Giugno 2000

SCAVI IN CORSO

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Le radici della koinè
Tonino Caputo - Franco Aliberti - Giulio Marinelli
 
 

 

 

 

Annunciata
probabilmente con eccessiva cautela
nel catalogo di una mostra su Alessandro Magno, una scoperta
davvero
straordinaria
sarebbe da registrare ad Alessandria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scavi archeologici nel bacino mediterraneo, alla ricerca, o meglio ancora, per la conferma di radici comuni, di una grande koinè. C’è stata un’epoca durante la quale le grandi potenze europee conducevano una sorta di politica di rapina nelle aree archeologicamente più ricche, (si pensi ai marmi del Partenone portati a Londra; oppure al tesoro di Priamo, che dopo tortuose vicende è finito dalle parti di Mosca), anche se non mancarono grandi imprese scientifiche (come la spedizione napoleonica in Egitto), e anche se vennero avviate indagini che ancora oggi costituiscono tappe fondamentali nella storia degli studi (tedeschi a Mileto e a Pergamo, austriaci ad Efeso, francesi a Delo e a Delfi, inglesi in Medio Oriente...). E c’è un’epoca, quella attuale, nel corso della quale i lavori si sviluppano su un piano di collaborazione paritaria: fra gli esempi più recenti, ricordiamo gli scavi italiani a Gerico (prima ricerca concordata dalle autorità palestinesi con missioni straniere) e a Zama (è recentissimo l’accordo con la Tunisia). Ma vediamo, in sintesi, quali sono i lavori in corso in tutto il bacino del Mare Nostrum.

Italia: da Creta a Ebla. Il nostro Paese si trova in una situazione particolare, in quanto ospita sul suo territorio numerosissimi gruppi di studiosi stranieri, ma a sua volta invia missioni un po’ dappertutto. Tutto cominciò nel 1884, con quella sorta di pioniere che fu Federico Halbherr a Creta: e qui, dopo i grandi lavori di Doro Levi a Festos, ancora oggi è impegnata a fondo, in diverse località, la Scuola Archeologica Italiana di Atene.
In Libia, nostre missioni sono presenti fin dal 1919 (dopo che questa area era stata sottratta alla Turchia e all’Impero Ottomano), e in qualche caso anche da prima. L’attività continua, attualmente, in collaborazione con il governo libico, tanto in Tripolitania, (Sabratha, Leptis Magna), quanto nella colonia greca di Cirene, in Cirenaica, quanto infine nel deserto. Qui, all’estremità sud-occidentale del Paese, nelle grotte e nei ripari rocciosi del Tadrart Akakus, il nostro Fabrizio Mori scoprì negli anni Cinquanta un’incredibile quantità di pitture rupestri, dalla più remota preistoria all’inizio dell’era volgare. Dove oggi è Sahara, un tempo non era deserto: vediamo cacciatori e grandi faune selvagge, poi pastori e mandrie, poi ancora battaglie e altro: testimonianze di un “popolo senza nome”.
In Medio Oriente, fra tante imprese, la più nota e pubblicizzata è quella di Ebla: continuano a pieno ritmo i lavori della missione che ha riportato alla luce palazzi e santuari, fortini e porte, e soprattutto il celeberrimo archivio di diciassettemila tavolette del 2400-2300 a.C. In Turchia, si può scegliere (anche qui fra tante) la missione ad Arslantepe: fra le scoperte, una tomba reale dal ricchissimo corredo databile intorno al 3000 a.C. e le strutture di un palazzo che rivelano un’organizzazione “statale” di insospettata antichità.
In Egitto, già si dovevano a specialisti italiani gli spettacolari salvataggi dalla crescita del Nilo (dovuta alla costruzione di grandi dighe) dei monumenti di Abu Simbel e dell’isola di File. Ma, annunciata probabilmente con eccessiva cautela nel catalogo di una mostra del 1995 su Alessandro Magno, e forse proprio per questa ragione sfuggita ai più, una scoperta davvero straordinaria sarebbe da registrare ad Alessandria: nell’ambito delle ricerche condotte nelle splendide necropoli, è stato individuato nel “Cimitero Latino” uno sfarzoso sepolcro costruito in lastre di alabastro. Ebbene, lo storico Strabone ci informa che Tolomeo XI, nel primo secolo a.C., collocò esattamente in una tomba di alabastro, sostitutiva dell’originaria sepoltura in oro, le spoglie dello stesso Alessandro. Il corpo del Macedone, che in un breve arco di tempo, dopo la sua morte, cambiò ripetutamente sede, avrebbe quindi trovato qui la sua collocazione definitiva, che per tanto tempo era stata cercata inutilmente in un mare di ipotesi contrastanti.

Gli scavi degli altri. Gli archeologi tedeschi (i quali ebbero un formidabile “apripista” nelle singolari imprese di Schliemann a Troia e a Micene, a Orcomeno e a Tirinto), hanno in corso ricerche ormai secolari, o almeno pluridecennali, a Pergamo, ad Atene, a Samo, a Olimpia, a Priene: vale a dire nel cuore della classicità. E di recente si sono aperte ancora altre missioni: nella capitale italiana, per l’Orologio di Augusto in Campo Marzio; a Simitthu, in Tunisia, per le cave e per la “fabrica” dove veniva estratto e lavorato il celebre “marmor Numidicum”, ovvero “giallo antico”, (marmo molto apprezzato nell’antichità per il suo colore quasi dorato); a Bogazkoy, in Turchia, (tornando indietro nel tempo), presso l’acropoli e i possenti bastioni di Hattusa, capitale (XIII-XII secolo a.C.) dell’impero hittita. I francesi, oltre – naturalmente – alle numerosissime ricerche condotte in patria, (ad esempio, nelle splendide città della Provenza), hanno in pugno cantieri “storici” in Grecia, (Delo, Delfi, Epidauro), a Creta, in Oriente, in Egitto, in Marocco, e in modo particolare in Tunisia.
In Siria, gli scavi di Mari e di Ugarit avevano svelato, già prima di quelli di Ebla, fondamentali aspetti delle culture urbane preclassiche; e i lavori continuano. Formidabile il contributo del Regno Unito. Nel Medio Oriente si devono a Sir Max Mallowan (che era il marito della scrittrice di “gialli” Agatha Christie) lunghe ricerche su Nimrud e sui suoi avori, e poi su Ur (città dei Caldei e di Abramo), e su Ninive, splendido gioiello urbano dell’area; mentre a Sir Mortimer Wheeler e a Kathleen Kenyon vanno attribuite innovazioni tecniche nello scavo stratigrafico, felicemente sperimentate a Samaria, a Gerico, a Gerusalemme, oltre che nella Valle dell’Indo. Attualmente, gli archeologi d’oltre-Manica sono più che mai impegnati nella penisola italiana: nella Valle del Tevere, con la ripresa, con tecniche moderne, delle ricognizioni topografiche su ampia scala territoriale, a suo tempo avviate dal grande John B. Ward Perkins; nell’area di Pompei, per l’edilizia domestica; in quella di San Vincenzo al Volturno, per l’abitato medioevale.
Per quel che riguarda l’Egitto, studiosi di Southampton indagano su Myos Hormos, porto romano, e in seguito emporio islamico sul Mar Rosso.
Quanto all’Austria, anche se non è più la potenza imperiale di una volta, è necessario ricordare la lunga tradizione degli scavi di Efeso (dove, inoltre, si segnalano brillanti ricostruzioni, come quella della magnifica Biblioteca di Celso), e, più recenti, quelli di Avaris, nel delta del fiume Nilo: in quest’area è stata individuata la capitale degli Hyksos, popolazione semitica che dominò le terre egiziane tra il 1720 e il 1570 a.C., la cui ubicazione aveva costituito finora uno dei grandi misteri dell’archeologia orientale.

Molto forte e diffusa è la presenza di studiosi degli Stati Uniti d’America: lavorano in Italia, a Cosa, nelle vicinanze di Ansedonia; nell’area calabrese della colonia di Sibari; in un recinto del Foro Romano; in Turchia, sono presenti a Gordion, a Sardi, ad Afrodisia e nell’area di Hissarlik-Troia; in ambiente sumerico, operano nella metropoli protodinastica di Lagash e nella città santa di Nippur; in Grecia, conducono ricerche a Samotracia, ad Olinto e in modo particolare nell’agorà di Atene e in quella di Corinto: qui, proprio nella piazza della città dell’Istmo (che fu costruita ex novo in età imperiale romana), predicò l’apostolo Paolo.
Altri interventi. Svedesi e canadesi sono presenti nell’isola di Cipro; archeologi belgi sono attivi ad Alba Fucens (in Abruzzo) e a Herdoniae (in Puglia), ma anche ad Apamea (in Siria); spagnoli lavorano a Tuscolo e a Gabii, ma anche a Lixus (in Marocco), e soprattutto a Tarragona, Mérida, Italica e altri centri della “Hispania Romana”.
In questo gioco di collaborazioni incrociate, il caso più emblematico di questi ultimi decenni può essere rappresentato da Cartagine, la città di origine fenicia che dominò per una lunga età i commerci nel lago mediterraneo, fino al fatale impatto con Roma, da cui uscì distrutta (nel 146 a.C.), per essere in seguito ricostruita da Cesare e soprattutto da Augusto. In quest’area hanno lavorato ben dieci missioni internazionali: spettacolari in particolare i risultati raggiunti dall’équipe francese, che ha evidenziato proprio la sovrapposizione del foro di età imperiale romana sui resti dell’abitato fenicio-punico.
E’ una sintesi, certamente incompleta, altrettanto certamente in progress per i cantieri aperti in diverse aree del bacino mediterraneo negli ultimi tempi da missioni miste, che tuttavia rivela l’antica, determinata volontà di andare alla ricerca delle radici della civiltà mediterranea che è stata centro e scuola del mondo, anzi “il” mondo, per una lunga epoca. Quando il Mediterraneo inclinò ad Occidente, fu scoperta dell’America, e la storia planetaria spostò il suo asse. Ma questa è una complessa vicenda, che si proietta fino ai nostri giorni.

Per una nuova idea dell’Homo Mediterraneus

Mauro Agnusdei

Cosa hanno in comune i trulli di pietra della Puglia, le case scavate nella roccia calcarea di Kestra, Marocco, la splendida Petra, perduta città dei Nabatei, le rovine di Cartagine e di Leptis Magna e le cripte rupestri del Vicino Oriente cristiano? Sono il prodotto, non univoco nella forma ma di certo nella sostanza, dell’homo mediterraneus, il frutto di una lotta ancestrale e impari dell’uomo contro un ambiente ostile.

La storia dell’uomo mediterraneo è anzitutto storia di battaglie, combattute con l’aratro, una volta di legno oggi meccanico, se non con le nude mani, per strappare pochi centimetri di suolo per volta contro un ambiente che vi si oppone con la siccità, le alluvioni e la furia dei venti e quando un nuovo spazio è stato conquistato, l’uomo mediterraneo è in grado di trasformarlo fino ad adattarlo alle proprie necessità, usando ciò che esso gli fornisce. La pietra: ecco cosa cerca l’uomo mediterraneo, cosa raccoglie quasi istintivamente. Quella pietra che può lavorare, scolpire e con cui può edificare splendide chiese barocche o umili dimore, bianche di calce.

C’è nell’uomo mediterraneo un’innata tendenza alla semplicità e all’autolimitazione, che si manifesta in tutte le sue produzioni. Non c’è spazio nella sua vita per l’esagerazione perché secoli di storia gli hanno insegnato che il poco è sufficiente: costruisce palazzi e castelli, ville e chiese ma la loro magnificenza è solo esteriore ché al loro interno tutto risplende della misurata e geometrica bellezza delle volte a croce. L’uomo mediterraneo ha nostalgia: ovunque egli vada porta con sé il ricordo struggente del proprio paese, della propria terra, perché è convinto che per essi passi un raggio della storia universale e, se deve lasciarli, anche solo per poco porta con sé non un’immagine, un ricordo, ma un oggetto della sua casa, un piatto della sua tradizione, come gli antichi coloni greci portavano con sé una zolla di terra della loro madrepatria. L’uomo che nasce e che cresce intorno al Mediterraneo è tutto questo e molto di più e lotta per mantenere integra la propria identità anche oggi, all’alba di un nuovo millennio che promette fasti ipertecnologici e verità precostituite da ordinare via Internet: ci sarà ancora spazio per l’homo mediterraneus e per la sua idea del mondo e della storia?
Potrebbe apparire un falso problema a chi è convinto che il futuro dell’umanità passi attraverso la sua omologazione culturale, effetto collaterale di un progresso tecnologico pure necessario e ineluttabile. Chi, al contrario, non si piega a questa logica orwelliana di un mondialismo monocorde avverte l’urgenza che l’uomo mediterraneo non scompaia e che non scompaia quel portato di storie, di civiltà, di culture e di memorie eterogenee che egli custodisce e manifesta nei pensieri, nei gesti, nei rapporti con gli altri: egli è e si sente cittadino del mondo ma, quando è sera, l’unico cielo stellato che si volge ad ammirare è quello che sovrasta la sua dimora, la sua città e la sua gente.

   
   
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