Dicembre 2000

I grandi temi

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Etica e politica nel XXI secolo
Giuseppe De Rita  
 
 

 

 

 

 

E' finita la cultura
medioevale,
che consentiva
la dimensione forte
dell'etica, perchè
era legata ad una
forte intenzionalità
della cultura e della vita.

 

Ciò che maggiormente colpisce, in questi ultimi anni, non è tanto la moltiplicazione delle chiacchiere sull’etica, compresa quella degli affari, quanto la moltiplicazione delle etiche.
Di solito, è per noi tutti naturale usare la parola “etica” al singolare; nei fatti, ci troviamo di fronte ad una sorta di rottura degli schemi di riferimento unitario della parola etica; questa, infatti, appartiene ad una cultura che pensa la società e la vita come un sistema complesso ma unitario, un sistema che corrisponde ad una collettività che fa comunità, (di idee, di comportamenti, di obiettivi). In questa logica di sistema l’etica è un concetto da esprimere al singolare: è un riferimento per tutti e non per i singoli gruppi sociali.
Questa concezione unitaria dell’etica al singolare è finita, perché sono finiti i riferimenti unitari (di società e di vita, viste nel loro complesso) che stavano sotto tale concezione:

– è in crisi l’etica della “vita buona”, così connaturata alla dimensione culturale della morale cattolica, perché in una realtà sociale votata al benessere l’etica è stata soppiantata dalla voglia di “vivere bene”;

– è in crisi quel tipo di etica unitaria riferita alla cultura mitica della rivoluzione, (si pensi a quanto sono stati etici i comunisti per molto tempo), perché in fondo non esiste più un modello rivoluzionario della società;

– ed è in crisi anche (mi perdoneranno gli imprenditori) l’etica legata alla cultura e alla prassi dello sviluppo, di fronte alla tradizionale “vita buona” e all’etica del cambiamento rivoluzionario, un modo diverso di orientare atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi, (pensiamo a quanta etica dello sviluppo fosse implicita in una grande enciclica come la “Populorum Progressio”). Oggi chi parla di sviluppo parla di crescita, di Pil, di terziarizzazione, di globalizzazione, cose che innervano pochi riferimenti etici.

Di fatto, dobbiamo quindi renderci conto che la parola “etica” al singolare, come criterio di riferimento per il comportalento di tutti, non è più fruibile perché sono finiti, o sono in crisi, i sistemi culturali, ideologici, religiosi, che danno valore a una dimensione unitaria, quasi unica dell’etica. Non abbiamo più teologia, si potrebbe dire; non la teologia come “corpus”, ma la teologia come interpretazione anche differenziata della realtà; come scienza capace di ragionare sulle cose del mondo e di darci cultura dal loro padroneggiamento unitario.
(Posso ricordare, in proposito, la disputa che alle origini vere e non weberiane del capitalismo separò francescani e domenicani, quando i primi si decisero a fare i Monti di pietà e a dare i soldi non a usura ma a interesse. I domenicani, con Sant’Antonio da Firenze, dissero che era un peccato mortale, con l’accusa – con venature di tecnica finanziaria modernissima – che «Tu non puoi vendere il denaro, perché di fatto non vendi il denaro, vendi il tempo, e il tempo non è tuo, ma è di Dio»; e la risposta dei cappuccini, con San Bernardino da Feltre, fu altrettanto moderna: il denaro «potest esse vel rei, vel, si movimentata est, capitale»; ed è la prima volta che il termine “capitale” come logica di “moneta movimentata” entra nella cultura occidentale).
Oggi nessuna scienza (né la teologia, né l’economia, nè la macrosociologia) ha più questa robustezza di innervare un’etica unitaria, al massimo si coltivano specifici spezzoni di realtà e di etica. Probabilmente è finita la cultura medioevale, quella che consentiva la dimensione forte dell’etica, perché era legata ad una forte intenzionalità della cultura e della vita. Come sostiene Del Noce, siamo passati da Cartesio a Nietzsche e da Cartesio a Rosmini, e quindi non abbiamo più una cultura unitaria di riferimento.
Dobbiamo allora accontentarci di non poter più parlare di etica al singolare e di ragionare conseguentemente sulla constatazione:

– che siamo passati da una unitaria etica collettiva alla proliferazione di etiche individuali, alla molecolarizzazione dell’etica: ciascuno di noi, al limite, ha diritto ad avere un’etica personale;
– e che tale molecolarizzazione si condensa solo, quando si condensa, su delle etiche settoriali, anche all’interno dei processi economici: oggi non vi è un’etica del mercato o un’etica dello Stato, ogni gruppo finisce per avere una propria etica.

Esiste un’etica egualitaria che il sindacato per tanti anni ha portato avanti con determinazione e sincerità; esiste un’etica solidaristica, portata avanti da molti gruppi, in particolare nell’ambiente forte del mondo cattolico; esiste poi un’etica ambientalistica, che vede la natura come elemento da difendere rispetto al dominio dell’uomo; esiste un’etica imprenditoriale, di coloro i quali sostengono di dover rischiare, padroneggiando la natura, e fare profitto (anche con delle ristrutturazioni socialmente dure); esiste un’etica dell’esigenza di riequilibrio tra Nord e Sud; e via moltiplicando. L’economia, oggi, non ha più etica e sarebbe certo sbagliato pensare di andare alla ricerca di una nuova etica economica, poiché l’economia ha tante etiche quanti sono gli operatori, i gruppi di operatori, le professioni interne alle vicende economiche.
Di fronte a tutto ciò, mi sembra quasi ironico e sbagliato parlare di “etica e affari”: o si parla di etiche, molto frammentate; oppure si deve dire come si può concepire un sistema sociale abbastanza complesso e unitario da dar luogo ad una moralità, se non unica, almeno dominante. A meno che non si pensi che (come mi sembra pensino oggi gli imprenditori) basta attendere che alla fine vinca la componente etica più forte: ogni ciclo ha il suo vincitore e oggi potrebbe essere la volta del capitalismo imprenditoriale e delle sue “regole”.
Ho comunque dei dubbi a questo proposito, e non per malevolenza verso i vincitori di oggi, visto che da vecchio studente di legge ho sempre saputo che le regole sono stabilite dai vincitori, e che non ne esistono di astratte, che valgano per tutti. Le mie resistenze vengono piuttosto dalla banale constatazione che gli apparenti vincitori di oggi non riescono a codificare le loro regole; forse non hanno tanta forza, forse (e più verosimilmente) debbono tener conto di una società più complessa e variegata di quanto essi la pensino.
Allora, il problema da affrontare, in realtà, è se sia possibile ricondurre la questione etica a un discorso generale sulla società, un discorso non frammentato in etiche settoriali o addirittura molecolarizzate. Ho infatti l’impressione che il discorso delle regole (che appare oggi come quello unitario) non si risolve rinviando tutto a un’ulteriore segmentazione sociale e morale, per cui ognuno coltiva il proprio interesse nel modo il più pluralistico possibile. Credo invece che occorra ricominciare a ragionare in termini di “corpo sociale”.
Non abbiamo diritto di parlare di etica se non riusciamo a parlare in terminio di soggetto collettivo di etica. Se il corpo sociale complessivamente, senza rivoluzioni o teologia, ha una coscienza di sé e una consapevolezza del suo essere strutturale, ha anche la capacità di darsi una cultura e un’etica dal profondo. L’etica al singolare esiste soltanto in quanto esiste un soggetto dell’etica, e quel soggetto è il corpo sociale, è la società nel suo complesso, la società come “ente storico”. Altrimenti andremo inevitabilmente verso un’ulteriore frammentazione e segmentazione di etiche sempre più fragili e di poco senso e spessore.
Mi rendo conto che, in una cultura tutto sommato liberaldemocratica come quella della maggior parte degli italiani, attiri di più la tendenza a portare le tante etiche economiche verso l’ulteriore frammentazione e che, in fondo, si possa considerare un’idea di “vetero-sinistra” il riprendere un discorso di corpo sociale, di cultura collettiva, di autocoscienza della società, di autodeterminazione sociale, di etica comune al sistema. Però, nella storia degli ultimi secoli, la dimensione collettiva è stata forte e deve continuare ad esserlo. La frammentazione fino all’esasperazione non rende forte la società; la rende vitale e proliferante, ma è una cosa diversa. In realtà, non vi è etica collettiva senza un soggetto collettivo e la sua tensione morale.
Dunque, la mia testimonianza è nel richiamo a stare attenti alla frammentazione e alla diversità delle etiche: se si accetta tale trend, allora non si parli di etica, ma di tante etiche al confronto, di tante etiche che si autoregolano attraverso un feed-back continuato. Se invece il trend non convince, allora solo un ritorno ad una cultura di corpo sociale, di società storicamente determinata, può ridare senso ad una riflessione morale e ad una nuova elaborazione etica.

   
   
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