva quando il lavoro diventa più autonomo e gli individui non sono più riconducibili ad un centro strategico ma esprimono frammenti di autonoma soggettività (metamorfosi Internet)?
Questi interrogativi non possono più restare tra parentesi mentre il rigore senza riforme rende fiacco il sistema, privandolo di elasticità e dinamismo. Si tratta di ripensare in profondità i rapporti con il lavoro e con l’impresa in un momento in cui sotto la spinta della new economy si vanno diffondendo modelli di contrattazione molto elastici e clausole di fedeltà contrattuale che hanno bisogno di seria riflessione.
La Microsoft obbliga i nuovi assunti a non accettare, in caso di dimissioni e licenziamento, un lavoro presso una ditta concorrente per almeno un anno (tempo medio in cui inaridisce il “capitale intellettuale”, facendogli perdere il valore di mercato). La memoria umana sostituisce ed integra la macchina come mezzo di produzione e dunque si ritiene legittimo assoggettarla a specifica normativa. Una tale forma di arroganza imprenditoriale esclude il riconoscimento del contributo in originalità e creatività che il fattore umano ha sempre portato al processo produttivo.
Formule inquietanti di questo tipo non sono ancora in circolazione in Italia. Per la prima volta si è dato vita ad un contratto nazionale per i lavoratori della new economy (300 mila addetti alle telecomunicazioni,, Internet e-commerce), tutto centrato sulla flessibilità e sulla razionalizzazione normativa (finora si era in piena giungla; ad Omnitel si applicava il contratto dei metalmeccanici). Ma i contenuti essenziali della dialettica contrattuale sono ancora quelli tradizionali (orario e livelli salariali) mentre emergono con forza elementi nuovi di negoziazione.
Il Sindacato deve appropriarsi dei fermenti che alimentano la ricerca di nuove identità nella Società civile, anche in ragione dell’inaridirsi della “pubblica” attenzione verso gli interessi collettivi. La sua azione non può essere perennemente appiattita sulle stanze prodotte dai diversi livelli di sindacalizzazione (in Usa il livello medio non supera il 15% degli occupati). Ha invece un forte ruolo da svolgere nella riorganizzazione del mercato in chiave imprenditoriale; nella lotta all’esclusione sociale che presenta un trend in crescita connesso alla globalizzazione forzosa; nel promuovere una cultura d’impresa sensibile alle questioni sociali ed alla tutela dell’ambiente (l’analisi economica tende ad inglobare i costi ambientali e sociali nel processo produttivo– in questa direzione è molto impegnata l’associazione “Redifing Progress” che negli Stati Uniti annovera economisti prestigiosi come Robert Solow, Kennet Arrow e Paul Krugman).
L’associazionismo ed il volontariato non hanno forza negoziale autorevole e quindi non possono svolgere un ruolo adeguato di supplenza.
Sia nell’Europa contemporanea, animata da fremiti unitari e spinte localistiche che, affievolendo i tradizionali valori dello Stato etico, determinano nei cittadini ed ancor più negli immigrati forme esasperate di solitudine, progressiva diffidenza verso le istituzioni e rifugio nelle roccaforti formate da minuscole comunità e cellule familiari.
Sia nella Società dell’informazione, che tende a comprimere la sfera della legislazione statale. Il monopolio giuridico dello Stato deve competere con nuovi ed agguerriti concorrenti che privilegiano una regolamentazione degli interessi su base contrattuale. C’è l’invadenza della “corporate governance” e ci sono gli arbitrati che esprimono forme di diritto personalizzato e concordato (non a caso siamo nell’era delle corporation).
E ci sono ancora le norme che regolano la vita del mercato, influenzate da protagonisti che le vogliono sempre più “soft”, in ossequio al nuovo vangelo della flessibilità promotrice di efficienza. Sono segnali di un neo-istituzionalismo economico al servizio dei poteri forti. Ma in attesa di trovare nuove sinergie tra pubblico e privato, il vento del mercato non si ferma e non si arresta il processo di integrazione e allargamento dell’Unione europea.
Tutto ciò produce oggettivamente una radicalizzazione dei rapporti sociali che offre nuove opportunità al Sindacato, al ruolo di outsider leader che lo rende protagonista nella società politica e nella società civile.
Inseguendo le coordinate del sogno americano si tratta di rendere compatibili due avventure molto diverse: quella del Dow Jones e quella di Indiana Jones, quella della Borsa e quella dei borsini che filtrano offerte e condizioni di lavoro (la forte mobilità nei modelli di business produce contrazione sistematica della forza lavoro).
La duttilità sindacale richiede l’abbandono della teoria dell’ngagement, cara all’assistenzialismo ed al materialismo storico (privilegia le ideologie, gli schieramenti elitari) e la concentrazione degli interessi sulle “zone fluide”, dove permangono rigidità di vario segno e necessità di regole dove nessuno interviene (più Eduard Bernstein, ispiratore del riformismo tedesco, e meno Sastre).
Essere creativi nel produrre rinnovamento, nel recuperare un rapporto dialettico tra leader e Società, stimola la riflessione di altri tre passaggi: uno di riordino organizzativo, per attuare una devolution interna che ridefinisca funzioni e presenza territoriale; un altro di valutazione critica del processo decisionale,, per evitare l’errore comune di assumere comportamenti e decisioni guardando non ai vantaggi futuri ma ai risultati conseguiti nel passato; un terzo di utilizzo del media village. (più il mondo diventa omologato, più forte appare la ricerca di nuove identità e dunque la comunicazione diventa elemento di raccordo in senso dialogico, non labile ed improvvisato momento mediatico al servizio di opinion leader).
La massa critica riguarda un contenzioso di ampio respiro, dal momento che l’Italia fa registrare nell’Unione europea il più basso indice di sviluppo ed il più alto tasso di disoccupazione, una forbice che mobilita ed antagonizza la funzione del Sindacato in tutte le tematiche riformiste.
La competitività, principale preoccupazione delle relazioni industriali, è questione di clima sociale e di sistema economico senza sbavature, non di sola riduzione del costo del lavoro, anche se il cuneo fiscale e contributivo permane e costituisce un fattore noto di rigidità. Ricerca, formazione, semplificazione delle procedure interne ed esterne all’impresa concorrono in modo rilevate al recupero di competitività. Uno studio della European Foundation for Entrepreneurs Research fa notare che le imprese americane investono nelle business school 20 volte più di quelle europee. E mentre gli industriali italiani stanno a guardare, il Sindacato non sembra avere nulla da dire. Quando il posto fisso non è più garantito, la formazione e l’aggiornamento aziendale devono assicurare al lavoratore la possibilità di stare con profitto all’interno del mercato.
Vivendo in epoca di federalismo strisciante (in termini economici implica la disaggregazione del dato generale), sarebbe utile conoscere ogni mille lire spese per salari quanto valore viene prodotto al Nord, al Centro ed al Sud d’Italia. Una radiografia grezza ma utile per avviare molti ragionamenti riformisti (a New York ogni dollaro speso per salari produce un valore pari a 6 dollari e la produttività newyorkese è al 9° posto nella classifica nazionale).
Inoltre non bisogna sottovalutare in chiave di sistema la politica d’impresa nell’area dell’economia associativa (non profit, terzo settore) dove più si concentra l’innovazione, e dove la tutela dei diritti propone differenti motivi d’interesse per l’attività contrattuale. E nello specifico della politica salariale, l’utilità strategia di un salario base (parte fissa) integrato con una parte variabile (minore) agganciata alla produttività aziendale (per i passaggio morbido dalla criminalizzazione alla condizione della ricchezza). E’ un parziale riferimento all’economia della partecipazione (incontra anche il favore del Governatore della Banca d’Italia) che nel lontano 1984 ha reso popolare “Share economy, un saggio di Martin L. Weitzman, economista al Mit di Boston (in Italia tesi analoghe, sull’ “impresa democratica” sono state esposte ampiamente da Guido Baglioni).
Si propone uno spicchio di flessibilità con cui si cerca di superare il rituale della concertazione verticistica, muovendosi verso relazioni industriali impostate su regole e contratti che privilegiano la flessibilità globale. Valorizzando i distretti locali e le intese aziendali, capaci di coniugare autonomamente le variabili della produttività e della competitività con le logiche del mercato e dell’occupazione.
La sfida della modernizzazione e dello sviluppo vede il Sindacato in prima fila anche sotto il profilo dell’equità distributiva. Dalle statistiche Istat ed Eurostat, dagli studi del Censis e di altri centri di ricerca emerge un’Italia ricca per pochi intimi, a fronte di un’altra Italia in cui i segnali dello sviluppo non hanno ampiezza “popolare”. C’è il grande boom del Nord-Est mentre il resto del Paese arranca, dando nuova linfa a vecchie istituzioni medievali come la Confraternità dei poveri vergognosi (riuniva i nobili decaduti; adesso riunisce gli agiati di ieri che stazionano sulla soglia della povertà).
E’ una realtà che va letta in filigrana, essendo coperta dal forte richiamo della dignità del silenzio, quando è vissuta nell’alveo della legalità. Lasciar passare un federalismo poliedrico, “egoistico” e “filantropo” per opposte ed interessate suggestioni politiche, finirebbe per consentire alla comunità degli affari di disporre del controllo totale del sistema, accentuando gli effetti sperequativi.
Vi sono molti chèques che il Sindacato deve ancora portare all’incasso. E’ auspicabile che Mercurio, dio degli scambi e delle relazioni (godeva fama di grande abilità nel mantenere buoni rapporti tra gli dèi), lo renda meno corto-mirante nella valutazione della realtà italiana.
Per fare uscire dal torpore il Grande Silente occorrono buone ragioni ed una ragione vera. Qui sono state indicate alcune buoni ragioni. La ragione vera il Sindacato deve trovarla in fondo all’anima: civile e transversely correct, nel solco di un’antica dimestichezza con i valori solidaristici che lo hanno accreditato come attore sociale, promotore di rinnovamento. Diffidando del “nuovo” disumanizzato ed evitando la tentazione di produrre all’interno nuovi soli, nuove lune e nuove nebbie, con il concorso di Soloni pronti a riscrivere la storia.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Sui ritardi nello sviluppo del nostro Paese, evidenziati dalla new economy, si segnalano alcuni contributi di recente pubblicazione.

– Maria Rosaria Ferrarese, “Le istituzioni della globalizzazione”, Il Mulino, Milano 2000
_ Federico Rampini, “New Economy”, Laterza, Bari 2000
– Foa e Ranieri, “Il tempo del Sapere. Domande risposte sul lavoro che cambia”, Einaudi, Torino 2000

   
   
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