Giugno 2000

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Storia d’Italia questa sconosciuta

Fulvio Summaria non è più tra noi. Questo valoroso cultore della nostra storia, giornalista di razza, che con i suoi “pezzi” di mirabile sintesi ha onorato la nostra rivista, è scomparso in terra di Puglia, dove le sue vicende umane lo avevano portato dalla natia Cosenza.
Fu personaggio schivo e riservato, ripiegato in una scrittura di saggi come atti unici esemplari, che redigeva con profondità di sentimenti e con originalità di cognizioni, e che proponeva con la discrezione del gentiluomo di rara caratura stilistica e dell’autore di alto spessore intellettuale.
Riportiamo qui – valore aggiunto per “Apulia”, volontaristicamente collegati, gli ultimi tre cammei che ci aveva inviato, al modo degli altri, di identico metro, già apparsi su queste pagine, quando sembravano rinvigorita la sua vena creativa, senza riserve la sua amicale adesione al nostro lavoro, e insospettabile il preludio al suo sofferto tramonto.

a.b.

Se volessimo sviluppare un grafico sulla carta geografica della Penisola, ci troveremmo in grave imbarazzo. Infatti, scorrendo un ideale atlante, scopriremmo che nell’arco di circa un secolo, gli italiani sono stati chiamati spesso ad assumere impegni militari. Da Verona alla lontana Sicilia, molti fatti d’armi sono stati condotti dal popolo con alla testa i cosiddetti aristocratici e religiosi di rango. Ci piace ricordare gli avvenimenti svoltisi all’indomani della invasione delle truppe giacobine di Napoleone, al comando del generale Championnet. L’evoluzione dell’occupazione ci sorprende per i connotati di straordinaria attualità che assume.
L’episodio di allora si scontra con il nodo culturale etico-pubblico e politico che portò alla formazione del nostro Stato-Nazione, con tutte le complesse implicazioni che comportava e ne chiarisce pure la caratteristica repressiva, pur se verniciata da accenti liberali più teorici che reali.
L’insorgenza che stiamo ricordando sfociò, come ben sappiamo, in aperta ribellione di massa interclassista, contro princìpi filosofici superficiali di eguaglianza e di sanguinante utopia, che comportò per giunta anche la cancellazione della religione.
Tutto questo come preambolo per ricordare prima di tutto le giornate di Verona (17-25 aprile del 1797) e la reazione del popolo partenopeo contro la repubblica giacobina che provocò 60 mila morti tra gli insorti, definiti sprezzantemente lazzaroni senza cultura. Il fatto che la rivolta dal basso sia stata guidata da un cardinale, Fabrizio Ruffo di Calabria, non significa che tutto il movimento debba essere tout court definito reazionario. Fu invece l’estrema difesa della libertà di pensiero e di religione.
Nell’Ottocento ci furono episodi di ben altra portata. Come i moti del ‘21 e ‘48-‘49, che aprirono di fatto la fase risorgimentale, culminata poi nell’annessione dei nordisti al Regno delle Due Sicilie.
La brutalità del comportamento delle truppe (purtroppo chiamato esercito italiano) di occupazione, la spoliazione violenta dei beni pubblici e privati e il disprezzo degli stati maggiori nei confronti della popolazione composta in molta parte da contadini, nonché la sopraggiunta crisi economica, innescarono la miccia dei primi movimenti di resistenza.
Molti ufficiali dell’ex esercito borbonico riuscirono così in quasi tutto il territorio a organizzare bande di rivoltosi tra i quali trovarono posto anche molti individui già compromessi con la legge. Ma questa è un’altra storia. Intanto, i superstiti della corte di re Francesco II, dopo la caduta della fortezza di Gaeta, si rifugiarono a Roma, ospiti di quella aristocrazia clericale ancora indipendente (i cui eredi sono oggi laici e solidamente italiani). Da quella comoda base fu facile rifornire le bande ribelli di denaro e di apprestamenti logistici. Dai primi moti dunque si passò così, rapidamente, ad aperta ribellione. Interi reggimenti di bersaglieri e divisioni di fanteria con l’apporto di artiglieria furono impegnati in combattimenti campali con perdite gravissime da tutte e due le parti. Fu quindi guerra che assunse in breve aspetti ideologici contro coloro che avevano compromesso per sempre un assetto sociale con conseguenze che ancora oggi paghiamo (l’Italia meridionale soprattutto paga lo scotto con una latente insidiosa discriminazione). Fu soprattutto una guerra civile, simile a quella che scoppiò in seguito tra i confederati dell’America del Sud e gli unionisti del Nord. Stesse le motivazioni: il Sud deciso a difendere la propria libertà, giusta o no che fosse, e la forza egemonica di un capitalismo sorretto da un solo obiettivo, il profitto.
Oggi noi, dell’Italia del Sud, possiamo orgogliosamente dire al mondo che la civiltà della cultura universale è nostra. Aspettiamo solo che altri eventi portino alla luce i meriti di un popolo laborioso nel silenzio e nella parsimonia.

* * *

Con l’ingresso dell’Italia nell’Unione europea, si conclude il difficile cammino dell’iniziale progetto di dare al nostro Continente una configurazione politica unitaria, pur nelle differenze etniche e culturali dei popoli che, in secoli di storia, si sono fronteggiati in guerre sanguinose e fratricide.
Vogliamo ricordare Carlo Magno, precursore di tutti gli altri tentativi di unificare l’Europa? Non è stato agevole rimuovere quelle secolari discriminatorie ai danni di alcune comunità nazionali e nazionalistiche, uscite dall’ultimo terribile conflitto che dal 1939 al 1945 ha pressoché distrutto la parte centrale del Continente, dalle regioni anseatiche alla Sicilia. Per lunghi anni i difficili rapporti tra i popoli furono causa di secolari divisioni e contrasti. Ciò nonostante, e i risultati si vedono, gli scambi culturali ad ogni livello e la necessità di creare un clima favorevole all’interscambio economico hanno consentito nel corso degli anni, all’Europa, di darsi una connotazione foriera di altri e più produttivi successi.
Per l’Italia il concetto di unificazione non è stato mai ostacolato, in quanto la nostra storia millenaria ha sempre collegato gli italiani ad una filosofia, pur se non scritta, di naturale concetto di libertà e fratellanza anche nei confronti di comunità geograficamente lontane. Non appaia un paradosso dire che gli italiani, in senso sia collettivo che individuale, hanno sempre privilegiato i rapporti con gli stranieri spesso a scapito di quelli con i propri fratelli.
E dei meridionali che dire? E’ recente e non ancora completamente vissuto l’afflusso di disperati provenienti da numerosi Paesi vicini e lontani. Basta riflettere al valore della generosa ospitalità del popolo pugliese, senza sottacere l’esempio storico della comunità salentina ormai all’apice nelle classifiche dei popoli più generosi. La vocazione all’europeismo è stata sempre insita negli animi semplici dei nostri compatrioti accanto alle più nobili prerogative portate avanti dai nostri rappresentanti all’estero padroni di profonda cultura umanesima, retaggio di millenaria esperienza di alto sentire. Questo anche e soprattutto diremmo, nei frangenti più difficili della nostra esistenza di popolo e di cittadini.

* * *

Quest’ultimo cinquantennio di storia patria, che si conclude con la fine del secondo millennio, sarà ricordato per due avvenimenti: il Giubileo e la Globalizzazione.
Vorremmo soffermarci, per quanto riguarda quest’ultima, sul termine e sugli eventuali riscontri economici sui quali si consumano a tutt’oggi fiumi di inchiostro da parte di giornalisti e perché no anche da quella degli addetti ai lavori: economisti e capi di industria. Spesso in contraddizione fra loro, avendo mostrato sia gli uni che gli altri di non sapere esattamente a cosa possa portare la liberalizzazione dei mercati, imbarcando insieme all’economia depressa anche quella in piena salute.
Nella sostanza, il trattato di Maastricht si può considerare come una forzatura dettata indubbiamente dal problema dei vincoli di spesa pubblica (per alcuni Stati) da una parte e le esigenze di competitività dall’altra, che per l’Italia risultano molto complesse a seguito dei processi di globalizzazione.
Come possa essere risolto, tecnicamente prima e politico dopo, questo intreccio tra competitività e riassetto della spesa pubblica, parlando sempre del nostro Paese, lo ignoriamo. Tanto più che coloro i quali dovrebbero dare un indirizzo chiaro a questo proposito, ci sembra evidente che abbiano paura della difficoltà evidente della situazione, tirando a campare in attesa, forse, di un miracolo (dal Giubileo?).
Per quel che riguarda l’Europa, il coordinamento delle attività industriali e commerciali deve tener conto della potenzialità dei partners d’oltreoceano, parliamo evidente del colosso nord-americano. Se l’Europa dovesse in uno spazio di tempo ragionevole imporre la sua potenziale produttività, conquistando mercati più redditizi, le ripercussioni per il nostro Continente sarebbero un segnale di prosperità per gli Stati associati.
Tutto questo nella teoria. Nella pratica, la situazione è allo status quo. Basti pensare ai vantaggi che gli Stati Uniti hanno ricavato dalla recente guerra balcanica, stabilendo un vero e proprio concerto egemonico per la ricostruzione delle zone devastate dagli eventi bellici.

Se realmente la globalizzazione potrà portare ad una sana concorrenza, i partners più forti dovranno adeguarsi (regole da rispettare) a seguire un’evoluzione che investe anche territori e popolazioni escluse da secoli dai canali di una rapida civilizzazione, come Africa e gran parte del Sud-Est asiatico. Riguardo alla nostra economia interna, si potrà sperare di ottenere una soddisfacente razione di ossigeno dai risultati che il Giubileo potrà portare sia al centro della capitale politica e cattolica d’Italia, sia soprattutto alle zone periferiche della Penisola. Direttamente o indirettamente interessate all’afflusso, speriamo congruo, di pellegrini.

fulvio summaria

L'ordinato disordine della follia

Il musicologo Aristosseno di Taranto, vissuto nel IV secolo a.C., ci lasciò una descrizione di una strana malattia diffusa nella Magna Grecia, tra le donne di Locri e di Reggio Calabria: esse credevano di intendere una voce divina che le chiamava da lontano, balzavano in piedi e correvano via da casa senza che nessuno riuscisse a trattenerle, aggirandosi per la campagna fuori di sé. Un episodio, dunque, di follia collettiva, ma una follia che in qualche modo era posta sotto il patrocinio di una divinità: l’epidemia infatti fu curata con purificazioni e sacrifici in onore di Apollo.
Quello delle donne di Calabria non è il solo caso nell’antichità di follia “divina”. Al contrario, si potrebbe sostenere che nella Grecia arcaica è questo lo schema di credenze entro il quale erano generalmente collocati i disordini mentali e i disturbi del comportamento.
«Gli antichi», scrive Platone nel Fedro, «ritenevano la follia tanto superiore alla sapienza, in quanto l’una proviene dagli dei, l’altra dagli uomini». Poco sotto, egli espone una vera e propria teoria della pazzia causata dall’intervento degli agenti soprannaturali. Vi sono quattro categorie di follia (o mania) prodotta da un «divino straniamento (thèias exallaghès) dalle consuete regole di condotta»: una pazzia proveniente da Apollo, che stravolge la mente di sibille e profetesse e concede loro poteri divinatori. La follia di Afrodite, che toglie il senno a tutti gli esseri umani e perfino agli dei, quando s’innamorano; una follia che viene dalle Muse e porta con sé, per i poeti, il dono dell’ispirazione e della creatività; infine, una follia iniziatica che dipende da Dioniso e produce manifestazioni di Trance e di delirio estatico, ossia il “baccheggiare”.
In una prospettiva di questo genere il folle è soprattutto un posseduto: il disordine dei suoi atteggiamenti non dipende da un cedimento della mente, ma da una forza divina che irrompe in lui, lo agita, lo rende capace di manifestazioni straordinarie, e infine lo abbandona immemore e placato.
Piuttosto che un’aberrazione della mente, la follia “divina” era intesa come un accrescimento della personalità. Non un margine osceno rispetto la normalità, dunque, ma una dimensione profonda dell’esistenza, dalla quale scaturiscono alcune tra le manifestazioni più complesse della vita di relazione tra individuo e comunità: non solo la divinazione, ma anche l’amore e l’arte. Persino quell’energia subitanea che Omero chiamava ménos e che afferrava gli eroi in battaglia, spingendoli al sacrificio all’estremo del sacrificio, oppure li abbandonava d’improvviso lasciandoli sgomenti davanti al pericolo, era concepita dalla cultura tradizionale nei termini di una divina alterazione della personalità. Sono gli dei, infatti, a concedere o sottrarre ai guerrieri quello che noi definiremmo “coraggio”.
Prima di una battaglia, i Vichinghi si auguravano che nell’ardore del combattimento qualcuno di loro perdesse la ragione divenendo “folle”, così da compiere prodigi di valore.
Per quanto riguarda la “follia” delle Muse – nell’ambito di un sistema espressivo fondato sulla comunicazione orale – lo stesso Platone ne offre una precisa raffigurazione nello Ione: i poeti compongono solo quando sono «fuori di senno» e «posseduti da un Dio». Solo allora essi sono in grado di trascinare la mente degli ascoltatori, rapiti dallo stesso delirio, come una calamita attira a sé i pezzi di metallo.
La società occidentale moderna ha tracciato un solco molto profondo tra follia e salute mentale; una società tradizionale, al contrario, non conosce il rigore dell’esclusione dell’alienato, dal momento in cui la trasferisce su un piano mitico-rituale. Chi è posseduto da un dio, se si isola dalla umana, entra in relazione con la comunità invisibile degli spiriti e degli dei.
Una cultura arcaica – come quella già estremamente complessa della Grecia preclassica, e a maggior ragione in una società primitiva – convive dunque con la follia, e di conseguenza si trova nella necessità di elaborare meccanismi di controllo e di gestione sociale dell’alienazione.
Uno sciamano, con il suo bagaglio di manifestazioni paranormali – la trance, la scissione della personalità, la catalessi – dal punto di vista clinico è certamente un alienato: gli psichiatri hanno giustamente parlato di una «malattia sciamanica» che apparenta il guaritore siberiano o il medicine-man pellerossa a un vero e proprio psicotico. Tuttavia, è altrettanto vero che tra uno sciamano e uno psicotico “privato” corre una fondamentale differenza: i conflitti psichici dello sciamano non si localizzano nella sua esperienza individuale, ma nella cultura a cui appartiene.
Lo sciamano “posseduto dagli dei” è una sorta di eco dei conflitti psicologici potenzialmente presenti nel gruppo sociale; perciò i rituali di difesa che egli pone in pratica sono ritenuti tranquillizzanti dai membri “sani” della comunità socialmente accettati. Divengono anzi parte integrante del patrimonio di cultura della comunità stessa. Nel tracciare il quadro della follia divina, Platone fu attento a prendere le distanze da questi schemi di pensiero tradizionali, che erano da tempo oggetto di critica da parte di filosofi e di scienziati. Attribuire il delirio agli dei, pensando che essi entrino nel corpo umano – scrive Ippocrate nel trattato sulla malattia sacra – è insieme il colmo dell’ignoranza e quello dell’empietà: «I primi a considerare sacre queste malattie furono uomini come se ne vedono ancora adesso: maghi, esorcisti, preti, mendicanti, gente che va in giro facendo la questua. Essi misero in campo il divino per nascondere la loro ignoranza e la loro incapacità». Per Ippocrate, gli eccessi di epilessia o di parossismo furioso erano un fatto patologico, prodotto dalla pressione di sangue e flegma sul cervello.
Se per i medici greci la follia inizia a diventare una malattia della mente, per i filosofi invece essa risiede nell’anima.
Secondo Platone, realmente folle è colui che si lascia trascinare dalle passioni e dai desideri irrazionali: è folle il tiranno che vive nel suo sospettoso isolamento, tra sangue e terrore, com’è folle la massa trasportata agli atti più insani dalle sue pulsioni senza controllo. Aristotele porta un contributo decisivo ad una definizione laica e clinica della follia.
Se da un lato il suo sistema logico mette completamente al bando ogni operazione mentale non fondata su una rigorosa concatenazione del pensiero (escludendo quindi quel tipo di razionalità intuitiva e analogica che sta alla base dell’agire di un “divino folle”) dall’altro sviluppa coerentemente la teoria organica delle malattie mentali, per la quale la follia non è altro che il prodotto di un’alterazione degli umori all’interno del cervello. Anche le imprese degli eroi del mito sono da lui interpretate come un prodotto dello squilibrio dell’organismo: «...Qualcuno di essi soffrì dei disturbi provocati dalla bile nera, e un esempio della mitologia è Eracle: sembra che egli avesse questa costituzione e quindi le turbe epilettiche furono definite dagli antichi, prendendo spunto da lui, un “male sacro”: il suo eccesso furioso nei confronti degli dei suggerisce questo [...] e anche Aiace e Bellerofonte soffrirono di questo male: uno uscì completamente di senno, l’altro cercò luoghi deserti per abitare».
Si può quindi stabilire con precisione il momento in cui la cultura occidentale cominciò a voler rimuovere la follia. Fra il V e il IV sec. a.C. gli intellettuali greci si posero per la prima volta di fronte ad essa con gli occhi della ragione e con una nobile quanto intollerante volontà di redenzione. Perché, se il folle è un malato oppure un stolto, esso è pure passibile di cure o educazione; cessa di essere un mediatore tra i piani diversi della realtà, un individuo in qualche modo persino privilegiato, e diventa inferiore, se non una potenziale minaccia per l’equilibrio sociale della comunità. In questo modo, comincia ad essere possibile l’utopia di un mondo che non abbia folli. Solo quando nella Repubblica Platone definisce il suo Stato ideale, ne esclude qualsiasi forma di alterazione psicologica.
Così s’inizia a delineare da parte degli intellettuali un mondo completamente ordinato e razionale, un’utopia in qualche modo presente nelle radici stesse della cultura greca. Rinunciamo a immaginare che cosa potrebbe essere una società del genere.
Certo, molti sarebbero passati prima di quella definitiva esclusione della follia dalla vita associativa, realizzata in epoca moderna e così lucidamente delineata da Michel Foucault. Non si può dubitare però che le basi teoriche di questo processo di emarginazione fossero state gettate allora.
Eppure, la cultura greca arcaica e ancora quella dell’età di Platone erano abituate a convivere con la follia. Pochi anni prima della Repubblica, Euripide pose la “follia di Dioniso” al centro di una delle sue maggiori tragedie, Le Baccanti. Il culto dionisiaco rappresenta, in Grecia, il modello più articolato – e quello meglio osservabile – di organizzazione sociale della follia, che diviene in tal modo una vera e propria istituzione sociale. I riti dionisiaci si fondavano infatti su meccanismi di induzione della trance collettiva che attraverso la musica e la danza, facevano progressivamente perdere al baccante il controllo della sua mente trasformandolo in un entheos, un «uomo dentro cui sta un dio». I fedeli di Dioniso (come generalmente quelli di ogni altro culto estatico) affermavano che questa era la forma suprema di conoscenza.
Rituali come quello dionisiaco come quelli praticati nell’Atene dell’epoca da corporazioni religiose di danzatori estatici quali i Coribanti, assumono non solo la funzione di organizzazione pubblica del delirio, contribuendo all’igiene psicologica della comunità, ma assolvono una fondamentale funzione reintegratrice. Non a caso il rito dionisiaco era praticato prevalentemente da donne, ossia da quella parte della società esclusa dai meccanismi del potere e sottoposta ad un pesante controllo del comportamento.
Ancora una volta è Platone, così teso ad analizzare sia gli estremi del razionalismo che quelli della follia, a tracciare il quadro più complesso e acuto che l’antichità ci abbia lasciato di questi fenomeni. Vi sono individui – egli osserva nel Fedro e nelle Leggi – particolarmente fragili di mente, che vanno soggetti ad essere «posseduti da un dio». In questi casi, l’intervento di un rituale purificatorio fatto di canti, danze e musica può indurre in loro una pazzia divina e nello stesso tempo guarirli, cosicché essi possono nuovamente integrarsi nella divina armonia del cosmo. Si potrebbe dire, una cura omeopatica della follia. Platone affermava che la guarigione dipendeva dalla reintegrazione nell’armonia dell’universo. Noi penseremmo piuttosto che essa si realizzi sul piano della comunità sociale, consentendo a chi è lacerato con se stesso di riconoscersi in alcune forme culturalmente accettate e istituite. Ma, forse, tra le due posizioni la differenza è meno radicale di quanto sembri a prima vista perché, come direbbe Lévi-Strauss, l’efficacia simbolica dei due procedimenti è dello stesso stile.

ilaria serra

Un poema di mosaico, e viceversa...

Un mosaico è sempre un poema e viceversa; ma procediamo con ordine (e prudenza)...
In Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia (Editrice Salentina, Galatina, 1985) Mons. Grazio Gianfreda scrisse che Pantaleone e Dante «appartengono all’epoca delle grandi audacie (1050-1350) in cui l’anima cristiana si esprimeva in forme di originalità così profonda, di una potenza d’invenzione e di sintesi, quale l’umanità non saprà più ritrovare». Dunque, un poema è sempre un mosaico e viceversa...
Concordo senza esitazione, salvo che sul pessimismo storico che chiude la frase qui riportata e sulla troppo circoscritta anima “cristiana”. Mi sembra, causa tale apodittica settorialità “geografica”, ne debba derivare un concetto riduttivo.
Oso dichiarare, per diretta esperienza, che l’umanità è un indivisibile fatto globale di segni, modi e simboli collettivi, uno sviluppo ubiquitario secondo ritmi che possiamo cogliere, annullando le distanze, il tempo, lo spazio, l’ambiente, l’habitat, categorie ideologiche dei miopi; un fatto globale, reso possibile proprio grazie al genere di incontri, di cui al titolo sopracitato, fra espressioni parallele, anche se formalmente diverse e distinte. Ho visto i graffiti del Lago Turkana e quelli dell’arte camuna; ho visto statuette di bronzo in Costa d’Avorio e pitture rupestri in Mauritania; burattini a Bali e pupi in Sicilia; legni, pietre e coralli in Asia; cuoio e ossa di cammello in Medio Oriente e in Africa; tutto intagliato nella stessa lingua ideografica; tutto puntuale nell’esprimere le fasi comuni, anzi universali, della crescita iconografica dell’intera umanità.
Era la conferma di quel continuo, meraviglioso spettacolo, secondo cui la filogenesi dei popoli e delle loro civiltà è scandita in natura come l’ontogenesi dei singoli. Era il “refrain” puntuale d’una sinfonia complessiva, che chiamerei Storia infinita del Mondo o anche, date le sue caratteristiche musive , “Albero della Vita”.
Non per caso, sempre provai voglia di comparare, di azzardar congetture, di procedere per l’appunto tramite suggestioni e analogie più o meno scientifiche, suggestionato – ripeto – dalla coralità di un’arte plenaria, veramente universale, che incoraggia la ricerca d’intuizioni, rapporti e somiglianze in qualunque angolo del pianeta!
Ora, che Pantaleone di Casole e Dante fiorentino, pur se italo-greco l’uno e toscanissimo l’altro, ambedue amassero e possedessero la barbara, in senso vichiano, evidenza rude del segno e del verso, rispettivamente, mi sembra innegabile.
E altrettanto innegabile mi sembra che amassero e possedessero una sottostante emblematicità metafisica di fondo: teologica il primo, teologale il secondo.
Che, poi, l’amore dell’immanente e del trascendente in essi coesistessero, trasformandosi in forza creativa della figura e del verso, fino ad essere capaci di grandi sincresi, per dotti e per analfabeti in una, nessuno potrà negarlo. La loro stessa “diversità concorde” si trasforma in forza creativa della figura e del canto – insisto –, suscettibili di lettura e di ascolto in parallelo.
Il primo a concepire il pavimento idruntino, questa confusa massa d’immagini, come una specie di “mosaico-omelia” fu Walter Haug (Wiesbaden, 1977), poco noto in loco.
E la dantesca Divina Commedia – dico io – non è forse anch’essa un mosaico-omelia in versi? D’altra parte, il disegno parlante di Pantaleone non è forse una lezione, paziente e colorata, di conoscenza religiosa, condotta con metodo allegorico, sopra un grande ordito, “tessellato” di personaggi realmente esistiti? Niente di più dantesco.
Nel mosaico troviamo la biblica punizione terribile dei malvagi che non si pentono, ma anche la figura pietosamente cristiana del buon ladrone. Nel mosaico di Otranto troviamo, come nella Commedia, un ammonimento esemplificato ai “Potenti della Terra”, quelli che pretesero di costruire l’effimera, inutile Torre di Babele, non per nulla collocata da Pantaleone al lato opposto del frutto primigenio.
A ben vedere, l’intero mosaico idruntino, al pari della Commedia, si svolge in chiave di simbolismo mistico. Penso, per esempio, ai due elefanti indiani, asiatica allusione alla sapienza divina. Il fatto è che Pantaleone e Dante sono artisti imaginifici di tipo, direi, caleidoscopico. Posseggono il gusto, quasi la compiacenza, del grottesco, dell’orribile, del gigantismo, eppure anche del frammentario e del composito, del lirico, del tragico e dell’epico; il tutto messo, però, al servizio dell’incantesimo cristiano anziché della classica magia pagana, in cui prevale il mito anziché la fede.

Possiamo smarrirci in quella ch’è stata chiamata “Summa per immagini”; ma anche sul «pavimento selva oscura» della Basilica Cattedrale di Otranto incontriamo Virgilio e siamo salvi.
Colui che Dante chiamò «Maestro» c’introduce alla visione d’un disco celeste, addirittura d’un “Sole di giustizia” che al viandante, pure qui sbigottito, sembra escatologicamente ammiccare il ritorno decisivo di Cristo. E la salita ha inizio.

D’accordo, l’Alighieri, non dimentichiamolo, nacque un secolo dopo la fine della composizione del mosaico e non venne certo dalle nostre parti.
Dobbiamo comunque ammettere che tra il poeta dei segni e quello delle rime vi fu in comune la medievale “malizia” d’un mistero edificante e taumaturgico: il brivido di timore e tremore che, soprattutto nel silenzio luminoso della severa chiesa in oggetto, esplode improvviso e, proprio come nella Commedia, ti fa sentire alunno e pellegrino insieme.
La prima volta che lo ammirai, il mosaico di Pantaleone mi fece paura. Il mio sguardo si era subito accorto d’un particolare, colmo di significati moderni, allusivi: non è soltanto Caino che uccide Abele, è il fratello contadino che uccide il fratello pastore. Mi parve che la suddetta storia dell’uomo, priva del virgiliano fanciullo, ancor da nascere, degenerasse fin dal principio. Mi parve che il crudele episodio equivalesse ad una triste profezia. Poi, vidi il Salvatore, rappresentato con volto e vesti giovanili, come nelle annunciazioni medievali della venuta del Messia; pensai ai versi 4-10 e 48-52 della IV egloga virgiliana e la paura passò. Ricordai, fra l’altro, un lungo articolo di Attila Fàj, pubblicato da Conoscenze religiose (N. 3, 1983), rivista della Nuova Italia, a quel tempo diretta da Elèmire Zolla e della quale era responsabile Federico Codignola. Questi ultimi nomi di studiosi illustri, interessati alla “zona culturale” che per tanti anni avevo trascurato, mi spinsero a continuare nella comparazione impossibile.
Sapevo bene che Dante non poteva aver preso (non erano ammissibili né il dove, né il quando) modelli o motivi di sacra scrittura, magistralmente “figurata” dal nostro Pantaleone; tuttavia, ero convinto che certi incontri metastorici sono possibili e che, in definitiva, il mosaicista di Casole potesse definirsi un predantesco. Il rischio analogico fu galeotto.
Del resto, già all’inizio accennavo a questi appuntamenti inconsapevoli, a questa specie di ecumenismo estetico. Tutto qui; salvo la soddisfazione di aver letto, nel citato studioso ungherese (titolo: Albero allegorico dei Re – Interpretazione unitaria del Mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto), che si trattava d’un’opera d’arte, capace di suscitare in ogni suo interprete «crescente interessamento ed empatia» (sic).
Per mio conto, sono giunto ad una coraggiosa conclusione: «Al pari dell’Alighieri, Pantaleone è uno degli antichi più moderni». Non sembri un gioco di parole. Mi spiego; la sua surrealistica fantasia, a volte, assume valori e aspetti artistici addirittura contemporanei. Aggiungo; sono stato a Cadaquès per vedere di persona, non in fotografia, i quadri meno noti di Salvador Dalí, che in quell’angolo della Costa Brava si costruì una strana casa, con due enormi uova bianche sul tetto; vicino agli scogli dove i pescatori rammendano le reti.
Qualcuno disse a me, frastornato in quel solitario museo di enigmi, che così aveva rappresentato i genitori il più che originale pittore.

Rientrato ad Otranto, l’antica passione per ogni estro surrealista e per le congetture sul genio comparato produssero il mio improvviso innamoramento per una delle allegoriche figurine, dette “buffonerie” dai bestiari del Medio Evo, mai citata, perciò da me preferita: “L’asino arpista ovvero l’asino che suona l’arpa”.
E ne feci con orgoglio lo pseudonimo letterario personale. Rispondo a molti. Mi piacque l’autoironia di chi poco sa e tanto vorrebbe sapere; mi colpì la sua bislacca voglia di comunicare ad ogni costo, specialmente con chi finge di ascoltarlo; mi consolò, per tornare in tema, la tranquilla accettazione del non aver trovato, come invece credevo, cose nuove ed importanti a proposito di Pantaleone e Dante, messi a fronte. Cosicché avevo solo un’opportunità per salvar la faccia; cercare almeno di essere più preciso nel “collocare” come si deve il prete di Casole, spesso lasciato in ombra dalla stessa materia robusta del suo fitto mosaico.
Naturalmente, questo è compito della nota in calce; da intendersi, suggestioni e analogie a parte, come dedica finalmente dotta ad un artista unico nel suo genere.

N.d.A. Il nome del presbitero Pantaleone lo troviamo per la prima volta nell’iscrizione, rifatta sopra l’originale, all’ingresso della porta maggiore:

Ex Jonath donis per dexteram Pantaleonis
Hoc opus insigne est superans impendia digne.

La seconda iscrizione abbraccia, quasi completamente, la parte mediana della navata centrale:

Humilis servus Christi Jonatas Hydruntinus Archiepiscopus misit hoc opus fieri per manus Pantaleonis presbyteri.

Gionata è il nome dell’arcivescovo che commissionò il lavoro. L’anno dell’esecuzione è invece rinvenibile in una terza iscrizione, vicina al presbiterio:

Anno ab incarnatione Domini Nostri Jesu Christi / MCLXV. Indictione XIII. Regnante Domino Nostro Villelmo Rege Magnifico.
Ragion per cui, se teniamo presente la cronotassi costantiniana, l’aggiustaggio del pavimento (tessere cubiche o dadi; “abaculi” di pietra, pasta vitrea, marmo, terracotta) durò dal settembre 1165 al marzo 1166, come dire agli albori del regno di Guglielmo II.

Quali le origini dei mosaici?
Elefanti indiani a parte, le origini sono senz’altro orientali, anche se furono i Greci a raggiungere il meglio, consistente in decorazioni musive accuratissime, sopra uno strato fresco di stucco. I contorni delle figurazioni erano, poi, il tracciato a incastro delle piccole tessere. Spessore: non oltre i 3-4 cm.
Il volume degli “abaculi” non superava i due mm2 nei mosaici profani e i 10 mm2 in quelli cristiani, caratterizzati da motivi agiografici e biblici, nonché da policromia, indice di ricchezza.
L’influsso dell’arte bizantina si fece particolarmente sentire nei secoli IX-XII, come testimoniano i mosaici delle Cattedrali di Salonicco, Costantinopoli e Kiev.


A questo punto vorrei inserire, com’è mio costume, una nota nella nota. Permettetemelo.
Non soltanto la cosiddetta enciclopedia dei poveri mi conquistò. Qualcosa di più “totale” ebbe ad innamorarmi. Trascrivo dal mio Paesi dell’anima (Nuovi Orientamenti Oggi, Gallipoli, 1987); è un atto d’amore, giusto degno d’un Asino arpista:
«Non sono né i nomi, né i luoghi, che qui voglio citare: questo non è turismo, questo – per darvene un pazzo esempio simbolico – vorrebbe essere qualcosa di non volgarmente comodo bensì di metafisico a modo mio; cioè andar là, sotto la Torre del Serpe, fra le grosse pietre trinate dalla risacca, andare a radermi, sì, a farmi la barba con tanto di specchietto appeso alla roccia e i piedi in acqua, libero e sovrano, nel sole, nel vento, quasi pirata superstite, sopra un ultimo veliero...».

florio santini

Poeti di frontiera

Ion Deaconescu è nato nel marzo 1947 a Tg. Logresti, in Romania. Laureato in Filologia presso l’Università di Bucarest con una tesi di Letteratura comparata, è docente all’Università di Craiova. Per parecchi anni ha insegnato Lingua e Letteratura romena alle Università di Skopje, di Novi Sad e di Belgrado. E’ autore di saggi sulla Letteratura romena ed europea pubblicati in Romania, Jugoslavia, Francia, Italia, Lussemburgo, ecc. Suoi versi sono stati tradotti in portoghese, italiano, spagnolo, serbo, macedone, francese.
Ha pubblicato, fra le altre opere di poesia: Apparecchio per fotografare l’anima (1981); Il vaso di brina (1985); L’eternità dell’istante (1986); Maschera per la voce (1987); Il grido della memoria (1985); Prova di solitudine (1993); La rettorica dello specchio (1995); La tentazione (1995); Zero dinamico (1995).

 

L’eco, soltanto l’eco

a Emil Cioran


Dimenticami, o Signore, ti prego di dimenticarmi
voglio restare libero non vezzeggiato dai tuoi amori
con i cimiteri mobili nell’anima
con l’ombra che m’aveva abbandonato
lasciandomi il corpo di scorta

Non pensarmi più
e salvami dimenticandomi
grida qualcosa nella carne dopo la vita
ma non è vero che devo sentire la spinta del grido
scegliendo il deserto e la paura del tempo
e l’occhio insonne dell’imperdonabile ricordo
che trafigge la caducità
come un presentimento di un indulgente crepuscolo

Scordami così come la pioggia scorda
il baobab e le statue nere bruciate dal sole
il deserto e la sabbia che non sopportano più
la fame delle clessidre
Perché hai scelto soltanto me tuo appoggio
bastone e spalla fidata
quando per te la solitudine è vita e sogno
inebriante profumo e dolce veleno
culla per i gigli e oasi nel deserto
mitigata dallo sguardo tollerante

Scordami, ora sei rimasto solo
come un’idea in cui non puoi nasconderti
se una volta una lacrima sarà
nel tuo occhio rivolto verso se stesso
chiamami e verrà la tua stessa
eco, soltanto l’eco.

(1 gennaio 1988)

Nave di pietra

Antica la nave di pietra
sulle profonde acque è tempo e rovina
nella luce trasparente
dell’insonnolito mattino privo di promesse

E’ come una casa straniera
nella memoria quasi inesistente
invasa da farfalle ed edere,
potremmo forse vederla ancora una volta
come quando i sogni
ravvicinano l’orizzonte
sveglio ed ostile?

La nave di pietra stanca ed indifferente
ci porta, ci porta,
così come le ombre portano le ombre
trafitte da arcobaleni ed echi di soccorso

Verso la fonte galoppa l’assenza
priva di nome ormai
finanche le parole si sono nascoste
dietro il gesto che ci sarà

Oh, no, non ci aspettate festosi
la nave di pietra è senza nome
e mai si fermerà
quando il fazzoletto sgonfio di tante speranze
stancherà la mano ormai diventata
un bastone di fumo.


Fontana per tutti

Le parole
Seminate nel vento
Come tanti semi la primavera
Germogliano nell’oscurità
Dove cercarti
In quale esilio della memoria ribelle
La luce è più preziosa
Viene da una notte all’altra
Fuori non c’è nessuno
Persino l’ora s’indovina
All’ombra degli alberi a mezzogiorno
Nel volo degli uccelli nel pensiero appesantito
Dalle nostre speranze alla rinfusa
Dove trovarti
Nel ridere illecito
E nell’erba confusa del sogno
Dietro le screpolate pareti di tante prove fallite
Nelle granate delle labbra
O nella memoria del permanente fuoco
Ho sempre più paura
Di quelli che mi parlano degli dei
Dell’acqua che non mi vuole specchiare
Quando guardo nel suo deserto
La mia solitudine
Cielo di pietra mare di pietra
Notte senz’alba
Colonne trasparenti nei mercati domenicali
E solo l’ombra
Come una fontana che trabocca per tutti.


L’estasi del niente

Le ossa di questo cielo, scheletri senza ombra
Si sbriciolano nel tempo delle ninfee
Delle acque in cui affonda
Un’altra luce, un altro frutto
Come un dio del niente
Vincitore al giudizio degli astri
Caduti in disgrazia.

Lontano, oltre le passioni
La paura diventa felicità quando la mancata parola
Non può più tradire i confini della neve
E gli sconosciuti segni sulla guancia dell’istante
Nascono cicatrici e il grido
E’ sentito come un ricordo.

Questo Niente, la dolce brezza
Sopra gli occhi degli angeli annoiati e freddi,
Ci stordisce con tante vittorie

E ci circonda con i cadaveri dell’alba
E gli ingannevoli inizi
Con fantasmi e ombre solenni.


La nave di Noe

Cadono nella ceramica del tempo
Ribelle, quasi un inferno,
Corpi in rovina
Con la pioggia che manda arcani messaggi
E colombi di pietra senza età –
Le case del cielo sono così grandi
Per i negozianti che gridano sempre
Che hanno in vendita l’arcobaleno ritrovato
Solo gli uccelli annunciano che saranno nuovamente uova
E che è meglio sia chiuso in una cattedrale
Il seme del giorno futuro.

Dov’è che parta quando l’aurora è sparita
Con la lagrima del sonno del bambino
Sotto i colonnati del buio.
Non c’è più il miracolo a chi servirebbe?
Forse a una nave pazza
Che galleggia nelle ombre della tempesta
Fra monti e alberi stupiti
Verso l’oceano dall’occhio
Di Noe.

 

 

Man Ray... e compagni... “in illo tempore”... ma di questi tempi è: l’importan-za della spazzatura.

 

La perdita della parola
o Arte dalla spazzatura pseudo

Io spesso dico ai vicini che m’incontrano a portare il sacchetto delle spazzature, o rifiuti: «Vado in banca». E a loro volta, se l’incontro, sorridendo, mi ripetono: andiamo, o veniamo dalla banca.
Sì, perché il bidone dei rifiuti, anche spazzature, oggi raccoglie una cospicua parte della spesa pubblica e privata. Contenitori d’ogni tipo, castellacci o castellucci, facciate, roba di qualche anno d’uso, più o meno, asportazioni da rinnovi... eccetera; la gran parte è spazzatura, ma è il superfluo che, appunto per la sua non essenzialità, per poco o in poco viene respinto, rimesso al mittente, dopo averlo debitamente anzi pro-fu-ma-ta-mente (il di più) pagato.
Il mittente è Il Meccanismo del consumo che non ha mai olio abbastanza da ungere per far scivolare.
Credo che intorno al 30% di ciò che si compra vada in poco, spesso in niente, allo scarto, sia da roba di alimenti, sia da soppalco che da parata. Tutta roba di pronto consumo vestita di eternità, neanche perennità. Di essa la finta eternità va subito alla finta banca, i bidoni della spazzatura e fiancate, sempre ingombre, specie nei festivi, di “non entrante dentro” che, pure, entrerà.
E poi le spazzature o i rifiuti oggi sono il peggiore problema che ha a che fare con la sopravvivenza in fondo e subito dopo la decenza.
E’ il problema mondiale delle scorie o residui bellici e parabellici o industriali e para, fino alle montagne o fogne degli oggetti e loro porzioni, o frammenti, da far sparire, riciclabili e no: a che la raccolta differenziata di vetri, carta, plastica, pile, eccetera.
Dal gesto di Man Ray e compagni, impegnato in un certo recupero malinconico, dignitosamente di “Mirabile Arte”, ai problemi di oggi, che danno ragione al profeta, la strada è stata, non lunga, ma larga larghissima, e, ora, insufficiente.
Della banca cosa ne è?
Una banca che, prendendo dai consumatori il capitale, lo reinserisce, per suo conto a vantaggio – forse anche dei consumatori nel ricircolo? – mangia, rinnova e deposita nella Banca detta comune: dal primo impatto, subito, esaurito, al ricircolo-reimpatto.
Questione d’impatto e poi... in banca a provare, con qualche leggera variante o differenza, sempre nuovi reimpatti a cadere.
Lo spostamento dell’uso, operato da Man Ray eccetera, e l’assunzione all’Arte del “comune” oggetto o idea, è riciclabile oggi in ambiti proporzionati all’ampiezza della Banca e del Problema della Sopravvivenza?, spontaneamente mi sono chiesto, al di qua dei brevi ricordi di Storia dell’Arte di oggi.
Nel rinnovare la casa o lo studio, il negozio o la fabbrica, per tantissime ragioni, molta roba usata da scartare o sostituire, forse neppure usata, si trova; non solo, ma con l’avanzare negli anni gli uomini, da bambini/e o ragazzetti/e, poi giovincelli e uomini o donne fatti, si lasciano sempre indietro ciò che fu “sommo diletto”, da buttare ora.

Quante soffitte non furono e sono piene di giocattoli vestitini modellini, giochi disegni stampe, che poi oggi, non è che si può tenere più tanto in soffitta, se c’è, dato anche l’abbondanza... Oggi la vita si realizza più fuori, in macchina ristorante discoteca, viaggi villaggi avventure sport, eccetera.
Chi ci ha tempo più di riparare segretamente in soffitta o attorno alla cassapanca? E allora? Ci sono i bidoni vicini... viaaaaa.
Certo, c’è pure chi non ha il pane ancora oggi e tanto meno i giocattoli o vestiti da smettere con facilità o da appena coprirsi, ossia roba da rifiutare; però è una strada difficile da seguire, anche se ultimamente molto si tenta di fare per il recupero del rifiutato, o spazzatura, anche commercialmente, a favore di “popolazioni indigenti”.
Ma non è che il grosso. Il minuto, il veramente consumato e non più atto c’è pure e quindi per forza deve andare al bidone, per altre destinazioni, cenere generalmente o ricchezza orientata, se possibile, certamente, ma c’è una possibilità di altro recupero, in alcun modo?
Ecco “in illo tempore”, non c’era questo tipo di impatto come fatto/problema, oggetto/problema; oggi è l’usato e smesso, nell’operazione rifiuto, o necessità o meno del rifiuto, che chiede riconoscimento o interpretazione e comprensione: valorizzazione diversa?
Che cosa non si vede accanto al bidone, roba che ti viene d’andare a raccogliere e portarla via, da qualche buona parte in cui starebbe pur ancora bene. Involucri e ossature, di cartone di legno di ferro o di pezze, apparecchi e casalinghi: televisori e frigo, lavatrici e cucine, mobili divisi e materassi e reti, e ancora pezze e legni, ferri anche, pure se c’è il carretto del ferraiolo che passa: e poi buste e carte trasparenti o pitturate, vetri, elettrodomestici di abbellimento e di alimento, cartelle e pagine o spagine di libri e giornali. Dalla parte del cane e gatto che cercano nei rifiuti il pranzo e sono grassi, perché ne trovano in abbondanza, c’è il non abbiente, uomo, che, vorrebbe quei rifiuti e ci fa all’amore, tentenna, ma non ne ha il coraggio... di rubarli alla banca.
Ecco, si possono questi rifiuti, alla Man Ray reimpiegare in modo diverso del loro sfruttamento... vero o finto, e immetterli in un ambiente più dignitoso, quasi discorsivo o pure artistico, da ragionarci o vederci su, insieme con altri, condurre per altre strade, altrove ossia, per un uso un po’ diverso, sia pure nuovo, insolito, lontano dal solito: via... via...?
Si può, ad esempio, fare arte con gli oggetti rifiutati, col loro modo di parlare?, e mostrare?
Forse una pseudo arte, perché ne risultasse un discorso, diciamo, senza autore singolo, o con autori in erba, un discorso di più, riciclabile in un discorso di recupero o salvaguardia, di intrattenimento a favore di un oggetto qualsiasi, casualmente, per errore o coscienza, rifiutato?
A questo punto guadagnamo un altro angolo dei rifiuti, quello della parola che si va perdendo.
La perdita della parola. Non è vero.
Chi non scrive oggi parole, che usciamo tutti dalle scuole? Con la tendenza più o meno, o l’obbligo, a esprimerci, dire la nostra, colloquiare o gridare, interrogarci e pure risponderci? Dove sta la perdita della parola?
Appunto in questa inflazione dell’Arte della parola, come di quella del pennello e sostituti o integrazioni, dello strumento e della scala musicale come del corpo umano e suoi prolungamenti, o i diversi materiali del mondo.
L’inflazione, la degenerazione, l’uso e disuso quasi nello stesso tempo, lo sfruttamento e il rifiuto a breve distanza. L’evoluzione? Sì, è una evoluzione verso il fuori da sé, il video, il cervello elettronico, lo spazio, una seminagione in campi incolti, appena appena arati.
L’inflazione della parola persegue la comunicazione altra, per segni suoni e colori e forse anche parole, via la punteggiatura e le pause, la riflessione ossia, l’io. E’ la faccia dei tempi che corrono?
Sì, è un rimescolio generale dell’uso delle parole e delle cose da esse identificate, che nell’individuo si va perdendo, non nel potere e nella massificazione; per questo cresce falsa nel potere, la parola, e squallida nella massificazione.
Il “Villaggio globale” delle plurinazionali, del potere sempre più centralizzato e uniformato, irretisce, riduce al silenzio, che non sia il verso del pappagallo o del succube video-stampa-mercato dipendente. Un esercito di scrittori o comuni viventi, e artisti neppure artigiani, ma nullificato, l’esercito, nella enorme e anonima massa degli imbeccati.
Compra compra, consuma consuma, grosso e più grosso, così e così ti va bene, così ti va meglio, così meglio ancora, così sei magnifico, te lo dico io... (il padrone).
E io, noi, voi cresciamo di questo indottrinamento, persuasione occulta, da cui dipendono i nostri divertimenti e i sogni, su notizie informazioni novità scoperte rapide e facili a mutare così com’è facile premere un tasto.
Tutto al vento che corre e travolge. Poche sono le voci e fisse le parole da pochi (stampa quotidiana e permanente, radio, t.v. e internet, ultimamente...) folla folla di acculturati / acculturati compratori per l’olio del denaro sempremai insufficiente / sufficiente.
Nella massa ognora presente del mondo l’individuo, che una volta nel suo processo di auto costruzione e nel suo “borgo natio” era o si sentiva qualcuno, adesso è demolito, ha solo voglia di ripetere per provare, gridare per sovrastare, rubare per emergere da così gran massa di produttori più falsi che veri, e pure invano, per lo più.
Oppure si chiude la televisione e si straccia la stampa e ci si ritira in campagna?
Ce n’è ancora tanta gente per le valli e per i monti, per i mari, isolata, pacifica, silenziosa, indigente.
Le apparenze prestate all’inganno cedono alla parola-copia, alle poche parole comuni. La perdita della parola uguale alle molte parole dei pochi sopra le poche parole dei molti.
Vivere di notizie, informazioni, proposte, inviti, imposizioni accanto alla pagina visuale che sovrasta e in cui sfuochiamo poche risposte solo a noi stessi e riposiamo, stanchi gli occhi e la mente. Il cuore agitato, insazio, affannante nell’accettare, accudire, ubbidire... per cui corri corri corri, si fa a chi prima arriva, dove?, nessuno lo sa: a comprare e rifiutare, inconsciamente, certo.
E’ sempre tardi, sempre un difetto in noi, qualcosa che ci manca, ci dicono e impongono, per cui: ancora più stretti e costretti tra persuasione occulta imperante e furto alla Banca delle spazzature.
Circa la giustifica al mio (e chi se ne frega del tuo?) lontano abbandono della parola o rivolta? No. E’ perché tu non facesti mai l’uso rispettoso, a dir poco, delle parole; sempre parole da strada le tue, chiacchiere di cuore in tumulto che si placa anche solo tra sé e se stesso svuotandosi in una parola-contenitore, parola-apparenza che, tolto il di dentro scarso, manca di solido e, ovviamente, destinata alla spazzatura.
Questo era involucro con dentro fantasie mulinanti. In te la fantasia sfioriva nella parola-apparenza del momento, e la parola sfioriva nella fantasia fuggente del sempremai...
Fantasime brevi in parole di consumo: tutto spazzatura.
Perciò ti ribellasti (ma a chi e che?, vedi indici in poesie per juke box, anni sessanta) e cominciasti con ritenere possibile rifiutare il libro, la parola stampata. Bastava dire, magari da un blocchetto di appunti manuali, gridare alla gente, a tutti, il giorno, il fatto, l’oggetto, l’idea che vola via subito e si perde, perde lontano.
E poi la poesia motoria degli anni settanta.
Allora perché sempre trattenere un lettore su una sedia e non muovere invece un attore/fruitore, farlo agire, invitarlo a interrogarsi e rispondersi, crescendo o demolendo se stesso, a confronto con un di fuori spaziante, sì, ampio come i tempi suggeriscono?
La parola perdeva il suo vincolo al pensiero così, al cuore, per stare nel mondo attorno fatto del mondo attorno.
La parola diventa azione, la parola per l’azione, l’atto e il fatto del mondo; non più per se stessa e le sue virtù, eleganza, profondità, artificio o confessione. No, vuota e pure come un grido, forte.
Quindi due passi verso la perdita della parola/pensiero parola/uomo-individuo: parola fatto, parola passaggio attivo, parola mezzo di vita – non internata nella riflessione/esposizione, forma o contenuto personali o impersonali finzioni: parola-mondo, sì.
Certo così non ti poteva soddisfare la tecnica fine dei poeti visivi, che, per essere Poeti, anche fra il visivo e lo scritto, rintracciavano, conservavano il prestigio della parola-arte, parola-io, parola-pensiero.
Il significato? Sì, allora il significato doveva servirsi di un ragionamento o di materiale assueto al ragionamento, conducibile alla riflessione, al segreto, meccanico o virtuale, alle aspirazioni al coordinamento sempre tra Poesia e Arte della parola.
Ma tu no, niente, Arte e Parola. Solo scrittura senza arte, e quindi senza parola, senza ragione, la parola che muore quindi.
Io quadri?, dicevi. No: Io libri? No. Al massimo quaderni di abbozzi o il quadro a tre facce, pugnalato, in piedi su se stesso, ma non sul muro. Ma sempre una superficie visibile e leggibile per ragione, come richiede la ragione, almeno no?
Non la parola, o sempre più o meno la parola, allora.
Il discorso era già caduto quando nella figura, o grafica organizzazione, ripetevi solo una parola: silenzio, fine anni settanta, o oro oro oro, e qualche frase, a malapena.
La tua era “perdita della parola”. La mia soltanto?
Nello stesso tempo entrava in funzione la scuola per tutti e cresceva cresceva il numero dei poeti scrittori letterari artisti, e si diffondeva il computer ed era l’avvento dell’immagine felice, dell’azione del corpo e degli oggetti vari in azione, copie e originali.
Nella spazzatura altra è perduta l’essenzialità dell’alimento e anche del “comfort”; nell’uso sparso medio della parola se ne va perdendo, o è già perduta?, la stessa essenzialità, il necessario: siamo al super uso inutile, al decoroso massificato, convertibile a gara, rapidamente aggiornato.
Io sentivo e sento il falso dell’informazione continua da fonti continuamente varianti, o aggiornate, cangianti, false anche, per interessi, praticità, motivazioni varie accreditate alla stessa cambiante massa: «E’ quel che volete voi, che noi vi diamo, noi siamo innocenti».
Non leggi, non stai, non pensi, corri vagamente dietro una notizia volante, di cui il contenuto corre; non sei nel di dentro vero tu, pro o contro; solo essi, i padroni: asino, asino sei soprattutto, e lo sarai sempre di più.
Se è così non ho niente da dire. Forse cantare, ballare, strombazzare? Mi sono inventato il magazzino delle parole vuote, altosonanti, poche parole, che sono fatte, le nostre, di lettere di un alfabeto, che sono segni, maiuscoli e minuscoli, a stampa o a mano, con proprie forme e atti e proprie compagnie, (allegre brigate, le ho chiamate), che sono molto diverse tra diverse genti, per me sono le zampate e le crestate, le spian(t)ate e la tramezzana, ma per gli altri? Molto scombinate sono senza la colla del perché vero o del contenuto vitale, giusto, ma sono i tempi...
Sono i resti, il rifiuto della parola, quello che non è più utile e deve andare ai rifiuti, alla spazzatura; sono i resti delle cose e delle denominazioni delle cose del mondo, sfocato oramai, nella sua sprofondata ampiezza.
Superfluo contro superfluo, per me individuo anonimo, uomo soltanto.
Ecco allora dalla perdita della parola all’Arte dalla spazzatura, ancora per un tentativo di salvataggio di qualcosa.
Non è scrivere, né è far Arte, usare le lettere dell’alfabeto e gli oggetti rifiutati per dire un minimo con essi; ma è farli ancora funzionare anche solo per sé, dar loro ancora un credito. Ma interessarsi ancora a questi resti alfabetici e di vita, realtà e virtualità del mondo-uomo... è possibile?
Ma questa è una giustificazione, sufficiente al minimo, del mio uso per comunicare dei rifiuti di oggetti e lettere dell’alfabeto insieme, per un discorso altro?

enzo miglietta

La donazione di organi: aspetti etici e giuridici

La chirurgia dei trapianti è definibile come una sicura e insostituibile opportunità terapeutica, capace di risolvere positivamente situazioni di pericolo e di danno per la vita non altrimenti trattabili. Il progresso scientifico, sempre più rapido e capace di spingersi anche oltre l’invalicabile limite del rispetto della dignità umana, ha fatto sì che negli ultimi trent’anni (dal primo trapianto di cuore effettuato in Sud Africa ad oggi) venissero alla luce problemi di natura etica non di poco conto; le ipotesi tecniche, infatti, si vanno ampliando in ordine a nuovi obiettivi: trapianti eterologi (da animale ad uomo), di organi “artificiali”, testa/tronco, di gonadi o di organi riproduttivi e, addirittura, sembrerebbe potersi attuare l’ipotesi (o meglio il pericolo) non più futuribile, bensì attuale e concreto (grazie ai progressi dell’ingegneria genetica), di esseri umani, o di parti di essi, da utilizzare solo ed esclusivamente come “riserva” di organi da donare in caso di necessità. Ognuno di noi potrebbe avere un proprio clone, magari ibernato, il quale potrebbe essere utilizzato, facendo venire meno tutti i problemi inerenti il cosiddetto “rigetto”, come sicuro deposito di organi, di tessuti o anche di sangue.
In verità, le problematiche appena ricordate riguardanti il trapianto di organi possono essere ricondotte a due categorie: la prima, più ampia e teorica (trapianto uomo-animale, trapianto di cervello o gonadi, creazione, tramite l’ingegneria genetica, di organi ad hoc, aventi la stessa configurazione biologica dell’organismo ricevente) e la seconda, più ristretta e pratica (il prelievo di organi e tessuti da vivente o da cadavere per fini terapeutici). Il trapianto eterologo, a tutt’oggi, rimane una mera ipotesi sperimentale non essendovi, allo stato attuale dell’evoluzione medico-scientifica, alcuna possibilità di vederla attuata. E ciò non solo per i limiti di natura etica, ma anche e soprattutto perché non è dimostrato il sicuro successo di tale tipo di operazione. Il trapianto di cervello, ancora futuribile, ma già ipotizzato o auspicato da certa intellighentia scientifica nella prospettiva utilitaristica di rivestire con un nuovo corpo i “cervelli geniali” non più sorretti da un corpo efficiente, è inattuabile da un punto di vista giuridico (cfr. art. 3, legge 91/99, che lo vieta espressamente insieme al trapianto delle gonadi), improponibile da un punto di vista etico, stante il suo carattere poco umano e conturbante l’identità personale del soggetto, ed illecito perché violerebbe il principio della salvaguardia della dignità umana, cardine della nostra Carta costituzionale (desumibile dal combinato disposto degli artt. 3, 27, 32 e 41) e dei più importanti documenti internazionali riguardanti l’uomo (uno, su tutti, il Preambolo della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948). La creazione di riserve di organi tramite la clonazione, cioè la riproduzione per mezzo di manipolazioni genetiche di un individuo geneticamente eguale ad altro, è un pseudoproblema inerente ai trapianti di organi, ma riguardante, in realtà, la liceità o meno degli interventi di ingegneria genetica lesivi della personalità umana e della sua dignità. Se, infatti, il diritto interno non prende ancora esplicitamente in considerazione questa ipotesi, l’illiceità della clonazione, appunto perché lesiva della dignità umana, è riscontrabile in una miriade di documenti internazionali (dalla Dichiarazione Universale innanzi citata, alle Raccomandazioni sia del Consiglio d’Europa che dell’Unione Europea), ed è lapalissiana nell’etica sia laica che cattolica, che l’ha, per lo più, aborrita (nonostante la tendenza attuale si orienti verso un permissivismo assolutamente non condivisibile), perché lesiva del diritto alla identità genetica, alla propria esclusività e diversità biologica.
Al cospetto delle problematiche appena enunciate, la donazione d’organo, a fini di trapianto, sembrerebbe, ad una prima e superficiale analisi, del tutto lecita e ammissibile, una volta garantita la condizione di accertamento di morte per il prelievo da cadavere e di buona sopravvivenza del donatore vivo, essendo il fine chiaramente terapeutico, ma, a ben vedere, il consenso informato del ricevente (anche e soprattutto alla luce della nuova disciplina legislativa introdotta con la legge 91 del 1999), il diritto della società a prelevare gli organi su cadaveri a prescindere dal consenso esplicito, la liceità dei compensi, la constatazione di morte per i trapianti da cadavere a “cuore pulsante”, sono tutti problemi complessi, molteplici e piuttosto recenti.

Punto di partenza obbligato per chi si voglia addentrare nella complessa problematica dei trapianti di organi per finalità terapeutiche è la legge n. 91 del 01/04/1999, “Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti d’organi e tessuti”, legge che ha suscitato un ampio dibattito nell’opinione pubblica fra chi la ritiene un utile strumento per attenuare il divario, sempre più crescente, tra esigenze-attese terapeutiche e opportunità di intervento, e chi la ritiene invadente nei confronti della libertà dell’individuo e addirittura incostituzionale perché recante una disciplina, in materia di consenso, lesiva di un diritto personalissimo (perciò indisponibile), quello che ognuno ha di disporre in piena e assoluta libertà del proprio cadavere. La disciplina in oggetto, però, va analizzata più attentamente, senza soffermarsi solo ed esclusivamente alla parte di essa che ha maggiormente fatto discutere: quella riguardante il cosiddetto silenzio informato-assenso.
Diversi sono, infatti, i problemi di ordine etico che gravitano intorno alla donazione (o meglio al trapianto) di organi; problemi inerenti all’accertamento della morte (quando un soggetto è morto e chi debba accertare il suo decesso), la prestazione del consenso (in che modo accertare la volontà del de cuius), l’onerosità dell’operazione e la commercializzazione degli organi.
Per cominciare, un’osservazione basata sul titolo della legge de quo: “Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti d’organi e tessuti”. Il legislatore, quasi a voler svelare sin dal titolo i principi etico-giuridici cui la legge si avvicina, non parla né di donazione, né di trapianto, bensì di prelievo. Non credo sia un caso. Parlare di donazione significa porre in rilievo la volontà del soggetto donante; significa ricondurre, troppo semplicisticamente forse, il prelievo ad un atto di liberalità, sostenere, quindi, tacitamente, la necessità di una manifestazione di volontà espressa formalmente perché dal diritto romano sino al diritto del nostro codice civile non esiste donazione che non sia formale. Significa, inoltre, tentare un approccio all’argomento solo ed esclusivamente ex parte di colui che dona. La donazione è, infatti, un atto di liberalità le cui motivazioni, i cui effetti cominciano e si concludono con l’espressione della volontà. Parlare di donazione di organi significa tout court accettare in toto la concezione personalistica dell’uomo-valore, come tale non strumentalizzabile in funzione di alcun interesse che non sia personalissimo.
Ma la legge 91/99 solo in seconda battuta parla di “trapianto” (come invece non fa la 644 del 1975 in materia di trapianto di rene), termine questo certamente più asettico, scientifico, oggettivo e, comunque, che sottintende sempre la prestazione di un consenso qualificato, atteso che il trapianto non è altro che una cessione volontaria fra individui avente, in questo caso, un oggetto sui generis, un organo. La legge in parola parla in primis di “prelievo”; intendendo riferirsi, evidentemente, alla concezione utilitaristica dell’uomo-cosa, strumentalizzabile per la tutela di interessi extra-personali. Leggendo il solo titolo della legge sembrerebbe del tutto irrilevante la volontà del soggetto, essendo un altro soggetto (pubblico) a disporre (d’ufficio, mi verrebbe da dire) il prelievo, l’espianto degli organi da defunto. In realtà, la 91/99 è frutto di un compromesso fra i vari principi sottesi alla materia della donazione di organi, ossia tra coloro che sostengono una concezione privatistica del cadavere, ancorata alla tutela di un vero e proprio diritto della personalità su di esso, e coloro che, invece, sostengono il contrario, negando così ogni diritto sul cadavere, ponendo in evidenza l’incompatibilità di una concezione privatistica con il principio costituzionale della solidarietà sociale. Il cennato compromesso emerge chiaramente dall’aver, il legislatore, utilizzato espressioni non solo atecniche, ma anche in netto contrasto con il titolo della legge, come “donazioni di organi e tessuti” (art. 4, comma 1), che risentono, però, dell’impostazione individualistica del prelievo di organi ancorato, da sempre, non al dovere sociale derivante dai principi solidaristici espressi dalla nostra Costituzione (art. 2), ma dalla libera scelta del singolo individuo, espressione di mero gesto, volontaristico ed eccezionale, di solidarietà individuale. La legge, si nota chiaramente dal lessico utilizzato dal legislatore, è frutto di un compromesso sul consenso al prelievo, compromesso che ha condizionato il fine ultimo dichiarato dal legislatore di aumentare il numero dei prelievi e quindi dei trapianti di organi.
La valutazione etica della legge deve necessariamente muovere partendo dall’analisi di due temi che non si possono trascurare ogniqualvolta ci si occupi del tema in questione: i diritti sul cadavere e il consenso al prelievo, considerati anche alla luce dei sommi principi contenuti nella nostra Costituzione.
Per cadavere si intende qualsivoglia spoglia inanimata di un uomo, anche se non sia mai vissuto, “nato morto”. Il cadavere è una res, perché tra persona e cosa tertium non datur. La morte segna la fine della “persona”, che presuppone la fusione tra elemento spirituale ed elemento corporeo, e quindi produce un completo mutamento nella sostanza e nella funzione del corpo umano, il quale, in seguito ad essa, cessa di essere il supporto della “persona” e, conseguentemente, rimane res. Il cadavere è, nondimeno, una res sui generis, poiché è, e rimane, quella che ben può definirsi proiezione ultraesistenziale della persona umana, divenendo, pertanto, punto di convergenza di molteplici interessi: l’interesse-diritto individuale della persona vivente alla inviolabilità del proprio futuro cadavere, l’interesse-diritto dei familiari all’inviolabilità del cadavere dell’estinto per il suo sentitissimo valore morale-affettivo, l’interesse-diritto collettivo alla inviolabilità dei cadaveri, quale espressione del comune sentimento di pietà verso i defunti, l’interesse-diritto pubblico, di ordine igienico-sanitario, di eliminare, per il tramite della tumulazione, una fonte di pericolo per la pubblica salute quale è il cadavere umano. La peculiarità del cadavere è proprio in questo: esso è oggetto di convergenza di molteplici e disparati interessi e, pertanto, la disciplina che dovrebbe riguardarlo dovrebbe essere sui generis, pur prendendo spunto dal tradizionale principio della inviolabilità e dell’indisponibilità dello stesso, cardine della concezione personalistica dell’uomo.
E’ chiaro, quindi, che la tutela del cadavere dipende, innanzi tutto, dalla concezione dell’uomo dalla quale si parte: concezione utilitaristica (con il suo corollario della disponibilità dell’essere umano e della sua proiezione ultraesistenziale, il cadavere appunto) o concezione personalistica (con il suo corollario dell’indisponibilità manu aliena dell’essere umano). A ben vedere, non si può affermare che il nostro ordinamento giuridico abbia accolto in via esclusiva la concezione personalistica dell’uomo. La nostra Costituzione, frutto dell’incontro fra un liberalismo di matrice cattolica e un solidarismo di matrice socialista, garantisce ad ogni individuo il rispetto dei propri diritti inviolabili (artt. 2, 4, 13-15, 21, 24) fondati sulla pari dignità di tutti gli esseri viventi, ma, al contempo, «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). Il nostro codice penale non sembra far propria la concezione personalistica del cadavere come proiezione ultraesistenziale della persona, collocando la tutela giuridica del cadavere nella categoria dei delitti contro la pietà dei defunti, speculare, evidentemente, al marcato orientamento pubblicizzante del codice del 1930. Da un punto di vista civilistico, invece, l’assenza di norme che tutelino tout court il cadavere ha portato la dottrina a costruire i diritti sul cadavere di volta in volta come diritto personale su cosa futura o come diritto collettivo su di una res communis di proprietà pubblica. La stessa giurisprudenza, nelle rarissime occasioni in cui si è pronunciata, ha ritenuto che esso possa essere oggetto di diritti, riconoscendo al de cuius solo ed esclusivamente il diritto di disporre della salma, affermando, tra l’altro, che tale diritto rientra tra quelli della personalità. Nel nostro ordinamento non esiste alcuna norma che sancisca un diritto di proprietà sul cadavere. Né tanto meno si può affermare che il principio personalistico della disponibilità della propria persona sia il solo cardine del nostro sistema di diritto, perché così non è.

La normativa della legge 91/99 si pone su posizioni del tutto peculiari, rispetto a quanto esposto poc’anzi, laddove riconosce a ciascun cittadino il diritto di disporre dei propri organi, cioè di parti del proprio cadavere. Tale diritto non può avere sicuramente natura patrimoniale, rientrando piuttosto tra i diritti della personalità. La convinzione è rafforzata dal fatto che il diritto di disporre sul prelievo si estingue con la morte della persona (elemento tipico dei diritti non patrimoniali) e che gli eredi, conseguentemente, non dispongono di alcun diritto né iure proprio, né iure successionis per opporsi al prelievo. Inoltre, non possono esprimere alcuna volontà i soggetti che non hanno la capacità di agire. Ciò rafforza la convinzione che il legislatore abbia giustamente inteso il consenso o dissenso al prelievo un diritto personalissimo che come tale non può essere esercitato da nessun soggetto diverso dal suo titolare.
Circa il problema del consenso, partendo da un punto di vita più generalmente etico, bisogna considerare le due ipotesi: quando il prelievo di tessuto o dell’organo viene fatto ex vivo e quando viene fatto ex cadavere. In ogni caso, vige, in capo al personale sanitario addetto, l’obbligo di informare esattamente sui rischi, le conseguenze, le difficoltà dell’intervento (obbligo che riguarda anche il donatore in caso di trapianto inter vivos). Quando l’espianto avviene da cadavere, abbiamo osservato come la morale (qui intesa come comune sentire di una pluralità di soggetti) e il diritto oscillino tra il considerare il cadavere come res communitatis (donde l’eventuale utilizzazione per il bene comune e, quindi, anche per il trapianto terapeutico), e res sui generis, oggetto di un diritto personalissimo, pertanto indisponibile, da parte di ogni individuo in vita. Tenuto presente quanto innanzi detto, il riguardo della volontà del soggetto e, comunque, il riguardo anche della volontà dei superstiti (portatori, sia il soggetto che i congiunti, di interessi a nostro avviso non trascurabili) hanno e conservano un peso di ordine etico non indifferente, il quale si basa sulla qualificazione del cadavere come proiezione ultraesistenziale della persona. Pertanto, da un punto di vista etico, venendo innanzitutto in rilievo l’interesse individuale della persona, non può esserci prelievo senza un’espressione di consenso in vita da parte del donatore.
I modelli teorici cui un ipotetico legislatore potrebbe ispirarsi, allorché dovesse disciplinare l’intera materia, sono molteplici. Tra l’interesse dell’individuo e quello dei familiari dovrebbe prevalere, sempre e comunque, quello dell’individuo. Ciò significa che ognuno ha il diritto di decidere se, post mortem, donare i propri organi o meno. Tale diritto è eticamente superiore al diritto dei familiari di disporre del cadavere del proprio congiunto, in ossequio a una concezione personalistica desumibile interpretando le norme del nostro ordinamento, e in particolare quelle della nostra Carta costituzionale alla luce dei più importanti documenti internazionali – primo su tutti la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 – che, basandosi sulla dignità umana, pongono al centro del diritto l’uomo.
Orbene, se l’individuo in vita ha espresso un consenso valido, informato, cosciente e non equivoco, nulla quaestio: il prelievo degli organi non va incontro a nessun tipo di ostacoli. Se il defunto in vita non ha espresso consenso, bensì dissenso, anche se non informato ed equivoco, il rispetto della sua volontà (atteso che la delicatezza del bene in questione – il cadavere – non può permettere alcun tipo di disquisizione in ordine alla validità o meno del suo dissenso) osta, sempre e in ogni caso, al prelievo degli organi. Se il defunto in vita non ha espresso né consenso né tantomeno il dissenso, allora la soluzione di questa annosa questione non può prescindere dal punto di partenza che si assume: se si accoglie in toto il principio secondo il quale il prelievo degli organi deve essere necessariamente subordinato ad una manifestazione di consenso univoca (non tenendo in considerazione l’interesse collettivo che io definirei sociale, perché proprio dell’intera comunità di consociati), in tal caso il prelievo non può essere ammesso. Se, invece, si permette che l’interesse collettivo possa colmare le lacune lasciate nel caso in cui nessuna manifestazione di volontà c’è stata, da parte del defunto quando era in vita (soluzione questa che potrebbe essere sostenuta anche da un punto di vista costituzionale, attesa l’enunciazione dei doveri di solidarietà sociale ex art. 2 Cost.), allora si può permettere l’espianto per finalità terapeutica, anche in assenza di un’esplicita espressione di volontà in tal senso del donatore.
La via seguita dal legislatore con la legge del 1999 è per certi versi molto interessante: egli, innanzitutto, ha voluto configurare come diritto personalissimo il diritto di decidere, da parte del soggetto, se ammettere il prelievo dei propri organi post-mortem. Così facendo ha escluso la possibilità che i parenti del de cuius possano considerarsi portatori di qualche diritto in quest’ordine. Con ciò non ledendo, comunque, il loro interesse all’inviolabilità del cadavere, tutelata sempre e comunque dal fatto che esso, essendo, come già detto, proiezione ultraesistenziale della persona, è nel rispetto della sua dignità comunque tutelato nel momento in cui si vietano le dissezioni e mutilazioni non strettamente necessarie allo scopo del prelievo, e si impone l’obbligo della accurata ricomposizione del cadavere dopo il prelievo (cfr. legge 83/61 e 644/75).
E questa soluzione è sembrata la più opportuna nel momento in cui il legislatore ha deciso, in conformità con le ultime scoperte scientifiche, di utilizzare la morte cerebrale come metodo di accertamento del trapasso (in contrapposizione alla comune idea – che è anche il sentire dei familiari del de cuius – secondo la quale la morte coincide con la cessazione dell’attività cardiocircolatoria).
Secondo il dettato della legge, conforme ai principi costituzionali, l’unico soggetto legittimato a decidere in relazione all’espianto degli organi è il futuro donatore. Questa soluzione non sembrerebbe contestabile da un punto di vista etico. Il problema maggiore sorge nel caso in cui il soggetto non abbia manifestato né consenso né dissenso. Come interpretare, dunque, il silenzio? Come silenzio-assenso o come silenzio-rifiuto? Esclusa la possibilità, per quanto detto sopra, che i familari possano prendere una decisione in proposito a tutela dei loro peculiari interessi, rimane da “interpretare” il silenzio. La soluzione più logica è quella secondo la quale il silenzio non può mai interpretarsi come una manifestazione di volontà, sia essa negativa sia essa positiva. Stando così le cose, essendo necessaria una manifestazione di volontà non equivoca perché si possa procedere al prelievo (l’assenso in vita al prelievo è conditio sine qua non), nel caso in cui questa manifestazione di volontà non ci sia, non è possibile procedere all’espianto. Ebbene, la legge del 1999, pur definendo il diritto di disporre del cadavere un diritto personalissimo, elabora un ingegnoso sistema basato su di una fictio iuris, parificando il silenzio-informato all’assenso. Il sistema è semplice: si prevede che a tutti i cittadini sia notificata una richiesta di manifestazione di volontà, la quale se non restituita alle A.S.L., al medico di famiglia o anche alle farmacie, farà sì che ex imperio il cittadino venga considerato donatore di organi.

Questa soluzione non è condivisibile per vari motivi. E’ una scelta contraddittoria con il principio secondo il quale ciascun cittadino ha il diritto di disporre o meno dei propri organi o tessuti, diritto della personalità (secondo il dettato della stessa legge, atteso che non è un diritto patrimoniale – tra l’altro la legge punisce severamente chi fa commercio di organi umani –), che in quanto tale rientra tra i diritti inviolabili della persona di cui all’art. 2 Cost. L’equazione silenzio-informato uguale assenso pone un insanabile contrasto con il diritto ad esprimere il dissenso. Appaiono condivisibili, quindi, le critiche mosse (il cardinale Ersilio Tonini ha sostenuto senza mezzi termini che si tratta di un esproprio del corpo da parte dello Stato) da più parti nei confronti del dettato legislativo, che ha introdotto nella legislazione italiana il principio della prevalenza dell’interesse dei cittadini viventi rispetto alla volontà, ai desideri e alle concezioni morali del cittadino in procinto di perdere la propria vita.

Il problema della carenza di organi va risolto seguendo altre strade. Sono condivisibili le scelte operate dal legislatore sia da un punto di vista logistico (l’istituzione di un centro nazionale responsabile del coordinamento con vari centri regionali e provinciali) sia da un punto di vista penale (la persecuzione di coloro i quali fanno commercio di organi), ma l’equiparazione silenzio-informato uguale consenso è una forzatura che non può essere accettata in toto. Le strade da seguire sono quindi altre: la sensibilazzione sull’argomento che permetta il nascere e il diffondersi nel nostro Paese di una cultura dei trapianti, la quale operando sull’opinione pubblica possa favorire la libera, consapevole, certa decisione di donare gli organi. La notificazione di una richiesta di volontà è un’ottima soluzione a patto che si demandi alla responsabilità e alla coscienza di ogni singolo individuo il compito di “rispondere” alla richiesta espressamente, magari enunciando un dovere sociale di donare gli organi. Un dovere sociale, un dovere morale, appunto, non un dovere giuridico. Ciò significa non dovere interpretare necessariamente un comportamento meramente passivo come incerta manifestazione di volontà su di un argomento così delicato.

attilio pisanò

   
   
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