Giugno 2000

MEMORIE DEL SECOLO

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Nuovi linguaggi
per antichi segni
Gennaro Pistolese
 
 

 

 

 

L’avvento
del computer,
che è una protesi
del cervello,
sta conseguendo
sviluppi che possono in talune espressioni costituire anche un segno allarmante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Chi anche questa volta scrive, essendo nato nel 1909 e avendo fatto dal 1928 sempre il giornalista, vi ha riferito – come sapete – sulle vicende del secolo scorso, che in lui si sono tradotte in ricordi di attiva presenza. Ne ho tratto la conclusione che tutto il ‘900 si è caratterizzato con una serie di anni difficili, sempre previsti dai migliori, e con rapide fasi di evoluzione e di involuzione. D’altra parte, questo è stato sempre il destino dei popoli e della storia che lo ha interpretato, rifacendosi però più alla sua epoca che non a quella dei fatti. D’altronde, si sa che la storia è sempre contemporanea.
Ho avuto occasione di scrivere su queste pagine che, a mio modo di vedere, le società e i loro momenti si sono sempre distinti con l’immagine, e cioè il costume e il linguaggio, sempre con richiami del passato e sollecitazioni dell’avvenire.
Naturalmente però il secolo scorso si è qualificato così. Altrettanto si delinea quello da poco iniziato. Riconosciamo però a questo un ritmo più accelerato, che del resto già aveva cominciato a manifestarsi nell’ultimo decennio del Novecento.

Tre stelle polari

Singolare è per me che questa tematica io debba affrontarla anche e soprattutto con la memoria.
Il Duemila si è annunziato con il “bug”, e cioè le sorprese della tecnologia e quelle pure sconcertanti di Internet, ma la tecnica è stata in perenne stato di gravidanza e maternità per tutto il secolo scorso.
Il Duemila sta balbettando anche un linguaggio nuovo, ma anch’esso è stato preparato dai vari decenni dello scorso secolo.
Il Duemila si manifesta anche con un nuovo costume: ma l’onor del mento che ritorna di moda, sia pur con la sorta di giardinaggio consentito dai trilama di oggi, è lo stesso dell’ultimo Ottocento e primo Novecento; con un linguaggio al tempo stesso innovativo e tradizionale, perché solo ritenuto liberatorio; con un’immagine esteriore che ad esempio per la donna da esibizione è passata dalla “canzonettista” o “cocotte” del primo Novecento al calendario di fine secolo scorso.
Tre stelle polari, così, per ieri, per oggi, per domani: tecnologia, immagine, comunicazione.
Ma prima di affrontare esperienze anche personali di affinità con tre fattori dominanti nel Duemila, quali appunto tecnologia, identità, comunicazione, non mi sembra fuori luogo richiamare la mia posizione nominalistica, che sta accompagnando le nuove sollecitazioni e le nuove espressioni istituzionali, normative, dottrinarie, culturali. Ogni epoca ha avuto le sue. Ma quella che comincia ad essere sotto i nostri occhi più o meno attenti è certamente più stringente. E ciò anche perché abbiamo a che fare con una dimensione mai pensabile nel passato. Astrale da una parte, globale dall’altra.
C’erano prima i continenti e le metropoli. Ora c’è il villaggio globale. Prima c’era il capitalismo con un’aggettivazione che lo contestava mediante la lotta di classe, ora c’è il capitalismo selvaggio, che comporta un nuovo “welfare”, e questa è una primazia fuori discussione, ma sempre da definire nella persona destinataria.
Prima c’era un capitalismo che pur creando era perlomeno formalistico, oggi c’è uno che dichiara di disporre di un proprio portale, di poter rivendicare lo spazio dovuto alla sua preminenza mercantile. Prima c’era il disoccupato che dichiarava, da impreparato quale sapeva di essere, atto a qualsiasi genere di occupazione, ora c’è il sommerso che evita il sindacato e si concentra nello sforzo di divenire padroncino.
Ci sono poi Stati che si preoccupano più di istituire dicasteri e dipartimenti che non posti di lavoro.
C’è una normativa comunitaria che tende ad essere sempre più articolata, ma dispone di supporti operativi nei Paesi partecipanti che molto spesso hanno il fiato corto, perché la diagnostica comunitaria non è ancora entrata in orbita.
Scuola, bioetica, sanità, “fondamentali”, cifre, le sollecitazioni del nuovo lievitano dai più elevati ai più bassi livelli istituzionali. Così istituti, come ad esempio l’Onu e pure la Fao sono in fase diciamo di riflessione e altri istituti maturi o immaturi acquistano maggiore dimensione.
Poniamo sotto gli occhi queste realtà e valutiamo le nostre personali considerazioni: Euro, Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi dell’Est, Continente asiatico, Australia, Africa, ecc. Fermiamoci qui, perché ognuno ha la sua ricetta da proporre e si vanta di non essere ascoltato.
Anche il grado di illusione suscitato dalle cifre se diminuisce negli organismi internazionali, ha sorte diversa là dove si teme o subisce il sopravvento del vecchio o della instabilità. E così mentre la tecnologia dispone della ricerca, la politica è portata a condannare ideologie, che invece continuano a restare sotto pelle.

Tecnologia medio-alta

Questa credo che possa essere la mia: per “conoscenza dei fatti”, come si dice adesso per ben diverse testimonianze, o addirittura pure come soggetto. La prima, quale capo dell’Ufficio Stampa e Studi della Federazione Nazionale degli Artigiani aderente alla Confindustria dal 1938 al 1944.
Questi sono anche gli anni di Mussolini, pure miei, in quanto come ho scritto altre volte, avendo il mio ufficio sotto i “merli” del Palazzo delle Assicurazioni in Piazza Venezia e quindi dirimpettaio del più famoso Palazzo Venezia sono stato... coinquilino di Mussolini, di quello che, con la sua poliedricità – chiamiamola pure così – passava «dalla letteratura alla tecnica».
«Voleva essere anche salma ad un funerale»: così hanno scritto di lui, rilevandone la pratica intransigente del culto della propria contraddittoria personalità.
E’ stato sempre scritto di lui che è stato un giornalista geniale, accompagnandone la definizione con tante altre: una lunga serie di contemporanei, paralleli segni in più e in meno.
Egli è comunque passato dal fez e prima bombetta all’elmo germanico indossato per sottrarsi alla sua fine, che invece gli stava già addosso. Il mio legame con la tecnica ha invece avuto un contenuto diverso.
E’ stato quello dell’ENAPI, un ente che era stato creato nell’ambito dell’Artigianato per assistere tecnicamente, commercialmente, artisticamente gli artigiani, e cioè i più numerosi titolari di brevetti in Italia, che per inventare di tutto hanno bisogno di assistenza. E questa la trovano, l’hanno trovata in tutto il secolo scorso le nostre piccole imprese, suscitando e indirizzando lavoro, essendo state i primi creatori del Made in Italy.
Anch’io per molti anni, e in altra veste fino al 1985, li ho praticati, incoraggiati, spesso indirizzati.
Li ho pure criticati, e mi è occorso anche di dover ascoltare l’interrogativo di protesta: «Secondo lei, l’artigianato deve morire?». O, invece con la sua vita c’era e c’è stata anche parte della mia? E talune testimonianze di queste creazioni sono pure presso di me e mi tengono compagnia. Una sorta d’antiquariato che mi accompagna all’altitudine anagrafica, come è stata definita da un nostro collega con il quale condivido l’anno di nascita.
Ma come soggetto in campo della tecnica qualche contributo, anche non secondario, mi è stato di dare come creatore nel 1960 della prima Teleborsa italiana. Nel giugno-agosto di quell’anno l’avevo vista a Wall Street, essendo stato invitato quale giornalista economico di spicco (una motivazione ufficiale di pura formalità burocratica, sempre indifferente a noi giornalisti) dal Dipartimento di Stato Usa ad un soggiorno di tre mesi di studio e di approfondimento. Mi fu detto allora – ma me ne vanto, con me stesso, solo adesso – che ero stato uno dei più impegnati. Perciò la mia qualità di creatore della prima Teleborsa italiana è quella non di ideatore, ma di semplice importatore, un importatore che ha avuto in Italia la ventura di parlarne con il Cav. del Lavoro Raoul Chiodelli, già direttore generale dell’EIAR, poi della Compagnia Marconi, quindi di Radio Stampa.
Un grande realizzatore, senza il quale Teleborsa, protrattasi anche con me fino al 1995, non sarebbe sorta. Sarebbero ovviamente nate altre Teleborse. Ma nella prima ho avuto la ventura di farci entrare anche le mie mani, con questa subalterna motivazione.
Altri tentativi diretti che possono entrare in questa materia riguardano l’incrocio della figura del direttore di testata con quella dell’editore. E così mi è occorso di promuovere all’indomani del referendum del ‘46 un settimanale dal titolo certamente anticipatore per quei tempi Import Export, formato quaderno copiato dal Panorama di Domus, formato poi del Reader Digest, ma sfortunato anticipatore allora. L’editore era più convinto di me, anche nelle avversità del momento, tant’è che sua moglie venne a pregarmi di scoraggiare il marito. Egli tuttavia continuò a mantenere, anzi ad accrescere la sua fiducia in me, tant’è che, acquistato Il Globo, me ne offrì la direzione. La rifiutai perché ne intravedevo la precarietà, tant’è che presto il giornale passava di proprietà. Ho avuto tanto da questo editore che aveva l’occhio aperto e al quale purtroppo poco ho dato, accogliendo solo negli ultimi anni la collaborazione di articolista che mi offriva.
Aveva cominciato da tipografo in un locale di Piazza Navona, della quale egli mi ha sempre ritenuto frequentatore, ragazzino fra i futuristi, gli scrittori, i nazionalisti, i fascisti addirittura ante marcia. Io non c’ero, ma lui l’ha sempre pensato, anche se io gliel’ho sempre smentito. Nell’umana esistenza ci sono anche questi fatti, derivanti da un’immaginazione che fa piacere.
Un altro ricordo che mi colloca in questa angolazione riguarda la creazione nel 1932 di un’agenzia giornalistica dal titolo L’Espansione Economica, collegata con una rivista molto nota in quegli anni dal titolo La Rassegna Italiana. Quando il suo direttore, che si chiamava Tomaso Sillani (egli teneva molto ad una m sola nel nome), telefonava a me assente, la mia domestica friulana, senza alcuna intenzione politica, mi diceva che mi aveva cercato il direttore della rassegnazione italiana. Siamo nel ‘32 e il ‘43 era molto lontano, ma i tempi degli apprendimenti e delle consuetudini sono quelli che sono. Fra l’altro ricordare l’espansione economica di allora e la globalizzazione di oggi, e poterli confrontare nella stessa esistenza, lascia sbigottiti. Del Presidente dell’ICE di allora, che era ligure e poi divenne ministro delle Corporazioni, mi fu detto che l’agenzia gli piaceva, ma non faceva per essa gli occhi di triglia. Chissà perché mettesse di mezzo la pesca, forse per farmi intendere che era prevalentemente pratico. La cosa non mi impressionò, perché un altro ministro, alla cui rivista collaboravo in materia economica, ebbe a dirmi che o la rivoluzione si faceva là, dove egli era, e si trattava dell’Agricoltura, o non si sarebbe fatta mai.
Allora in tempo di rivoluzione permanente – così si chiamava – i commenti si facevano con queste parole. Ora in democrazia si fanno con intendimenti e promesse. Taluni dicono elettorali.
Da questa agenzia nacque poi il volume di celebrazione del ventennio della nostra colonizzazione della Libia. Del volume sono stato promotore e in parte anche curatore, ma a presentarlo al Re fu, come era sua peculiare consuetudine, il Sillani. Un nostro collega, fiorentino, mi disse che era opportuno che come a quei tempi c’era un Piperno al Corso, così ci doveva essere un Tomaso Sillani ricevuto dal Re. Io per lui penserei invece ad un sempreverde. Perché il dopoguerra gli aveva suggerito di abbandonare la rivista, ma di promuovere sempre con gli stessi appoggi un Centro di Riconciliazione Internazionale. Le riconciliazioni fanno sempre comodo; come si sa, perché rendono possibile la coesistenza, anzi la remunerazione del vecchio e del nuovo.
E’ così che i tanti contributi umanitari nascono e muoiono. Sono, come si sa, modesti o forzati, ma un mio zio a chi gli chiedeva di alzare in una sua conferenza il tono di voce ebbe a rispondere: «Vi do quello che ho». Nella mia famiglia ne hanno parlato, a mo’ di esempio, per vari decenni.


L’identità:
ne hanno fatto perfino una carta


L’identità, valore essenziale ma pure mutevole perché fattore e conseguenza del progresso, è stata ed è una fondamentale corsa ad ostacoli. Stati e popoli ne perfezionano costantemente il volto. Altrettanto fanno generazioni e individui.
Il Novecento ci ha lasciato quella che conosciamo. Quella cioè più elementare per noi: la carta d’identità, con il significato da attribuire ai fattori anagrafici.
Tutto il secolo ha avuto a che fare con due grandi guerre, con due rivoluzioni di ottobre, con l’accelerazione delle grandi scoperte, a cominciare da quelle del volo umano, con le grandi migrazioni dalle quali sono scaturite nuove fusioni etniche e combinazioni di lavoro e di integrazioni produttive e mercantili, con le contestazioni, con il sopravvento di nuove forme di consumo. Talune di queste sono state improntate alla cosiddetta maggiore sincerità e spontaneità, in avversione a moduli ritenuti a ragione o a torto limitativi della personalità. Tutto ciò si è riversato sulle varie scelte ed anche – come abbiamo già avuto modo di osservare – non solo nel linguaggio (fra la generalizzazione del termine operatore), ma anche nelle personali attitudini di individui e di gruppi. Ognuno, sapendo o non sapendo fare, sta rivedendo i suoi rapporti con la società. Ed è nella natura umana il dover continuare a farlo.
Il fattore identità nel mio secolo e dall’angolazione dalla quale come giornalista ho potuto viverla ha riguardato ovviamente le strutture operative, le branche di riferimento, le mutazioni del contesto.
Quanto alle prime, stralcio quelle della specializzazione professionale, costituita dagli uffici stampa e dalla carta stampata, cui poi si sono affiancati gli uffici di pubbliche relazioni. La funzionalità dei relativi organismi ha cambiato di dimensioni, ma non di obiettivi. Questo complesso di servizi ha costituito sempre la protesi, molto spesso primaria, degli organismi istituzionali, culturali, produttivi.
Tali servizi oggi si avvalgono di terminologie nuove per farsi conoscere. E così si leggono parole come ala, dipartimento, assistente della presidenza e così via. Si vuol far intendere che non c’è niente da nascondere, ma tutto da mettere in luce. Carta stampata e televisione dal canto loro cercano di fare lo stesso e si scambiano con la stessa fonte della notizia reciproche sollecitazioni.
C’è sempre la riservatezza e la deontologia professionale, con il rigore e le deviazioni che si conoscono. Ma anche se i messaggi che ne derivano si avvalgono di mezzi tecnici sempre più sofisticati e coinvolgenti, il prossimo futuro non sta apparendo molto diverso da quello che abbiamo alle spalle.
Del resto, il nuovo è sempre in agguato, ma non è stato mai a portata di mano. Non crediamo perciò a mutazioni radicali, quali quelle delle attese per il nuovo millennio. Quelle che mi sembra ci debbano invece tenere all’erta sono il crollo del Muro di Berlino, l’unione europea, il comportamento degli altri continenti, a cominciare dagli Stati Uniti, che sono stati sempre la nostra porta di casa.
E passo alle mie branche di riferimento. Ho avuto a che fare con quella coloniale (ante guerra Africa Orientale), con quella corporativa, con quella confindustriale, con quella direttoriale giornalistica, con quella della convivenza organizzativa con i più grandi nostri ambasciatori del secolo scorso, con un sodalizio di cosiddetta élite, quello rotariano (Milano e Roma).
Alla mia età più che le esperienze valgono per esse i ricordi, che a loro volta possono essere analitici – perché la memoria quando vuole fa miracoli – o di larga massima. Orbene, per quanto concerne il mio momento colonialistico, esso ha a che fare con il mio ingresso alla Sapienza di Roma nel 1927 quale matricola della facoltà di giurisprudenza. Mi accorsi che nell’organizzazione degli universitari c’era una lacuna da colmare ed era appunto quella coloniale. Vi era infatti un gruppo universitario di studi sulla Società delle Nazioni, vi era una sezione Aeronautica, e naturalmente una Sportiva. V’era però una lapide, che ricordava lo studente universitario Dino Brunori, morto a Misurata nel 1911.
V’era pure un Rettore che si chiamava Giorgio Del Vecchio, impegnato nella ricerca di sempre nuovi spazi, e che perciò mi fu prodigo di appoggi. V’era altresì un ministero delle Colonie, il cui ministro era aperto anche ai giovani, si chiamava Luigi Federzoni, già giornalista. Mi definì «acino di pepe». Gli deve essere stato facile perché li aspettava. I miei ricordi di quegli anni, con le benemerenze che mi furono riconosciute e da me ritenute dovutemi, tradotte in un’onorificenza ad altri a me affiancatisi, concessa per loro motu proprio e da me ottenuta, con successivo mio motu proprio unicamente perché da me ritenuta riparatrice. Mi è stata poi sempre indifferente, perché non ne sono mai stato ricercatore. Per il loro conseguimento occorre una vera e propria militanza che non mi è mai piaciuta.
Il mio colonialismo è cessato quando sono arrivate le moltitudini provocate dall’Im-pero. Come spinta al mio giornalismo v’era stata la richiesta di un mio articolo da parte di un periodico che nel 1927 si denominava Le Vie dell’Impero. Ma queste vie devono essere state molto lunghe, perché ci sono voluti nove anni per arrivare al cosiddetto Impero.
Mussolini ebbe a dire che l’Italia aveva pazientato 50 anni, e le folle oceaniche cominciarono ad essere più fitte, perché l’organizzazione promozionale cominciò ad essere più rigorosa.

Il mio momento corporativo l’ho vissuto alla Confederazione dei lavoratori del commercio dal febbraio 1935 all’aprile del 1938. Vi fui accolto perché cercavano giovani qualificati per funzioni nel nascente ufficio corporativo. Vi fui accolto però con la mia profonda delusione sulla misura del modestissimo stipendio e con il previsto isolamento di otto ore giornaliere dietro una scrivania. Il sabato fascista era ancora di là da venire. La mia impressione di allora era che il corporatismo fosse una sorta di lotta di classe gestita dallo Stato per conto dei lavoratori. Più tardi un mio collega di allora divenuto nel frattempo uno dei dirigenti dell’Iri (ed io avevo avuto la ventura di aver posto delle premesse per questo suo avanzamento) mi disse che la lotta di classe era gestita per conto delle aziende. Le visuali sono sempre tante e i paesaggi se ne avvantaggiano. Nelle organizzazioni c’era sempre molto fervore di propositi ed anche di proposte. E chi dirige vi imparava. Credo che ciò debba verificarsi ovunque. Valeva in passato, non potrà non avvenire nel futuro. Uno statista, tale non solo per l’Italia degli inizi degli anni Venti, ma anche per il capo della Cina di quegli anni che lo volle come consulente economico al suo fianco, qualche anno prima di morire ebbe a dirmi che aveva avuto nella vita la fortuna di essere sempre contemporaneamente insegnante e allievo. E’ una variante del volere tenere sempre e a tutti i costi gli occhi aperti.
Il mio momento confindustriale (1938-1977), durante il quale ho appreso la pratica dei valori liberali, di un capitalismo dal volto umano (per me essere stato collaboratore di un presidente come Angelo Costa, e non mi dilungo sulla sua vita perché con Alcide De Gasperi, Einaudi, Di Vittorio è stato motore della ripresa economica italiana del secondo dopoguerra del secolo scorso, è stato un mezzo di apprendimento di questa verità). Ed ancora ho appreso il linguaggio umano da avere con i lavoratori.
Costa era, allora, ma per sempre, a favore di un sindacato unitario forte. Dal confronto doveva nascere l’intesa. Un pioniere perciò anche per gli anni che ci sono dinanzi.
C’era perciò in noi della Confindustria l’impegno per la difesa dell’impresa tutta intera, nella convinzione del bene che essa garantiva al Paese tutto, a cominciare dagli stessi lavoratori. Con questo intento Costa fondò la Gazzetta per i Lavoratori (ripeto, per e non dei lavoratori), di cui mi offrì la direzione. Ricevevo, è vero, anche lettere che da Sesto S. Giovanni mi minacciavano di buttarmi nelle loro caldaie, ma il dialogo con loro era fittissimo per la reciproca comprensione e fra l’altro per l’elevamento tecnico delle maestranze ovunque dislocate, nelle grandi come nelle piccole imprese.
Questa immagine è stata sempre evidenziata. Ha dato luogo a forme di più attiva presenza presso l’opinione pubblica, quando le si sovrapponevano strumentali pregiudizi. E la burocrazia interna ne è stata sempre interprete, silenziosa per abitudine, ma netta e recisa in ogni forma di comunicazione.
Chi scrive ha avuto la ventura di esserne, in campo giornalistico, un operatore fra l’altro quale direttore dell’AGA, agenzia giornalistica che integrava con i suoi servizi quelli di 20 quotidiani delle Associazioni industriali, quale corrispondente da Roma e poi direttore del maggiore quotidiano economico d’Europa, allora centenario, Il Sole.
In questi campi Confindustria – come si dice adesso – doveva significare rinnovamento, massima comunicabilità all’interno e verso l’esterno, umana e professionale convergenza nei vari gradini interni. Tanti modelli di azienda praticati in proprio, come punto di riferimento.
Sono passate le generazioni, sta trascorrendo la mia ora di quasi sconosciuto nell’ambito della Confindustria, della quale un computer mi manda ancora l’invito alle Assemblee annuali e un altro computer sa solo di me che sono stato nel 1946 direttore della Gazzetta per i Lavoratori. D’altra parte, sic transit, ecc. e questa verità riguarda anche certe tardigrade illusioni, che non hanno nulla a che fare con il mio tanto consolidato pessimismo, con il quale come tutti sanno fra l’altro si sbaglia di meno.
E fin qui vi ho parlato di identità esterne a me, sulle quali io mi sono sempre appoggiato. Anch’esse segno di un secolo che sta dicendo – deve dire – qualcosa almeno per i prossimi decenni.
Il mio momento paradiplomatico: sì, solo ai margini, in quanto durante la mia lunga operatività confindustriale, nella fase in cui mi fu attribuita la responsabilità esecutiva dell’informazione politica esterna, mi fu dato di affiancarle e di organizzare l’azione dei maggiori ambasciatori del secolo nel campo dello studio e approfondimento della nostra politica estera.
Esperienze, confronti, critiche, che si realizzarono con i da me suggeriti Dialoghi diplomatici e Dibattiti mensili.
Me ne parlò Luca Pietromarchi, che si era accordato con i due altri promotori, e cioè Pietro Quaroni e Cristoforo Fracassi.
Al Circolo aderirono una quindicina di ambasciatori in pensione e a mano a mano gli altri che vi entravano. Uno degli ultimi fu Egidio Ortona, che poco tempo prima aveva lasciato la titolarità dell’Ambasciata negli Stati Uniti.
In questo circolo si è svolto un fervido, positivo lavoro, di cui oggi è traccia nella storiografia stampata che ne è derivata. Naturalmente anche io ho la mia parte, modesta, di compiacimento con me stesso. Ne ricordo soprattutto l’affiatamento, del quale ho beneficiato anch’io, pure indebitamente. Ricordo un «Ah, Pistolese» di Dino Grandi ad un Convegno promosso dal Circolo a Venezia nell’isola S. Giorgio di Cini, al quale intervenne anche Grandi, che teneva a sottolineare la familiarità con i suoi colleghi, memore della sua lunga missione a Londra. Ritenne che vedendomi là ero stato anch’io un collega. Nientemeno! Lo strano, per me, è che certe simpatie nascono così.
E ricordo anche Manlio Brosio, che era stato fra l’altro Segretario Generale della Nato, dire scherzoso, presentandomi alla moglie: «Questo è quello che ci comanda». E ricordo ancora Pietro Quaroni che a conclusione di una mia esposizione ai dibattiti (avevo allora pubblicato un volume sull’economia della Spagna, frutto di una mia indagine sul posto, senza alcun complesso ideologico da mascherare che allora perdurando il franchismo taluni osservarono ignorando la materia), ebbe a sollecitare altri miei interventi in materia economica, dato che gli ambasciatori generalmente delegavano le funzioni che la materia comportava. D’altra parte, si sa che von Bulov diceva che un grande ambasciatore si distingue quando firma una nota alla quale ha poco concorso e dalla quale può essere anche in parte dissenziente.
Il mio momento rotariano iniziò nel 1962 a Milano da direttore de Il Sole, con l’evidente compito di rappresentanza e di attiva partecipazione negli ambienti soprattutto ad alto livello della locale società, con riguardo al settore economico.

Trasferitomi nuovamente a Roma nel 1966 un altro Rotary mi ha accolto fino al 1977, fra l’altro con il frequente compito di riferire e commentare sull’attualità politica ed economica. Mi è occorso anche – e parlo del 1975 – di dare un contributo ad una pubblicazione curata dai Rotary della Capitale, un volume dal titolo Il Rotary in un mondo in trasformazione. Il tema affidato, “L’impatto economico della crisi delle istituzioni”.
La mia immodesta soddisfazione è purtroppo che le critiche e i rilievi di allora continuano ad essere attuali e ancora più stringenti oggi, tant’è che essendo usanza di molti giornalisti quella di ripubblicare in momenti di necessità alcuni loro articoli passati anche a me è capitato questa insolita fortuna fino a qualche mese fa.
Forse c’è una morale e non una speculazione politica in ciò ed è questa: non ci manca la consapevolezza delle priorità e dei loro sbocchi necessari. Anche se cambiamo terminologie i problemi sono sempre quelli. Per il Mezzogiorno ad esempio la Cassa di ieri e il “tavolo” di oggi mi dicono la stessa cosa, ma è il risultato che perde o acquista più smalto.
Per me Giustino Fortunato è più attuale oggi di quanto non lo sia stato nell’ultimo Ottocento o nel primo Novecento.
Forse questa può essere la conclusione dei miei “momenti” fin qui ricordati. Forse più contributi alla speranza che ai fatti. Del resto, la realizzazione dei problemi arriva sempre dopo. E’ come l’intendenza per gli eserciti. Capita pure che l’intendenza sia più numerosa degli eserciti, perché soprattutto in certi momenti burocrazia e politica si fanno sentire di più. Ma su tutto ciò ognuno dice la sua. Ed a questo quadro di momenti c’è da fare una postilla. Riguarda due tematiche fondamentali e cioè cultura e burocrazia. La prima ha avuto a che fare con la tendenza monopolistica della sinistra, con la struttura pubblicitaria da essa predisposta, con il vero porta a porta che essa ha fatto presso l’elettorato e sostituito poi dalla pressione su radio e televisione. Si ricordino i tanti temi, gli appelli, le firme, ecc. Anche oggi continuano ad esserci con la stessa matrice. L’ultima fatta ad alto livello concerne naturalmente l’ottimismo sulle cose fatte.
Quanto poi alla burocrazia, la mia è quella da giornalista nel contesto burocratico confindustriale. Ma questo era selettivo perché privato. Di ciò, ed anche del mio curriculum, non si avvide un nostro collega che all’atto della mia assunzione della direzione de Il Sole, mi definì funzionario della Confindustria. Alla sua prima innocua similitudine ho fatto corrispondere una mia nei suoi riguardi; come mai credeva di poter fare il garante di un giornale nazionale essendovi per esso un direttore responsabile?
A proposito di burocrazia, concludo qui, non facciamo i prima ricordati occhi di triglia alla conclusione del sondaggio Business International Burocrazia, il primo nemico. Tutti infatti sappiamo quello che la burocrazia non deve essere, ovunque essa sia.

La comunicazione:
in perenne ricerca del meglio

Sempre, gli sforzi per il meglio in questa materia hanno goduto di un’estrema priorità. C’era e c’è sempre da fare i conti con la voce del popolo. Con la sua partecipazione o il suo assenteismo. Con questa o quella opzione di scelta nei tanti campi che la comportano. Ma nella comunicazione d’importante c’è anche l’anticipazione, come c’è pure un potere correttivo ed educativo.
Il giornalismo ne è stata sempre una fonte primaria, avendo il suo principale Auditel nelle edicole e anche quello vero e proprio o quello ancora dei cosiddetti osservatori.
E’ da aggiungere che le sollecitazioni che vengono da quote estese di destinatari comportano anche un aggiornamento dello stesso linguaggio e pure dell’abbigliamento. Queste premono con notevole forza e non tutto è da ricercare nel nuovo. C’è pure certamente del vecchio da biasimare e da contenere. L’avvento del computer, che è una protesi del cervello – come è stato acutamente definito –, sta conseguendo sviluppi che possono in talune espressioni costituire anche un segno allarmante. Ad un bancario trentenne autolusingatosi operatore di tre computer mi è capitato di dire che sarebbe stato molto più bravo se avesse avuto dodici anni di età. Si sa che c’è un leader quarantenne, miliardario in dollari, la cui azienda si appoggia a sedicenni operatori di computers.

E qui una domanda: dove arriveranno i cellulari? Si passerà per essi anche all’impiego presso una selezionata specie animale? Come si muoverà la scala delle localizzazioni delle masse, piazze, stadi, discoteche, bar sportivi, circoli e branche di sport, grossi condomini, gruppi volontariali, locali select e pure al lume di candele, pizzerie, ecc.? E poi quartieri caratteristici perché antichi, quartieri periferici con mestieri generalmente di difficile reperibilità, linguaggi convenzionali e così via? E che ne è e sarà dell’abbigliamento? Mi auguro che quello che abbiamo sotto gli occhi per uomini e donne sia in una fase transitoria, di passaggio. Con il colore che è quello che è. Con le selezioni tessili che nascono dai computers? Con i supermarkets che ti impongono la scelta e pure la subiscono, perché sono ansiosi di saper qual è o potrà essere?

Sondaggi e questionari giganteggiano, perché il culto della dimensione, da noi e dagli altri importato dagli Stati Uniti, ci fa sperare che siamo in linea con il domani. C’è anche un certo giornalismo che mi sembra trainato, anziché trainante. Cerca infatti di interpretare al meglio quello che c’è.
Penso purtroppo che i comunicatori maggiori oggi siano i pubblicitari, forse affiancati dai fotografi, da quelli dei calendari, dalla stessa televisione, il cui slogan pubblicitario è quello di far capire che in un abbonamento c’è non solo una persona, ma tanti. Ma c’è anche un’inverosimile cromatica accanto alla quale figurano suggestioni da Terzo Mondo.
Nei primi dei quiz di Bongiorno collegati internazionalmente feci domandare alla RAI se i suoi collegamenti riguardassero la sola Albania. Mi sembrava infatti che comunicassimo solo con questo Paese, che oggi si collega a noi perché, come si sa, ci crede la sua America d’oggi, per giunta vicina.
Siamo, dunque, oggi messi così con la comunicazione. Che devo e posso dire da veterano? Cerchiamo di rispondere al meglio ai grandi interrogativi che ci sono di fronte. Scambiamoci perciò gli auguri.

   
   
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