La solare, luminosa e greca Trinacria, una regione
mitica e perduta, che lautore
del racconto sembra rimpiangere con profonda nostalgia.
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Anche se molte benemerite antologie letterarie non li registrano,
I Racconti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) sono per
lo studioso una fonte di notizie molto importante, sia per ricostruire
il retroterra culturale ed esistenziale che portò alla realizzazione
de Il Gattopardo, sia per individuare alcuni percorsi artistici
distanti e in qualche modo originali rispetto alla tematica centrale
dellopera del siciliano.
I Racconti di Tomasi di Lampedusa furono pubblicati per la prima
volta nel 1961, grazie allacume critico ed estetico di Giorgio
Bassani, il quale fu per il Nostro quello che Crémieux e
Montale furono per Svevo.
Tomasi di Lampedusa ci ha lasciato in totale quattro racconti (Ricordi
dinfanzia, La gioia e la legge, La sirena, I gattini ciechi)
che potremmo dividere in due gruppi: quelli che risentono maggiormente
dellinfluenza del Gattopardo, al quale lautore lavorava
contemporaneamente (Ricordi dinfanzia e I gattini ciechi)
e quelli che, invece, tendono a distaccarsi dallambiente molle
e salottiero della nobiltà siciliana fin de siècle
(La gioia e la legge e La sirena).
I racconti del primo gruppo rappresentano una sorta di terreno
di sperimentazione e di prova per il Nostro o anche una sorta di
diario di memorie, dove concentrare i ricordi della propria infanzia
e giovinezza e dal quale, successivamente, recuperare figure, personaggi,
ambienti da studiare, abbozzare e modellare ad hoc per il suo lavoro
maggiore. Infatti, come giustamente osserva Gioacchino Lanza Tomasi
nella prefazione alledizione del 1998, i ricordi dellautore,
i suoi propri e quelli dellepoca nella quale trascorse la
sua giovinezza e maturità, strutturali nei racconti sopra
accennati, «straripano per ogni dove nel romanzo [...] ed
ogni ambiente di pregio del Gattopardo ha un suo antefatto nei Racconti».
Ma ancora più interessanti e degnissimi dattenzione
credo siano i due racconti La gioia e la legge e La sirena, primariamente
per il fatto che con questi due racconti Tomasi di Lampedusa si
cimenta con tematiche inusitate rispetto a quella affrontata nella
sua opera maggiore.
Scritto negli anni più importanti per la sua esistenza artistico-letteraria,
1955-57, La gioia e la legge è un racconto che si svolge
in una grande città italiana e gli anni in cui è ambientato,
come si può evincere dalle citazioni che riporto, sono gli
stessi in cui scriveva il racconto:
«Si diresse verso casa sua attraverso
una strada decrepita cui i bombardamenti quindici anni prima
avevano dato le ultime rifiniture. Giunse alla piazzetta spettrale
in fondo alla quale stava rannicchiato ledificio fantomale»
(«GL», p. 90) |
Ed ancora:
«Il panettone intanto stava lì,
al centro della scrivania, greve, ermeticamente chiuso, onusto
di presagi come lo stesso Commendatore avrebbe detto venti
anni fa in orbace» («GL», p. 89). |
Per la prima volta, dunque, Tomasi di Lampedusa tratta di una materia
pressoché estranea alla sua pur breve tradizione letteraria:
quella dellumile impiegato di quasi sveviana memoria, calato
in un contesto del tutto diverso da quello della Sicilia pre e post
risorgimentale alla quale ci aveva abituato il nobile palermitano.
Con La gioia e la legge siamo catapultati nel frenetico ambiente
urbano della nuova età industriale, tanto caro a tutta quella
corrente neorealista sviluppatasi verso la fine degli anni 50.
La storia, in sintesi, è quella di un modesto e grigio impiegato
di nome Girolamo, il quale, per Natale, riceve in dono un grosso
e adorno panettone, premio per limpiegato più meritevole;
ma è sin troppo facile ravvisare nelle auliche e ridondanti
parole del Commendatore che premia il disgraziato burocrate una
perversa e compiaciuta ironia, sostenuta dallo sghignazzare nascosto
dei colleghi di lavoro.
Ma in quel panettone, protetto come cosa sacra sul tram che lo riconduce
dallufficio a casa e ostentato orgogliosamente alla moglie
e alla stupita meraviglia dei suoi bambini, Girolamo ravvisa ingenuamente
il simbolo della raggiunta affermazione della sua dignità
umana e professionale e quel panettone diviene al fine anche un
momento di felice evasione dalla realtà, alla quale egli
è incatenato; una realtà fatta di ambizioni frustrate,
di sogni frantumati e di speranze deluse, che il Tomasi di Lampedusa
sintetizza nel momento in cui limpiegato lascia il suo ufficio
e torna nella sua piccola dimora, ritrovando moglie e figli:
«[Girolamo] Aprì la porta,
penetrò nellingresso esiguo già ingombro
dellodore di cipolla soffritta; su di una cassapanchina
grande come un cesto depose il pesantissimo pacco, la cartella
gravida dinteressi altrui, il fasciacollo ingombrante.
La sua voce squillò: Maria! Vieni presto! Vieni
a vedere che bellezza!.
La moglie uscì dalla cucina, in una vestaglia celeste
dalla fuliggine delle pentole, con le piccole mani arrossate
dalle risciacquature posate sul ventre deformato dai parti.
I bimbi col moccio al naso si stringevano attorno al monumento
roseo, e squittivano senza ardire toccarlo» («GL»,
pp. 90-91). |
Ma il panettone, con tutta la valenza simbolica che racchiude per
limpiegato, sarà subito destinato dalla moglie allavvocato
Risma, verso il quale la famiglia è in debito di riconoscenza.
Questultimo, che vive non più in solenni palazzi aviti,
dove il Tomasi di Lampedusa aveva sempre fatto gravitare i nobili
potenti siciliani, bensì in un «appartamento astrattista
e metallico», segno anchesso del mutato scenario sociale,
rappresenta la nuova classe di padroni, quella stessa che il Nostro
ci aveva prospettato, rampante e agguerrita, ne Il Gattopardo; per
intenderci quella «dei nuovi ceti più volgari ma più
intraprendenti, vale a dire la borghesia pronta a salire sul carro
dei vincitori arrivati con le insegne del nuovo stato nazionale
unitario».
«Lavvocato, due anni fa,
aveva incaricato lui di un complicato lavoro contabile, e, oltre
ad averlo pagato, li aveva invitati ambedue a pranzo nel proprio
appartamento astrattista e metallico nel quale il ragioniere
aveva sofferto come un cane per via delle scarpe comprate apposta.
E adesso per questo legale che non aveva bisogno di niente,
la sua Maria, il suo Andrea, il suo Saverio, la piccola Giuseppina,
lui stesso, dovevano rinunziare allunico filone di abbondanza
scavato in tanti anni!» («GL», p. 91). |
Questo racconto di Tomasi di Lampedusa sembra rappresentare la
volontà dellautore di confrontarsi con i temi della
più recente e a lui contemporanea corrente letteraria. Proprio
nel triennio 1955-1958, infatti, la spinta iniziale del neorealismo,
la sua primigenia forza di intervento sulla realtà, i temi
centrali del movimento (la guerra, la resistenza partigiana, la
questione meridionale), cedevano il passo allesplorazione
e alla critica della nuova e alienante società industriale,
della condizione delloperaio e del piccolo burocrate, dellinvasione
dei primi mezzi di comunicazione di massa (radio e televisione)
e dellinfluenza delle grandi catene di distribuzione come
la Standa, che diverranno luoghi simbolo dellItalia degli
anni 50, una sorta di paradiso dellopulenza e del consumismo
al quale pure la famiglia dellimpiegato, malgrado tutto, può
ambire.
«[Girolamo] Corse in cucina, prese
il coltello e si slanciò a tagliare i fili dorati che
unindustre operaia milanese aveva bellamente annodato
attorno allinvolucro; ma una mano arrossata gli toccò
stancamente la spalla: Girolamo, non fare il bambino.
Lo sai che dobbiamo disobbligarci con Risma. Parlava la
Legge, la Legge emanata dai cappellai intemerati. Ma cara,
questo è un premio, un attestato di merito, una prova
di considerazione!.
Lascia stare. Bella gente quei tuoi colleghi per i sentimenti
delicati! Una elemosina, Girì, nientaltro che unelemosina
[...]. Domani comprerai un altro panettone piccolino,
per noi basterà; e quattro di quelle candele rosse a
tirabusciò che sono esposte alla Standa; così
sarà festa grande» («GL», pp.
91-92). |
Leggendo questo breve passo comprendiamo tutta la valenza semantica
del titolo La gioia e la legge: la prima è quella che pervade,
breve ed effimera, il modesto impiegato ricevendo il panettone,
che è, allo stesso tempo, segno di vittoria e di sconfitta;
la seconda è quella spietata che impone la nuova società
industrializzata, la legge del sistema, del mostruoso
ingranaggio che la rivoluzione industriale e la forza del capitalismo
hanno, inevitabilmente, posto in movimento e che sostituisce quello
altrettanto bieco di stampo feudale, che era sopravvissuto, mutatis
mutandis, sino quasi alle soglie del secondo dopoguerra.
Questo racconto sembra essere sintomatico dello stato danimo
dellautore, il quale, mentre scriveva di unepopea e
di un ambiente collocato storicamente cento anni prima, mentre attendeva
ad un libro venato da una insostenibile nostalgia e da una tristezza
psicologica per il passato, non perdeva di vista la realtà
contemporanea, con i nuovi problemi che si affacciavano allorizzonte,
con le nuove sollecitazioni artistiche e letterarie, che presto
sarebbero sfociate nellesplosione neoavanguardista e che avrebbero
segnato il punto di non ritorno dallera del Gattopardo.
La sirena è laltro racconto che per loriginalità
tematica attira lattenzione del lettore. Con questo racconto
Lampedusa si inoltra addirittura in una storia dalle venature fantastiche
ove si narra il conturbante rapporto tra un giovane siciliano e
una magnifica e ammaliante sirena.
Il testo feltrinelliano riporta, sicuramente frutto di un errore
di trascrizione, la data 1838 come periodo dambientazione
del racconto; data errata poiché il co-protagonista della
vicenda, il giovane giornalista Paolo Corbéra, proprio nella
prima parte del racconto afferma: «Io portavo con me dalla
redazione cinque o sei quotidiani, fra essi, una volta il Giornale
di Sicilia. Erano gli anni nei quali il Minculpop più infieriva,
e tutti i giornali erano identici [...]». Ora è chiaro
a tutti che il Minculpop, ossia il Ministero per la Cultura Popolare,
era unistituzione fascista e che, di conseguenza, il 1838
è da leggersi in realtà 1938, proprio lanno
in cui il Regime entrava nella sua ultima fase, quella più
rigida e totalitaria, effettuando un severo controllo censorio della
stampa e di qualunque altro mezzo dinformazione e propaganda.
Laltro protagonista del racconto, oltre al già citato
Paolo Corbéra, giovane siciliano trapiantato a Torino, è
il burbero e livido senatore Rosario La Ciura, anchesso siciliano,
eruditissimo ellenista:
«Vi si diceva che il granduomo
[Rosario La Ciura] fosse nato a Aci-Castello (Catania) in una
povera famiglia della piccola borghesia, come mercé una
stupefacente attitudine allo studio del greco ed a forza di
borse di studio e pubblicazioni erudite avesse ottenuto a ventisette
anni la cattedra di letteratura greca allUniversità
di Pavia; come poi fosse stato chiamato a quella di Torino dove
era rimasto sino al compimento dei limiti di età; aveva
tenuto dei corsi ad Oxford e a Tübingen e compiuto molti
viaggi anche lunghi perché, senatore pre-fascista e accademico
dei Lincei, era anche dottore honoris causa a Yale,
Harvard, Nuova Delhi e Tokio oltre che, sintende, delle
più illustri università europee da Upsala a Salamanca.
[...] infine, gloria massima, non era membro dellAccademia
dItalia» («S», p. 99). |
La vicenda è così sintetizzabile: Paolo Corbéra
è un giovane siciliano approdato a Torino per le migliori
prospettive che il capoluogo piemontese può offrire nel campo
del giornalismo. Qui, in un bar animato da figure evanescenti e
fumose, pallide e rassegnate, si imbatte nel professor La Ciura,
il quale mostra verso la società, verso le convenzioni piccolo
borghesi, verso gli amori e le tribolazioni della classe operaia,
un profondo disprezzo, che nasce dalla percezione di una sua conquistata
superiorità, del fatto di essere uno dei pochissimi custodi
di un sapere antichissimo, di essere parte di una civiltà
raffinatissima e meravigliosa: quella dellantica Sicilia,
con i suoi miti e le sue leggende; con la sua arte e le sue immortali
bellezze, una terra animata da presenze insieme umane e divine,
che si mescolano e si confondono sotto un sole panico e ipnotizzante.
La Ciura è una figura interessante e complessa, sdegnosa
e autoritaria, sprezzante e indifferente. Si avvicina al giovane
Corbéra solo in virtù della loro comune sicilianità
e la Sicilia emerge viva attraverso i dialoghi dei due protagonisti
e dalle parole di Tomasi di Lampedusa, che hanno il potere di dipingere
delicati scenari paesaggistici e, al contempo, di catturare le emozioni
e le impressioni che quelli producono nellanimo umano:
«Così parlammo della Sicilia
eterna, di quella delle cose di natura; del profumo di rosmarino
sui Nèbrodi, del gusto del miele di Melilli, dellondeggiare
delle messi in una giornata ventosa di Maggio come si vede da
Enna, delle solitudini intorno a Siracusa, delle raffiche di
profumo riversate, si dice, su Palermo dagli agrumeti durante
certi tramonti di Giugno. Parlammo dellincanto di certe
notti estive in vista del golfo di Castellammare, quando le
stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi
è coricato riverso fra i lentischi si perde nel vortice
del cielo mentre il corpo, teso e allerta, teme lavvicinarsi
dei demoni» («S», p. 103). |
Dopo una lunga frequentazione al bar, La Ciura metterà il
giovane Corbéra a parte del segreto che custodisce e che,
sottraendolo allumanità, miope e superficiale, lo ha
irreversibilmente proiettato nel mondo degli dei e delle presenze
immortali: laver conosciuto cioè una sirena di nome
Lighea, mitica figura mezzo pesce e mezza donna, con la quale il
professore condivise amori profondi e inesplicabili:
«Dunque racconta il vecchio
accademico nel 1887 avevo ventiquattro anni; [...] avevo
già la laurea in lettere antiche, avevo pubblicato due
opuscoletti sui dialetti ionici che avevano fatto un certo rumore
nella mia Università; e da un anno mi preparavo al concorso
per lUniver-sità di Pavia. Inoltre non aveva mai
avvicinato una donna. [...] Tu [...] non sai che cosa sia la
preparazione a un concorso per una cattedra universitaria di
letteratura greca. Per due anni occorre sgobbare sino al limite
della demenza. [...] In cima a tutto questo sopravvenne la catastrofe
di quellestate del 1887 che fu una di quelle proprio infernali
[...] se a mezzogiorno si toccava una ringhiera di balcone si
doveva correre al Pronto Soccorso. [...] Stavo per crepare.
Un amico mi salvò [...] Senti, Rosario [...] io
me ne vo in Svizzera ma ad Augusta posseggo una casupola di
tre stanze a venti metri dal mare [...] Fai fagotto, prendi
i tuoi libri e vai a starci per tutta lestate. [...]
Seguii il consiglio. [...] Il posto era completamente deserto
[...] Un paradiso. [...] Presi in affitto una barchetta leggera.
[...] [Il prodigio] venne a compiersi la mattina del cinque
Agosto, alle sei. Mi ero svegliato da poco ed ero subito salito
in barca [...] sentii un brusco abbassamento dellorlo
della barca [...] Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una
sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il
fasciame. [...] con stupefacente vigoria emerse dritta dallacqua
sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse
in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella
barca: sotto linguine, sotto i glutei il suo corpo era
quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee
e azzurre, e terminava in una coda biforcuta [...]. Era una
Sirena» («S», pp. 114-119). |
Lincontro con questo essere immortale e bellissimo, divino
e bestiale, frantuma e dissipa qualunque certezza nel giovane studioso,
qualunque sapere, qualunque credo e qualunque fede, determinando
linsanabile distacco col mondo. Indifferente a tutto, lunico
desiderio che il dotto professore inseguirà per tutta lesistenza
sarà quello di ricongiungersi con la sirena, come infatti
farà lasciandosi cadere in mare dalla nave che da Genova
lo portava a Lisbona per un convegno.
Finisce con la morte del vecchio senatore, che è intesa
tale per tutti tranne che per il giovane Corbéra, il racconto
La sirena, al centro del quale Tomasi di Lampedusa ha posto, in
contrasto con lambiente umido, nebbioso e chiaroscurale di
Torino, la luminosa Sicilia, che non è quella feudale del
Gattopardo, bensì la solare, luminosa e greca Trinacria.
Una regione mitica e perduta, che lautore del racconto sembra
rimpiangere con profonda nostalgia.
Lontano dai temi e dagli ambienti consueti al nostro, non vincolato
ad una rigida aderenza al fatto, alla realtà,
questo racconto ci rivela le doti di un prosatore e di un letterato
certamente versatile, esperto conoscitore della letteratura europea,
specie di quella francese, dalla quale sembra voler mutuare in questo
racconto la voluttuosità decadente degli artisti di fine
Ottocento e, in maniera più accentuata, la critica causticamente
ironica della borghesia e delle classi subalterne di un Balzac,
artista certamente congeniale al nobile siciliano.
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