La globalizzazione non deve essere
utilizzata come capro espiatorio degli insuccessi delle politiche
nazionali.
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Ci siamo lasciati alle spalle il XX secolo. La prima metà
ha visto il mondo quasi distrutto dalla guerra, risultato dovuto
in parte alle divisioni in blocchi commerciali rivali. La seconda
metà ha visto unespansione del commercio mondiale senza
precedenti, che ha anche favorito una crescita economica mai vista.
La piega che prenderà il commercio planetario ci dirà
se il XXI secolo volgerà al peggio, come la prima metà
del XX, o al meglio, come la seconda metà.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli statisti, lungimiranti, costituirono
deliberatamente un ordine politico ed economico post-bellico governato
da regole che avrebbero reso possibile il libero scambio e di conseguenza
reso meno probabili guerre future. Parlando in generale, vi riuscirono
perché in quel momento esisteva un vasto consenso sul ruolo
dello Stato nellassicurare la piena occupazione, la stabilità
dei prezzi e le reti di sicurezza sociale. Il mondo attuale è
assai diverso. Le grandi reti produttive e finanziarie hanno superato
i confini nazionali, divenendo realmente mondiali. Leconomia
è divenuta globale, e la politica è rimasta principalmente
locale. Ne deriva che le popolazioni sentono di non avere alcun
controllo sulle decisioni che modellano la loro vita. Si sentono
vulnerabili e impotenti. Questo sentimento, io penso, sta alla base
di molte delle argomentazioni che ascoltiamo a favore dellutilizzo
della politica commerciale nel promuovere varie giuste cause. Coloro
che esprimono queste opinioni danno voce a paure e ad ansie circa
gli effetti della globalizzazione.
Costoro hanno ragione a preoccuparsi per loccupazione, per
i diritti umani, per il lavoro minorile, per lambiente, per
la commercializzazione della ricerca scientifica e medica. Hanno
ragione a preoccuparsi soprattutto della povertà estrema
in cui versano così tante popolazioni dei Paesi in via di
sviluppo. Ma la globalizzazione non deve essere utilizzata come
capro espiatorio degli insuccessi delle politiche nazionali. Il
mondo industrializzato non deve cercare di risolvere i propri problemi
a scapito dei poveri. Ha poco senso limpiego di restrizioni
per gestire problemi che non traggono origine dal commercio ma da
altre aree della politica; dal momento che aggravano la povertà
e ostacolano lo sviluppo, queste restrizioni spesso peggiorano i
problemi che tentano di risolvere.
Lesperienza pratica ha dimostrato che il commercio e gli
investimenti determinano non soltanto lo sviluppo economico, ma
spesso anche standard più elevati nel campo dei diritti umani
e nello stesso tempo della salvaguardia dellambiente. Ciò
avviene quando i Paesi adottano politiche e istituzioni valide.
Infatti, le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, una volta
che hanno la possibilità di farlo, si sforzano di avere standard
più elevati. Quindi non ci si deve sorprendere se questi
Paesi non si fidano di coloro che affermano di aiutarli con lintroduzione
di nuove condizioni o limitazioni sul commercio. E stato detto
innumerevoli volte che il libero scambio è a loro favorevole,
che devono aprire le loro economie. E loro lo hanno fatto, spesso
con costi molto elevati. Forse non abbastanza: molti di questi mantengono
ancora barriere tariffarie alte, che limitano la concorrenza e impediscono
le importazioni necessarie ai loro stessi produttori, rallentando
dunque la crescita economica.
Comunque, il problema è che i Paesi ricchi hanno ridotto
le loro tariffe in misura inferiore rispetto ai Paesi più
poveri. Sembra che si accontentino di esportare manufatti tra di
loro. E dai Paesi in via di sviluppo continuano a richiedere soltanto
materie prime, non prodotti finiti. Il risultato è che le
tariffe medie sullimportazione dei manufatti dei Paesi in
via di sviluppo sono attualmente quattro volte più alte di
quelle che loro esigono sui prodotti provenienti dai Paesi industrializzati.
Vengono utilizzate non soltanto tariffe, ma anche quote e multe
anti-dumping per emarginare dal mercato mondiale del mondo industrializzato
i prodotti provenienti dal Terzo Mondo, soprattutto in quei settori
dove i Paesi più poveri hanno un certo margine di competitività,
come quelli agricolo, tessile e vestiario. Sembrerebbe che in alcuni
Paesi ricchi si sia diffusa lopinione che le economie emergenti
siano incapaci di concorrere onestamente a tal punto che quando
loro sono in grado di produrre qualcosa a un prezzo competitivo
sono automaticamente accusati di dumping, cioè di vendita
sottocosto. In realtà, sono i Paesi industrializzati che
stanno vendendo a basso costo il loro surplus alimentare sui mercati
mondiali un surplus generato dai sussidi di 250 miliardi
di dollari ogni anno minacciando quindi la sopravvivenza
di milioni di poveri agricoltori dei Paesi in via di sviluppo, che
non sono in grado di competere con prodotti importati sussidiati.
Quello di cui abbiamo bisogno ora non sono nuove restrizioni per
il commercio mondiale, ma maggiore determinazione da parte dei governi
nellaffrontare direttamente le questioni sociali e politiche.
Non dobbiamo dare per scontato lavanzare del libero scambio
e il dominio delle regole legislative. Il libero mercato globale,
come i liberi mercati nazionali, hanno bisogno di essere sostenuti
da valori comuni, e resi più sicuri da istituzioni più
efficienti. La stessa determinata linea di leadership mostrata per
la difesa della proprietà intellettuale dovremmo adottarla
nella difesa dei diritti umani, degli standard lavorativi e dellambiente.
Le Nazioni Unite esistono per questo. Noi possiamo essere parte
della soluzione. Ma abbiamo bisogno del settore privato. Le compagnie
transnazionali sono state le prime a beneficiare della globalizzazione.
Debbono però assumersi la loro parte di responsabilità
nel gestirne gli effetti.
I benefici del libero scambio debbono estendersi a tutti i Paesi
in via di sviluppo, altrimenti lostruzionismo verso la globalizzazione
potrebbe diventare inevitabile. Il commercio è certo meglio
dellaiuto. Se i Paesi industrializzati aprissero maggiormente
i loro mercati, i Paesi in via di sviluppo potrebbero incrementare
le loro esportazioni di molti miliardi di dollari lanno. Per
un grandissimo numero di poveri questo potrebbe costituire la differenza
tra un presente fatto di miseria e una vita decente. E senza dubbio
il prezzo da pagare per i Paesi ricchi sarebbe minimo.
In realtà, i Paesi industrializzati farebbero un favore a
se stessi. Tanto per fare un esempio, lUe spende al momento
tra il 6 e il 7% del suo Pil per lapplicazione di varie tipologie
di misure di protezione commerciale. Certamente alcuni gruppi di
europei ne stanno beneficiando, ma altrettanto certamente ci deve
essere un modo più economico e meno dannoso per aiutare i
propri concittadini.
Al punto in cui siamo, le tariffe e le altre restrizioni imposte
alle esportazioni provenienti dai Paesi in via di sviluppo dovrebbero
essere sostanzialmente ridotte. Per quei Paesi tra i meno sviluppati
i dazi e le quote dovrebbero essere del tutto eliminati. Il mondo
ha bisogno di un sistema commerciale tanto libero quanto equo.
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