Fu proprio Gramsci a dare il giudizio più
severo
sul Risorgimento
e a dubitare
fortemente delle qualità intellettuali di Mazzini,
o di Garibaldi,
o di Pisacane.
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La notizia. Il Movimento culturale neoborbonico aveva organizzato,
per l8 gennaio scorso, la commemorazione del cardinale Fabrizio
Ruffo, capofila dei sanfedisti. A San Lucido, nel Cosentino, erano
previsti un convegno, una mostra e una messa in suffragio. Ma liniziativa
ha trovato lopposizione di alcuni politici: il sindaco Roberto
Pizzuti, temendo disordini, non ha autorizzato il corteo; la senatrice
diessina Antonella Bruno Garneri ha addirittura presentato uninterrogazione
parlamentare; e il parroco, su consiglio dellArcivescovado,
non ha celebrato la messa.
Poche altre volte, come negli anni che stiamo vivendo aveva
scritto Renzo De Felice poco prima di morire si è
assistito a una vera e propria fame di storia, che solo
raramente tuttavia può essere saziata; di quello che potrebbe
apparire un disinteresse dei giovani per la storia, e che invece
altro non è se non il risultato di una delusione, di una
profonda insoddisfazione per come essa viene loro propinata. Sul
banco degli imputati, in questo tempo, vengono inevitabilmente a
trovarsi in primo luogo la scuola (e i libri di testo), la saggistica,
la letteratura, la televisione, il cinema e i personaggi da florilegio
dellarcheologia amministrativa, politica e religiosa di cui
abbiamo riferito nella notizia; senza con questo voler fare di ogni
erba un fascio e sminuire limportanza che alcune (troppo poche)
opere saggistiche o letterarie e filmati televisivi o cinematografici
hanno rivestito e rivestono sul piano di una più corretta
e approfondita informazione.
Perché fame di storia: perché finisce, insieme con
il secolo, anche il millennio, e particolarmente in questo caso
a tutto si sa resistere, tranne che alla tentazione di fare dei
bilanci; perché la confusa situazione del presente, con valori
caduti e non sostituiti, ricerca cause, o alibi, ed effetti, o giustificazioni,
esplorando il passato più o meno recente; o perché,
legittimamente, si vuol procedere ad una rilettura, diversa, in
chiaro, delle vicende nostre, e insieme si vuol far riemergere storia
e storie emarginate, sottovalutate, escluse di proposito, per dar
luogo a una storia e a storie piegate a fini di parte?
Forse per tutte queste cose insieme. E perché luomo
contemporaneo ha voglia di conoscere la verità. Non ha scritto
Voltaire che la storia è la menzogna sulla quale gli storici
concordano? Anticonformisti a parte. I quali e qui entriamo
nel discorso che ci interessa chiamarono Insorgenze
i moti di popolo che dal 1787 al 1815 accompagnarono, contrastandole
accanitamente, le imposizioni giacobine domestiche e venute da Oltralpe
sotto legida della Rivoluzione dei lumi. Le Insorgenze
costituiscono un continente tuttora sommerso, che, come ha scritto
Massimo Caprara, «la dottrina ufficiale e di corte ha rimosso
o ha trascurato con lintento di frantumarne o marginalizzarne
il peso, se non addirittura demonizzarlo».
In tutta la penisola, dalla Sardegna alla Savoia, dal Tirolo alla
Puglia, più di 300 mila italiani presero le armi (ed ebbero
non meno di centomila morti) per «difendere le loro patrie,
i loro ideali, la loro religione, i loro sovrani, le loro cose,
in una parola, la loro civiltà», come esplicitamente
sostiene (e documenta) Massimo Viglione nel suo Rivoluzione e controrivoluzione.
Problema di straordinaria attualità, perché investe
il nodo culturale, etico-pubblico e politico della formazione del
nostro Stato nazionale, con le sue sommerse complessità e
con la sua fondante caratteristica repressiva, anche se vissuta
e tramandata con (contrabbandati?) accenti liberali.
In quel folgorante e drammatico passaggio di secolo si trattò
di un rifiuto di massa, interclassista, di una diffusa, generale
rivolta contro princìpi confusi, e malmostosamente applicati,
di egualitarismo e di sanguinanti utopie, di ipertrofia burocratica,
di cancellazione della religione, in cambio di una società
nella quale luomo finiva con lannegare nelluniversale
razionalista. Pur con tutte le necessarie diversificazioni, la Grande
Rivoluzione Francese del 1789 e gli stessi Immortali
Princìpi dellIlluminismo si tradussero per lItalia
napoleonica in queste terribili conseguenze. Né si dica
ribadisce Caprara che il termine philosophe,
col quale si drappeggiò il personale illuminista, costituì
di per sé un grimaldello asseverativo di fede democratica:
fior fiore di sovrani assolutisti, dalla Prussia a San Pietroburgo,
amavano letterariamente definirsi philosophe, alla moda
di Voltaire e di Rousseau, pur continuando nella pratica dei propri
governi a schiacciare plebi e a sfruttare nazionalità oppresse.
La Pasqua Veronese, cioè lInsorgenza del
17-25 aprile 1797 a Verona, non può essere sbrigativamente
e riduttivamente ritenuta un evento regressivo o legittimista. Le
migliaia di insorti della Valle Imagna, della Val Brembana, della
Val Seriana, che ebbero a capo due sacerdoti, don Filippi e don
Ussoli, sicuramente non meritarono la brutale fucilazione immediata
comminata, senza neanche un processo sommario, dal Bonaparte in
persona di tutti gli aristocratici coinvolti. Gli oltre 60 mila
caduti tra gli insorti del 1799 contro la Repubblica giacobina napoletana
e contro lesercito francese del generale Championnet non sono
da annoverare tout court e in modo dispregiativo come lazzari
senza cultura e assetati di sangue: molto più complesse erano
la loro formazione ideologica, la rappresentatività delle
loro ragioni, le finalità istituzionali e sociali del loro
movimento. Il fatto che sia stato un cardinale di Santa Romana Chiesa
a capeggiare la controrivoluzione, che fu rivolta dal basso, e che
il principe di Bagnara, cardinal Fabrizio Ruffo, si fosse pressoché
spontaneamente messo alla testa dei rivoltosi (che da sei che erano,
divennero durante la marcia in Calabria migliaia) non autorizza
a liquidare come reazionario lintero movimento.
Ed è per lo meno stolto che il più grande quotidiano
italiano abbia dedicato di recente unintera pagina culturale
contro il sanfedismo, movimento strumentalmente esorcizzato
in nome e per conto di un progressismo di maniera.
Dalla Calabria alla Toscana, dagli Abruzzi al Veneto, si trattò
innanzitutto della rivolta di classi subalterne e di ceti professionali
e di mestiere espropriati da diritti faticosamente conquistati contendendoli
a imperatori, re, principi e granduchi. Non fu un caso che il re
borbone minacciasse di morte proprio Ruffo che gli aveva restituito
il regno, ma che si opponeva, lui vincitore, ad impiccare un vinto,
lammiraglio Caracciolo.
Tortuose, carsiche, in labirintici coni dombra, e quindi ancora
da decifrare con lo studio e la ricerca, sono le vie della formazione
dello Stato italiano; e tante sono le implicazioni, che non appartengono
più soltanto al passato, ma che si proiettano nel presente,
e sono leggibili nel crescente distacco tra istituzioni e cittadini,
nellarroganza dei potenti, nella fragile griglia delle regole
della democrazia. Tutti, o moltissimi, frutto di un problema largamente
rimosso, del modo e del processo della formazione unitaria del nostro
Stato: lItalia, a confronto con lEuropa, è quella
le cui fondazioni sono tra le più repressive, in cui il giacobinismo
ha giocato un ruolo di integrazione Stato-nazione fra i meno partecipativi.
Fu proprio Gramsci a dare il giudizio più severo sul Risorgimento
e a dubitare fortemente delle qualità intellettuali di Mazzini,
o di Garibaldi, o di Pisacane. Lo scrittore e politico comunista
in catene aveva certamente le sue discutibilissime ragioni, espresse
in Quaderni dal carcere, titolo di un testo che in realtà
lautore aveva intitolato Americanismo e Fordismo (di Ford
e dei suoi sistemi produttivi essendo un fervido ammiratore). La
prova in gran parte naufragata dei liberali e del Partito dAzione
sta nella sottovalutazione di un dato strutturale spirituale: la
questione cattolica. Si evidenzia, cioè, con la sottovalutazione
di quelle «masse eterogenee, i cui vari elementi sono destinati
a prendere ciascuno la sua strada a mano a mano acquistino coscienza
di sé e dei loro reali interessi».
Ebbene: le Insorgenze costituirono senza dubbio lelemento
unificante che la vulgata risorgimentale ha trascurato e che altrettanto
palesemente costituisce un clamoroso anello mancante. Che oggi ci
siano, nel merito, dei ripensamenti, è un fatto positivo,
che induce a sperare nella possibilità di un riesame di «tante
ristrettezze occlusive» nel disegno della storia nazionale
di ieri, e soprattutto di oggi, nel momento in cui il Dio-mercato
dà lassalto alla religione intesa come senso comune
e critico dellesistenza.
Che le Insorgenze, scaturite da princìpi anticentralisti,
siano state realizzate soprattutto da masse eterogenee
(dalla populace, plebaglia alla francese), più che da gruppi
illuminati, induce quanto meno a riflettere, in senso pluralistico,
e a scriverne con spirito aperto, senza messa allIndice, e
senza pavidità della nostra storia e delle nostre storie.
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