Lavvento
del computer,
che è una protesi
del cervello,
sta conseguendo
sviluppi che possono in talune espressioni costituire anche un segno
allarmante.
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Chi anche questa volta scrive, essendo nato nel 1909 e avendo fatto
dal 1928 sempre il giornalista, vi ha riferito come sapete
sulle vicende del secolo scorso, che in lui si sono tradotte
in ricordi di attiva presenza. Ne ho tratto la conclusione che tutto
il 900 si è caratterizzato con una serie di anni difficili,
sempre previsti dai migliori, e con rapide fasi di evoluzione e
di involuzione. Daltra parte, questo è stato sempre
il destino dei popoli e della storia che lo ha interpretato, rifacendosi
però più alla sua epoca che non a quella dei fatti.
Daltronde, si sa che la storia è sempre contemporanea.
Ho avuto occasione di scrivere su queste pagine che, a mio modo
di vedere, le società e i loro momenti si sono sempre distinti
con limmagine, e cioè il costume e il linguaggio, sempre
con richiami del passato e sollecitazioni dellavvenire.
Naturalmente però il secolo scorso si è qualificato
così. Altrettanto si delinea quello da poco iniziato. Riconosciamo
però a questo un ritmo più accelerato, che del resto
già aveva cominciato a manifestarsi nellultimo decennio
del Novecento.
Tre stelle polari
Singolare è per me che questa tematica io debba affrontarla
anche e soprattutto con la memoria.
Il Duemila si è annunziato con il bug, e cioè
le sorprese della tecnologia e quelle pure sconcertanti di Internet,
ma la tecnica è stata in perenne stato di gravidanza e maternità
per tutto il secolo scorso.
Il Duemila sta balbettando anche un linguaggio nuovo, ma anchesso
è stato preparato dai vari decenni dello scorso secolo.
Il Duemila si manifesta anche con un nuovo costume: ma lonor
del mento che ritorna di moda, sia pur con la sorta di giardinaggio
consentito dai trilama di oggi, è lo stesso dellultimo
Ottocento e primo Novecento; con un linguaggio al tempo stesso innovativo
e tradizionale, perché solo ritenuto liberatorio; con unimmagine
esteriore che ad esempio per la donna da esibizione è passata
dalla canzonettista o cocotte del primo
Novecento al calendario di fine secolo scorso.
Tre stelle polari, così, per ieri, per oggi, per domani:
tecnologia, immagine, comunicazione.
Ma prima di affrontare esperienze anche personali di affinità
con tre fattori dominanti nel Duemila, quali appunto tecnologia,
identità, comunicazione, non mi sembra fuori luogo richiamare
la mia posizione nominalistica, che sta accompagnando le nuove sollecitazioni
e le nuove espressioni istituzionali, normative, dottrinarie, culturali.
Ogni epoca ha avuto le sue. Ma quella che comincia ad essere sotto
i nostri occhi più o meno attenti è certamente più
stringente. E ciò anche perché abbiamo a che fare
con una dimensione mai pensabile nel passato. Astrale da una parte,
globale dallaltra.
Cerano prima i continenti e le metropoli. Ora cè
il villaggio globale. Prima cera il capitalismo con unaggettivazione
che lo contestava mediante la lotta di classe, ora cè
il capitalismo selvaggio, che comporta un nuovo welfare,
e questa è una primazia fuori discussione, ma sempre da definire
nella persona destinataria.
Prima cera un capitalismo che pur creando era perlomeno formalistico,
oggi cè uno che dichiara di disporre di un proprio
portale, di poter rivendicare lo spazio dovuto alla sua preminenza
mercantile. Prima cera il disoccupato che dichiarava, da impreparato
quale sapeva di essere, atto a qualsiasi genere di occupazione,
ora cè il sommerso che evita il sindacato e si concentra
nello sforzo di divenire padroncino.
Ci sono poi Stati che si preoccupano più di istituire dicasteri
e dipartimenti che non posti di lavoro.
Cè una normativa comunitaria che tende ad essere sempre
più articolata, ma dispone di supporti operativi nei Paesi
partecipanti che molto spesso hanno il fiato corto, perché
la diagnostica comunitaria non è ancora entrata in orbita.
Scuola, bioetica, sanità, fondamentali, cifre,
le sollecitazioni del nuovo lievitano dai più elevati ai
più bassi livelli istituzionali. Così istituti, come
ad esempio lOnu e pure la Fao sono in fase diciamo di riflessione
e altri istituti maturi o immaturi acquistano maggiore dimensione.
Poniamo sotto gli occhi queste realtà e valutiamo le nostre
personali considerazioni: Euro, Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi
dellEst, Continente asiatico, Australia, Africa, ecc. Fermiamoci
qui, perché ognuno ha la sua ricetta da proporre e si vanta
di non essere ascoltato.
Anche il grado di illusione suscitato dalle cifre se diminuisce
negli organismi internazionali, ha sorte diversa là dove
si teme o subisce il sopravvento del vecchio o della instabilità.
E così mentre la tecnologia dispone della ricerca, la politica
è portata a condannare ideologie, che invece continuano a
restare sotto pelle.
Tecnologia medio-alta
Questa credo che possa essere la mia: per conoscenza dei
fatti, come si dice adesso per ben diverse testimonianze,
o addirittura pure come soggetto. La prima, quale capo dellUfficio
Stampa e Studi della Federazione Nazionale degli Artigiani aderente
alla Confindustria dal 1938 al 1944.
Questi sono anche gli anni di Mussolini, pure miei, in quanto come
ho scritto altre volte, avendo il mio ufficio sotto i merli
del Palazzo delle Assicurazioni in Piazza Venezia e quindi dirimpettaio
del più famoso Palazzo Venezia sono stato... coinquilino
di Mussolini, di quello che, con la sua poliedricità
chiamiamola pure così passava «dalla letteratura
alla tecnica».
«Voleva essere anche salma ad un funerale»: così
hanno scritto di lui, rilevandone la pratica intransigente del culto
della propria contraddittoria personalità.
E stato sempre scritto di lui che è stato un giornalista
geniale, accompagnandone la definizione con tante altre: una lunga
serie di contemporanei, paralleli segni in più e in meno.
Egli è comunque passato dal fez e prima bombetta allelmo
germanico indossato per sottrarsi alla sua fine, che invece gli
stava già addosso. Il mio legame con la tecnica ha invece
avuto un contenuto diverso.
E stato quello dellENAPI, un ente che era stato creato
nellambito dellArtigianato per assistere tecnicamente,
commercialmente, artisticamente gli artigiani, e cioè i più
numerosi titolari di brevetti in Italia, che per inventare di tutto
hanno bisogno di assistenza. E questa la trovano, lhanno trovata
in tutto il secolo scorso le nostre piccole imprese, suscitando
e indirizzando lavoro, essendo state i primi creatori del Made in
Italy.
Anchio per molti anni, e in altra veste fino al 1985, li ho
praticati, incoraggiati, spesso indirizzati.
Li ho pure criticati, e mi è occorso anche di dover ascoltare
linterrogativo di protesta: «Secondo lei, lartigianato
deve morire?». O, invece con la sua vita cera e cè
stata anche parte della mia? E talune testimonianze di queste creazioni
sono pure presso di me e mi tengono compagnia. Una sorta dantiquariato
che mi accompagna allaltitudine anagrafica, come è
stata definita da un nostro collega con il quale condivido lanno
di nascita.
Ma come soggetto in campo della tecnica qualche contributo, anche
non secondario, mi è stato di dare come creatore nel 1960
della prima Teleborsa italiana. Nel giugno-agosto di quellanno
lavevo vista a Wall Street, essendo stato invitato quale giornalista
economico di spicco (una motivazione ufficiale di pura formalità
burocratica, sempre indifferente a noi giornalisti) dal Dipartimento
di Stato Usa ad un soggiorno di tre mesi di studio e di approfondimento.
Mi fu detto allora ma me ne vanto, con me stesso, solo adesso
che ero stato uno dei più impegnati. Perciò
la mia qualità di creatore della prima Teleborsa italiana
è quella non di ideatore, ma di semplice importatore, un
importatore che ha avuto in Italia la ventura di parlarne con il
Cav. del Lavoro Raoul Chiodelli, già direttore generale dellEIAR,
poi della Compagnia Marconi, quindi di Radio Stampa.
Un grande realizzatore, senza il quale Teleborsa, protrattasi anche
con me fino al 1995, non sarebbe sorta. Sarebbero ovviamente nate
altre Teleborse. Ma nella prima ho avuto la ventura di farci entrare
anche le mie mani, con questa subalterna motivazione.
Altri tentativi diretti che possono entrare in questa materia riguardano
lincrocio della figura del direttore di testata con quella
delleditore. E così mi è occorso di promuovere
allindomani del referendum del 46 un settimanale dal
titolo certamente anticipatore per quei tempi Import Export, formato
quaderno copiato dal Panorama di Domus, formato poi del Reader Digest,
ma sfortunato anticipatore allora. Leditore era più
convinto di me, anche nelle avversità del momento, tantè
che sua moglie venne a pregarmi di scoraggiare il marito. Egli tuttavia
continuò a mantenere, anzi ad accrescere la sua fiducia in
me, tantè che, acquistato Il Globo, me ne offrì
la direzione. La rifiutai perché ne intravedevo la precarietà,
tantè che presto il giornale passava di proprietà.
Ho avuto tanto da questo editore che aveva locchio aperto
e al quale purtroppo poco ho dato, accogliendo solo negli ultimi
anni la collaborazione di articolista che mi offriva.
Aveva cominciato da tipografo in un locale di Piazza Navona, della
quale egli mi ha sempre ritenuto frequentatore, ragazzino fra i
futuristi, gli scrittori, i nazionalisti, i fascisti addirittura
ante marcia. Io non cero, ma lui lha sempre pensato,
anche se io glielho sempre smentito. Nellumana esistenza
ci sono anche questi fatti, derivanti da unimmaginazione che
fa piacere.
Un altro ricordo che mi colloca in questa angolazione riguarda la
creazione nel 1932 di unagenzia giornalistica dal titolo LEspansione
Economica, collegata con una rivista molto nota in quegli anni dal
titolo La Rassegna Italiana. Quando il suo direttore, che si chiamava
Tomaso Sillani (egli teneva molto ad una m sola nel nome), telefonava
a me assente, la mia domestica friulana, senza alcuna intenzione
politica, mi diceva che mi aveva cercato il direttore della rassegnazione
italiana. Siamo nel 32 e il 43 era molto lontano, ma
i tempi degli apprendimenti e delle consuetudini sono quelli che
sono. Fra laltro ricordare lespansione economica di
allora e la globalizzazione di oggi, e poterli confrontare nella
stessa esistenza, lascia sbigottiti. Del Presidente dellICE
di allora, che era ligure e poi divenne ministro delle Corporazioni,
mi fu detto che lagenzia gli piaceva, ma non faceva per essa
gli occhi di triglia. Chissà perché mettesse di mezzo
la pesca, forse per farmi intendere che era prevalentemente pratico.
La cosa non mi impressionò, perché un altro ministro,
alla cui rivista collaboravo in materia economica, ebbe a dirmi
che o la rivoluzione si faceva là, dove egli era, e si trattava
dellAgricoltura, o non si sarebbe fatta mai.
Allora in tempo di rivoluzione permanente così si
chiamava i commenti si facevano con queste parole. Ora in
democrazia si fanno con intendimenti e promesse. Taluni dicono elettorali.
Da questa agenzia nacque poi il volume di celebrazione del ventennio
della nostra colonizzazione della Libia. Del volume sono stato promotore
e in parte anche curatore, ma a presentarlo al Re fu, come era sua
peculiare consuetudine, il Sillani. Un nostro collega, fiorentino,
mi disse che era opportuno che come a quei tempi cera un Piperno
al Corso, così ci doveva essere un Tomaso Sillani ricevuto
dal Re. Io per lui penserei invece ad un sempreverde. Perché
il dopoguerra gli aveva suggerito di abbandonare la rivista, ma
di promuovere sempre con gli stessi appoggi un Centro di Riconciliazione
Internazionale. Le riconciliazioni fanno sempre comodo; come si
sa, perché rendono possibile la coesistenza, anzi la remunerazione
del vecchio e del nuovo.
E così che i tanti contributi umanitari nascono e muoiono.
Sono, come si sa, modesti o forzati, ma un mio zio a chi gli chiedeva
di alzare in una sua conferenza il tono di voce ebbe a rispondere:
«Vi do quello che ho». Nella mia famiglia ne hanno parlato,
a mo di esempio, per vari decenni.
Lidentità:
ne hanno fatto perfino una carta
Lidentità, valore essenziale ma pure mutevole perché
fattore e conseguenza del progresso, è stata ed è
una fondamentale corsa ad ostacoli. Stati e popoli ne perfezionano
costantemente il volto. Altrettanto fanno generazioni e individui.
Il Novecento ci ha lasciato quella che conosciamo. Quella cioè
più elementare per noi: la carta didentità,
con il significato da attribuire ai fattori anagrafici.
Tutto il secolo ha avuto a che fare con due grandi guerre, con due
rivoluzioni di ottobre, con laccelerazione delle grandi scoperte,
a cominciare da quelle del volo umano, con le grandi migrazioni
dalle quali sono scaturite nuove fusioni etniche e combinazioni
di lavoro e di integrazioni produttive e mercantili, con le contestazioni,
con il sopravvento di nuove forme di consumo. Talune di queste sono
state improntate alla cosiddetta maggiore sincerità e spontaneità,
in avversione a moduli ritenuti a ragione o a torto limitativi della
personalità. Tutto ciò si è riversato sulle
varie scelte ed anche come abbiamo già avuto modo
di osservare non solo nel linguaggio (fra la generalizzazione
del termine operatore), ma anche nelle personali attitudini di individui
e di gruppi. Ognuno, sapendo o non sapendo fare, sta rivedendo i
suoi rapporti con la società. Ed è nella natura umana
il dover continuare a farlo.
Il fattore identità nel mio secolo e dallangolazione
dalla quale come giornalista ho potuto viverla ha riguardato ovviamente
le strutture operative, le branche di riferimento, le mutazioni
del contesto.
Quanto alle prime, stralcio quelle della specializzazione professionale,
costituita dagli uffici stampa e dalla carta stampata, cui poi si
sono affiancati gli uffici di pubbliche relazioni. La funzionalità
dei relativi organismi ha cambiato di dimensioni, ma non di obiettivi.
Questo complesso di servizi ha costituito sempre la protesi, molto
spesso primaria, degli organismi istituzionali, culturali, produttivi.
Tali servizi oggi si avvalgono di terminologie nuove per farsi conoscere.
E così si leggono parole come ala, dipartimento, assistente
della presidenza e così via. Si vuol far intendere che non
cè niente da nascondere, ma tutto da mettere in luce.
Carta stampata e televisione dal canto loro cercano di fare lo stesso
e si scambiano con la stessa fonte della notizia reciproche sollecitazioni.
Cè sempre la riservatezza e la deontologia professionale,
con il rigore e le deviazioni che si conoscono. Ma anche se i messaggi
che ne derivano si avvalgono di mezzi tecnici sempre più
sofisticati e coinvolgenti, il prossimo futuro non sta apparendo
molto diverso da quello che abbiamo alle spalle.
Del resto, il nuovo è sempre in agguato, ma non è
stato mai a portata di mano. Non crediamo perciò a mutazioni
radicali, quali quelle delle attese per il nuovo millennio. Quelle
che mi sembra ci debbano invece tenere allerta sono il crollo
del Muro di Berlino, lunione europea, il comportamento degli
altri continenti, a cominciare dagli Stati Uniti, che sono stati
sempre la nostra porta di casa.
E passo alle mie branche di riferimento. Ho avuto a che fare con
quella coloniale (ante guerra Africa Orientale), con quella corporativa,
con quella confindustriale, con quella direttoriale giornalistica,
con quella della convivenza organizzativa con i più grandi
nostri ambasciatori del secolo scorso, con un sodalizio di cosiddetta
élite, quello rotariano (Milano e Roma).
Alla mia età più che le esperienze valgono per esse
i ricordi, che a loro volta possono essere analitici perché
la memoria quando vuole fa miracoli o di larga massima. Orbene,
per quanto concerne il mio momento colonialistico, esso ha a che
fare con il mio ingresso alla Sapienza di Roma nel 1927 quale matricola
della facoltà di giurisprudenza. Mi accorsi che nellorganizzazione
degli universitari cera una lacuna da colmare ed era appunto
quella coloniale. Vi era infatti un gruppo universitario di studi
sulla Società delle Nazioni, vi era una sezione Aeronautica,
e naturalmente una Sportiva. Vera però una lapide,
che ricordava lo studente universitario Dino Brunori, morto a Misurata
nel 1911.
Vera pure un Rettore che si chiamava Giorgio Del Vecchio,
impegnato nella ricerca di sempre nuovi spazi, e che perciò
mi fu prodigo di appoggi. Vera altresì un ministero
delle Colonie, il cui ministro era aperto anche ai giovani, si chiamava
Luigi Federzoni, già giornalista. Mi definì «acino
di pepe». Gli deve essere stato facile perché li aspettava.
I miei ricordi di quegli anni, con le benemerenze che mi furono
riconosciute e da me ritenute dovutemi, tradotte in unonorificenza
ad altri a me affiancatisi, concessa per loro motu proprio e da
me ottenuta, con successivo mio motu proprio unicamente perché
da me ritenuta riparatrice. Mi è stata poi sempre indifferente,
perché non ne sono mai stato ricercatore. Per il loro conseguimento
occorre una vera e propria militanza che non mi è mai piaciuta.
Il mio colonialismo è cessato quando sono arrivate le moltitudini
provocate dallIm-pero. Come spinta al mio giornalismo vera
stata la richiesta di un mio articolo da parte di un periodico che
nel 1927 si denominava Le Vie dellImpero. Ma queste vie devono
essere state molto lunghe, perché ci sono voluti nove anni
per arrivare al cosiddetto Impero.
Mussolini ebbe a dire che lItalia aveva pazientato 50 anni,
e le folle oceaniche cominciarono ad essere più fitte, perché
lorganizzazione promozionale cominciò ad essere più
rigorosa.
Il mio momento corporativo lho
vissuto alla Confederazione dei lavoratori del commercio dal febbraio
1935 allaprile del 1938. Vi fui accolto perché cercavano
giovani qualificati per funzioni nel nascente ufficio corporativo.
Vi fui accolto però con la mia profonda delusione sulla misura
del modestissimo stipendio e con il previsto isolamento di otto
ore giornaliere dietro una scrivania. Il sabato fascista era ancora
di là da venire. La mia impressione di allora era che il
corporatismo fosse una sorta di lotta di classe gestita dallo Stato
per conto dei lavoratori. Più tardi un mio collega di allora
divenuto nel frattempo uno dei dirigenti dellIri (ed io avevo
avuto la ventura di aver posto delle premesse per questo suo avanzamento)
mi disse che la lotta di classe era gestita per conto delle aziende.
Le visuali sono sempre tante e i paesaggi se ne avvantaggiano. Nelle
organizzazioni cera sempre molto fervore di propositi ed anche
di proposte. E chi dirige vi imparava. Credo che ciò debba
verificarsi ovunque. Valeva in passato, non potrà non avvenire
nel futuro. Uno statista, tale non solo per lItalia degli
inizi degli anni Venti, ma anche per il capo della Cina di quegli
anni che lo volle come consulente economico al suo fianco, qualche
anno prima di morire ebbe a dirmi che aveva avuto nella vita la
fortuna di essere sempre contemporaneamente insegnante e allievo.
E una variante del volere tenere sempre e a tutti i costi
gli occhi aperti.
Il mio momento confindustriale (1938-1977),
durante il quale ho appreso la pratica dei valori liberali, di un
capitalismo dal volto umano (per me essere stato collaboratore di
un presidente come Angelo Costa, e non mi dilungo sulla sua vita
perché con Alcide De Gasperi, Einaudi, Di Vittorio è
stato motore della ripresa economica italiana del secondo dopoguerra
del secolo scorso, è stato un mezzo di apprendimento di questa
verità). Ed ancora ho appreso il linguaggio umano da avere
con i lavoratori.
Costa era, allora, ma per sempre, a favore di un sindacato unitario
forte. Dal confronto doveva nascere lintesa. Un pioniere perciò
anche per gli anni che ci sono dinanzi.
Cera perciò in noi della Confindustria limpegno
per la difesa dellimpresa tutta intera, nella convinzione
del bene che essa garantiva al Paese tutto, a cominciare dagli stessi
lavoratori. Con questo intento Costa fondò la Gazzetta per
i Lavoratori (ripeto, per e non dei lavoratori), di cui mi offrì
la direzione. Ricevevo, è vero, anche lettere che da Sesto
S. Giovanni mi minacciavano di buttarmi nelle loro caldaie, ma il
dialogo con loro era fittissimo per la reciproca comprensione e
fra laltro per lelevamento tecnico delle maestranze
ovunque dislocate, nelle grandi come nelle piccole imprese.
Questa immagine è stata sempre evidenziata. Ha dato luogo
a forme di più attiva presenza presso lopinione pubblica,
quando le si sovrapponevano strumentali pregiudizi. E la burocrazia
interna ne è stata sempre interprete, silenziosa per abitudine,
ma netta e recisa in ogni forma di comunicazione.
Chi scrive ha avuto la ventura di esserne, in campo giornalistico,
un operatore fra laltro quale direttore dellAGA, agenzia
giornalistica che integrava con i suoi servizi quelli di 20 quotidiani
delle Associazioni industriali, quale corrispondente da Roma e poi
direttore del maggiore quotidiano economico dEuropa, allora
centenario, Il Sole.
In questi campi Confindustria come si dice adesso
doveva significare rinnovamento, massima comunicabilità allinterno
e verso lesterno, umana e professionale convergenza nei vari
gradini interni. Tanti modelli di azienda praticati in proprio,
come punto di riferimento.
Sono passate le generazioni, sta trascorrendo la mia ora di quasi
sconosciuto nellambito della Confindustria, della quale un
computer mi manda ancora linvito alle Assemblee annuali e
un altro computer sa solo di me che sono stato nel 1946 direttore
della Gazzetta per i Lavoratori. Daltra parte, sic transit,
ecc. e questa verità riguarda anche certe tardigrade illusioni,
che non hanno nulla a che fare con il mio tanto consolidato pessimismo,
con il quale come tutti sanno fra laltro si sbaglia di meno.
E fin qui vi ho parlato di identità esterne a me, sulle quali
io mi sono sempre appoggiato. Anchesse segno di un secolo
che sta dicendo deve dire qualcosa almeno per i prossimi
decenni.
Il mio momento paradiplomatico: sì,
solo ai margini, in quanto durante la mia lunga operatività
confindustriale, nella fase in cui mi fu attribuita la responsabilità
esecutiva dellinformazione politica esterna, mi fu dato di
affiancarle e di organizzare lazione dei maggiori ambasciatori
del secolo nel campo dello studio e approfondimento della nostra
politica estera.
Esperienze, confronti, critiche, che si realizzarono con i da me
suggeriti Dialoghi diplomatici e Dibattiti mensili.
Me ne parlò Luca Pietromarchi, che si era accordato con i
due altri promotori, e cioè Pietro Quaroni e Cristoforo Fracassi.
Al Circolo aderirono una quindicina di ambasciatori in pensione
e a mano a mano gli altri che vi entravano. Uno degli ultimi fu
Egidio Ortona, che poco tempo prima aveva lasciato la titolarità
dellAmbasciata negli Stati Uniti.
In questo circolo si è svolto un fervido, positivo lavoro,
di cui oggi è traccia nella storiografia stampata che ne
è derivata. Naturalmente anche io ho la mia parte, modesta,
di compiacimento con me stesso. Ne ricordo soprattutto laffiatamento,
del quale ho beneficiato anchio, pure indebitamente. Ricordo
un «Ah, Pistolese» di Dino Grandi ad un Convegno promosso
dal Circolo a Venezia nellisola S. Giorgio di Cini, al quale
intervenne anche Grandi, che teneva a sottolineare la familiarità
con i suoi colleghi, memore della sua lunga missione a Londra. Ritenne
che vedendomi là ero stato anchio un collega. Nientemeno!
Lo strano, per me, è che certe simpatie nascono così.
E ricordo anche Manlio Brosio, che era stato fra laltro Segretario
Generale della Nato, dire scherzoso, presentandomi alla moglie:
«Questo è quello che ci comanda». E ricordo ancora
Pietro Quaroni che a conclusione di una mia esposizione ai dibattiti
(avevo allora pubblicato un volume sulleconomia della Spagna,
frutto di una mia indagine sul posto, senza alcun complesso ideologico
da mascherare che allora perdurando il franchismo taluni osservarono
ignorando la materia), ebbe a sollecitare altri miei interventi
in materia economica, dato che gli ambasciatori generalmente delegavano
le funzioni che la materia comportava. Daltra parte, si sa
che von Bulov diceva che un grande ambasciatore si distingue quando
firma una nota alla quale ha poco concorso e dalla quale può
essere anche in parte dissenziente.
Il mio momento rotariano iniziò nel 1962 a Milano da direttore
de Il Sole, con levidente compito di rappresentanza e di attiva
partecipazione negli ambienti soprattutto ad alto livello della
locale società, con riguardo al settore economico.
Trasferitomi nuovamente a Roma nel 1966 un altro Rotary mi ha accolto
fino al 1977, fra laltro con il frequente compito di riferire
e commentare sullattualità politica ed economica. Mi
è occorso anche e parlo del 1975 di dare un
contributo ad una pubblicazione curata dai Rotary della Capitale,
un volume dal titolo Il Rotary in un mondo
in trasformazione. Il tema affidato, Limpatto
economico della crisi delle istituzioni.
La mia immodesta soddisfazione è purtroppo che le critiche
e i rilievi di allora continuano ad essere attuali e ancora più
stringenti oggi, tantè che essendo usanza di molti
giornalisti quella di ripubblicare in momenti di necessità
alcuni loro articoli passati anche a me è capitato questa
insolita fortuna fino a qualche mese fa.
Forse cè una morale e non una speculazione politica
in ciò ed è questa: non ci manca la consapevolezza
delle priorità e dei loro sbocchi necessari. Anche se cambiamo
terminologie i problemi sono sempre quelli. Per il Mezzogiorno ad
esempio la Cassa di ieri e il tavolo di oggi mi dicono
la stessa cosa, ma è il risultato che perde o acquista più
smalto.
Per me Giustino Fortunato è più attuale oggi di quanto
non lo sia stato nellultimo Ottocento o nel primo Novecento.
Forse questa può essere la conclusione dei miei momenti
fin qui ricordati. Forse più contributi alla speranza che
ai fatti. Del resto, la realizzazione dei problemi arriva sempre
dopo. E come lintendenza per gli eserciti. Capita pure
che lintendenza sia più numerosa degli eserciti, perché
soprattutto in certi momenti burocrazia e politica si fanno sentire
di più. Ma su tutto ciò ognuno dice la sua. Ed a questo
quadro di momenti cè da fare una postilla. Riguarda
due tematiche fondamentali e cioè cultura e burocrazia. La
prima ha avuto a che fare con la tendenza monopolistica della sinistra,
con la struttura pubblicitaria da essa predisposta, con il vero
porta a porta che essa ha fatto presso lelettorato e sostituito
poi dalla pressione su radio e televisione. Si ricordino i tanti
temi, gli appelli, le firme, ecc. Anche oggi continuano ad esserci
con la stessa matrice. Lultima fatta ad alto livello concerne
naturalmente lottimismo sulle cose fatte.
Quanto poi alla burocrazia, la mia è quella da giornalista
nel contesto burocratico confindustriale. Ma questo era selettivo
perché privato. Di ciò, ed anche del mio curriculum,
non si avvide un nostro collega che allatto della mia assunzione
della direzione de Il Sole, mi definì funzionario della Confindustria.
Alla sua prima innocua similitudine ho fatto corrispondere una mia
nei suoi riguardi; come mai credeva di poter fare il garante di
un giornale nazionale essendovi per esso un direttore responsabile?
A proposito di burocrazia, concludo qui, non facciamo i prima ricordati
occhi di triglia alla conclusione del sondaggio Business International
Burocrazia, il primo nemico. Tutti infatti sappiamo quello che la
burocrazia non deve essere, ovunque essa sia.
La comunicazione:
in perenne ricerca del meglio
Sempre, gli sforzi per il meglio in questa materia hanno goduto
di unestrema priorità. Cera e cè
sempre da fare i conti con la voce del popolo. Con la sua partecipazione
o il suo assenteismo. Con questa o quella opzione di scelta nei
tanti campi che la comportano. Ma nella comunicazione dimportante
cè anche lanticipazione, come cè
pure un potere correttivo ed educativo.
Il giornalismo ne è stata sempre una fonte primaria, avendo
il suo principale Auditel nelle edicole e anche quello vero e proprio
o quello ancora dei cosiddetti osservatori.
E da aggiungere che le sollecitazioni che vengono da quote
estese di destinatari comportano anche un aggiornamento dello stesso
linguaggio e pure dellabbigliamento. Queste premono con notevole
forza e non tutto è da ricercare nel nuovo. Cè
pure certamente del vecchio da biasimare e da contenere. Lavvento
del computer, che è una protesi del cervello come
è stato acutamente definito , sta conseguendo sviluppi
che possono in talune espressioni costituire anche un segno allarmante.
Ad un bancario trentenne autolusingatosi operatore di tre computer
mi è capitato di dire che sarebbe stato molto più
bravo se avesse avuto dodici anni di età. Si sa che cè
un leader quarantenne, miliardario in dollari, la cui azienda si
appoggia a sedicenni operatori di computers.
E qui una domanda: dove arriveranno i cellulari? Si passerà
per essi anche allimpiego presso una selezionata specie animale?
Come si muoverà la scala delle localizzazioni delle masse,
piazze, stadi, discoteche, bar sportivi, circoli e branche di sport,
grossi condomini, gruppi volontariali, locali select e pure al lume
di candele, pizzerie, ecc.? E poi quartieri caratteristici perché
antichi, quartieri periferici con mestieri generalmente di difficile
reperibilità, linguaggi convenzionali e così via?
E che ne è e sarà dellabbigliamento? Mi auguro
che quello che abbiamo sotto gli occhi per uomini e donne sia in
una fase transitoria, di passaggio. Con il colore che è quello
che è. Con le selezioni tessili che nascono dai computers?
Con i supermarkets che ti impongono la scelta e pure la subiscono,
perché sono ansiosi di saper qual è o potrà
essere?
Sondaggi e questionari giganteggiano, perché il culto della
dimensione, da noi e dagli altri importato dagli Stati Uniti, ci
fa sperare che siamo in linea con il domani. Cè anche
un certo giornalismo che mi sembra trainato, anziché trainante.
Cerca infatti di interpretare al meglio quello che cè.
Penso purtroppo che i comunicatori maggiori oggi siano i pubblicitari,
forse affiancati dai fotografi, da quelli dei calendari, dalla stessa
televisione, il cui slogan pubblicitario è quello di far
capire che in un abbonamento cè non solo una persona,
ma tanti. Ma cè anche uninverosimile cromatica
accanto alla quale figurano suggestioni da Terzo Mondo.
Nei primi dei quiz di Bongiorno collegati internazionalmente feci
domandare alla RAI se i suoi collegamenti riguardassero la sola
Albania. Mi sembrava infatti che comunicassimo solo con questo Paese,
che oggi si collega a noi perché, come si sa, ci crede la
sua America doggi, per giunta vicina.
Siamo, dunque, oggi messi così con la comunicazione. Che
devo e posso dire da veterano? Cerchiamo di rispondere al meglio
ai grandi interrogativi che ci sono di fronte. Scambiamoci perciò
gli auguri.
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