L'unione Monetaria
nel Rinascimento
Con la presentazione del Governatore Antonio Fazio e con l'introduzione
del Preside della Facoltà di Economia di Ferrara, Patrizio
Bianchi, ha inaugurato una collana di studi economici un volume di
straordinaria attualità. Il curatore, Alfredo Santini, attraverso
una scrupolosa lettura di testi antichi e contemporanei, riferisce
- riconoscendogli l'inconsueta lungimiranza - di un "mercante-monetarista"
del XVI secolo, Gasparo Scaruffi (1519-1584), la cui opera principale,
L'Alitinonfo, anticipò princìpi e regole che sarebbero
riemersi, dopo la drammatica esperienza della seconda guerra mondiale,
nella seconda metà del nostro secolo. Scaruffi operava a Reggio,
città compresa nel territorio del Ducato estense, nel periodo
tra gli ultimi dieci anni di governo di Ercole II d'Este (duca dal
1534 al 1559) e gran parte del signoraggio di Alfonso II (duca dal
1559 al 1597), in una fase storica di sconvolgimento dei prezzi, quando
"i rapporti di valore non rappresentavano più un imprescindibile
termine di riferimento per gli scambi", e i mercanti dovevano
affrontare tutti i giorni problemi spesso di difficile soluzione.
Proprio l'appartenenza ad una famiglia di mercanti e cambiatori, attività
esercitate dallo stesso Gasparo (che, inoltre, condusse in appalto
la Zecca di Reggio e fu "spenditore", cioè tesoriere
del Comune), nonché lo scontro quotidiano con le problematiche
legate all'economia e, in particolare, all'eccessivo numero di monete
in circolazione, ispirarono a Scaruffi l'opera che gli diede fama:
un trattato scritto nella maturità, tra il novembre 1574 e
il maggio 1579, stampato a Reggio da Hercoliano Bartoli nel 1582 con
la dedica al conte Alfonso Estense Tassoni, giudice dei savi e consigliere
particolare del duca Alfonso II. Scaruffi dichiarava il suo preciso
intento nel titolo completo di presentazione dell'opera: L'Alitinonfo
di M. Gasparo Scaruffi regiano per fare ragione, et concordanza d'oro
e d'argento, che servirà in universale tanto per provedere
a gli infiniti abusi del tosare, et guastare monete, quanto per regolare
ogni sorte di pagamenti et ridurre anco tutto il mondo ad una sola
moneta.
"Ridurre il mondo ad una sola moneta": ecco il punto, insieme
alla creazione di una "Zecca universale", attorno al quale
ruota il pensiero di Scaruffi, così attuale in questo momento
di Europa unita e di euro, moneta che, a distanza di secoli, ricorda
la "lira imperiale" comune a tutti gli Stati vagheggiata
dall'economista reggiano, un uomo del Rinascimento che cercava di
trovare un accordo pratico tra prìncipi e mercanti, tra esportazioni
e mercati, tra monete "grosse" e monete "piccole".
Era pressocché illetterato, Scaruffi, ma tanto esperto di mercati
e di monete che è stato considerato, anche dall'economista
austriaco Joseph Alois Schumpeter, uno dei tre maggiori studiosi delle
monete del XVI secolo, insieme a Bernardo Davanzati e a Jean Bodin.
La competenza guadagnata sul campo gli valse l'apprezzamento dei signori
del tempo che con lui discutevano le proposte monetarie durante i
numerosi viaggi diplomatici del reggiano, spesso inviato dal duca
estense quale esperto, ad esempio, presso i Gonzaga di Mantova e i
Farnese di Parma.
La figura di Scaruffi, il trattato e alcune delle lettere che ne tracciano
la genesi, furono portati alla luce da Andrea Balletti in un'importante
ricerca del 1882 (Gasparo Scaruffi e la questione monetaria del secolo
XVI), mentre è del 1984 un convegno nel corso del quale molti
studiosi rivisitarono in profondità il lavoro del mercante-monetarista.
Seguendo particolarmente queste tracce, Santini ha a sua volta ripercorso
la fortuna del reggiano, stimolato da Guido Carli, il quale, a conclusione
di un colloquio su materie economiche, lo aveva invitato ad approfondire
il proposito del primo "inventore" di una specie di sistema
monetario internazionale, inventato per Alfonso II.
Alitinonfo deriva dal greco, vuol dire "la vera luce", "il
vero lume", la chiarezza che Scaruffi sperava di far giungere
nel labirinto del disordine monetario del tempo che, come sottolinea
Fazio nella presentazione, riportandone l'origine a questioni fiscali,
"costituivano certo materia di riflessione". E la riflessione
si snoda attraverso le pagine di questo trattato, toccando non solo
la vita, le opere, le idee-guida di Scaruffi, ma più in generale,
considerazioni sulla situazione economica a Reggio, Ferrara - capitale
del Ducato estense - e in Europa, in un intreccio di vicende storiche
e di economica che rende facilmente leggibile il testo, dilatato nell'ampio
e interessante apparato di note.
E' ancora Fazio che ricorda quanto fosse avanzato, in Italia, lo studio
dell'economia nel momento in cui Scaruffi scriveva la sua opera; lo
fa attraverso le parole dell'economista austriaco naturalizzato inglese
Friedrich Hayek, il quale sottolineava, nel 1935, come l'Italia del
XVI secolo "has been called the country of the worst money and
the best monetary theory". In sintesi, era il Paese con le monete
peggiori e con la migliore teoria monetaria.
L'Autore, in effetti, sosteneva che la "confusione" monetaria
- della quale andava cercando i rimedi anche con la sistematica analisi
di concetti che appartengono altresì al nostro tempo (lo scambio
delle merci, il rapporto salari/prezzi, l'inflazione) - derivava dagli
ostacoli che nascevano per la circolazione di un numero troppo alto
di monete, diverse tra loro nel conio e nella lega. Per questo, affermava
che "potrebbe venire il tempo che simili monete si userebbero
in altri luoghi, et essendo cosa ragionevole ch'ancor esse siano fatte
sotto un sol ordine et nella loro debita et real proportionata corrispondenza
e concordanza et delli pesi, et delli valori che convenga con le monete
e d'argento, e d'oro...".
Allo stesso modo pensava, nel suo progetto, all'istituzione di una
"Zecca universale", "tanto al mondo necessaria",
dove le monete si potessero coniare in modo unitario in ogni luogo,
"come il mondo fosse una sola città o monarchia".
In più parti del trattato, Scaruffi dimostrava quanto fosse
necessaria la riforma innanzitutto per stabilizzare i corsi delle
diverse monete circolanti, esortando i governanti (e facendo leva
anche sulla loro ambizione) a recepire e mettere in pratica le idee
da lui proposte, inserendosi così nell'ampia trattatistica
dell'epoca che, se non altro, segnalava il bisogno diffuso di dare
normative precise a una materia così importante. Le sue teorie
non ebbero seguito. Santini individua, fra le altre, la principale
causa nei problemi della sovranità degli Stati del tempo: il
reggiano, pur credendo fermamente e appoggiandosi alle istituzioni
territoriali, presumeva come garanti della riforma le strutture maggiori,
il Papato e l'Impero, in un momento in cui ormai era compiuto il loro
declino.
L'appendice documentaria a corredo dello studio di Santini riporta
alcune lettere ritrovate da Marzio Romani presso l'Archivio Gonzaga
(conservato nell'Archivio di Stato di Mantova), da lui divulgate (Principi,
alchimisti e scienziati: una "utopia" monetaria del Cinquecento).
Si tratta di lettere scritte da Scaruffi nel 1568 al duca di Mantova,
nelle quali si possono leggere l'origine, le riflessioni, lo sviluppo
del pensiero scaruffiano, che portarono alla stesura del trattato.
Le lettere sono riproposte anche per un confronto circa lo stile letterario
di Scaruffi, che, come abbiamo detto, era incolto (egli stesso si
scusava, scrivendo a Francesco Gonzaga, per la scarsa chiarezza espositiva,
dal momento che non aveva potuto studiare "libri per essere stato
travagliato in altri negotij"): le differenze che si riscontrano
fra il trattato e le lettere hanno suggerito ad alcuni studiosi l'ipotesi
che la revisione finale del testo sia stata affidata a Piergiovanni
Ancarani, o, comunque, a una mano diversa.
Il volume venne stampato in 512 esemplari, dei quali 400 donati a
diverse persone e 112 rimasti allo stampatore, come da accordi. Un
esemplare, mutilo del frontespizio, è nella "Ariostea"
ferrarese.
Come scrive Bianchi nell'introduzione, "i grandi eventi di questi
giorni scandiscono una quotidianità spesso confusa in cui economie
fino a ieri separate oggi si riuniscono in un sistema globale dalle
regole ancora in costruzione [...]. In questo senso, la creazione
dell'Unione Monetaria è molto più di un ulteriore passo
di integrazione: si tratta di un ripensamento istituzionale profondissimo
che, ponendo sotto controllo unico la moneta, incide sulla sovranità
degli Stati".
Anche per questo la rivalutata opera di Gasparo Scaruffi aiuta a cogliere
il significato della "visione lunga" dell'economia e soprattutto
della storia, per la quale la nostra quotidianità affonda le
radici in tempi lontani.
fabio corvino
Il tessitore
di Momostenango e il poeta che aderì allo squalo
Due poeti amici. Uno non c'è più: venne a salutarmi
all'aeroporto di Brindisi, bevve un cognac, mi abbracciò forte
e svanì. Non so se sia morto per il grippaggio di un qualche
meccanismo corporeo o per la semplice ragione che aveva deciso di
lasciarsi andare. Non credo, comunque, a un suo suicidio. Avrà
solo spinto un poco più in là il suo rapporto ludico
con Dio.
L'altro c'è, vive in Guatemala, l'ho conosciuto a Neûchatel,
in Svizzera, e mi ha coinvolto nella sua forte carica vitalistica.
Parla e scrive in una delle lingue maya, il k'iché, si autotraduce
in spagnolo, rivendica l'identità indigena per ascendenze sciamaniche.
Del primo, Salvatore Toma, Einaudi ha pubblicato un postumo Canzoniere
della morte, a cura di Maria Corti. Del secondo, Humberto Ak'abal,
l'editrice Le Lettere ha pubblicato l'antologia Tessitore di parole,
a cura di Emanuele Jossa, con prefazione di Martha L. Canfield.
aldo bello
"Trovammo una grande quantità di queste loro scritture,
e perché non ci fosse superstizione né falsità
del demonio, gliele bruciammo tutte, per la qual cosa si meravigliarono
e soffrirono molto": in sole trenta parole, Diego de Landa sintetizzò
la storia delle devastazioni che segnarono i tragici capitoli della
Conquista del Nuovo Mondo. In nome della spada e della croce, l'Europa
tentò di archiviare cultura, pensiero, riti dei popoli autoctoni,
e di impossessarsi persino del loro Nawal, l'alter ego nel mondo animale,
cancellando memoria, antropologia, identità e parola dei popoli.
La parola, appunto. Che, se perduta, condanna una civiltà all'eclissi
perenne, alla condizione di enigmatico reperto archeologico. Fu, dunque,
merito dell'universo maya conservarla per vie carsiche, lungo percorsi
orali nelle lingue k'iché, yucateca, chontal, kak'chiquel,
poconchì, fronti della resistenza contro la risacca dell'anonimato
presagibile che oggi ci restituiscono la freschezza da inizio del
mondo di una poesia riemergente dal lungo cono d'ombra della Conquista.
Humberto Ak'abal è poeta di gran caratura fra gli eredi della
cultura mesoamericana. Figlio e nipote di sciamani, rivela una spiritualità
che permea tranches de vie, angolazioni paesaggistiche, e natura,
voci di animali e vegetali, colori, rumori, con un vigore evocativo
che, con geniale acribia semantica, si modula dalla maglia onomatopeica
all'albale incantamento, dall'impulso favolistico alla profezia attinta
per naturale predisposizione antropologica e alle trasmutazioni realtà-sogno,
visione concreta-dissolvenza onirica, che sottendono il fascino sottile
e intrigante della sua splendida orditura poetica.
Il linguaggio è da vocabolario k'iché (verso laminante,
carico di significati, di originali sonorità) e di partitura
armoniosa nelle immagini sempre in primo piano, d'inatteso tutto tondo
anche quando esprimono sentimenti, stati d'animo, presagi d'amore,
sequenze di dolore. Tutto è a distanza straordinariamente ravvicinata,
a portata di sensi, nel segno di un vitalismo, e meglio ancora di
una volontà di sopravvivenza quasi ossessiva, proiettata certamente
da una vicenda storica che fu tragica, dopo essere stata grande, e
che - riaffiorata - fragile, dapprima, implosa e quasi clandestina;
e solo in questa fine millennio vigorosa nella ridotta di una milpa,
il microcosmo nel quale si snodano i corsi e ricorsi di nascita-crescita-morte-nascita,
fra divinità primigenie, uccelli, alberi, in un rutilante reticolo
di colori, suoni, punti cardinali, miti, come echi dello spirito creatore
e come rifiuto dello smemoramento e della sterilizzazione fra le pagine
ingiallite della storia.
Da qui, anche, i versi di denuncia, sanguigni come colpi d'ascia ("Ci
hanno rubato / terre, alberi, acqua. // Ciò di cui non hanno
potuto / impossessarsi è il Nawal. // Non ci riusciranno mai".),
vibranti nel nome dell'identità riaffermata ("Nelle voci
/ degli alberi vecchi / riconosco quelle dei miei avi. // Vigili da
secoli. / Il loro sogno è nelle radici") e nell'atteggiamento
esistenziale ("Ogni tanto / cammino all'indietro: / è
il mio modo di ricordare. // Se camminassi solo in avanti, // ti potrei
raccontare / com'è l'oblio"). Un'antologia dall'Antologia:
Pietre
Non è
che le pietre siano mute:
semplicemente stanno zitte.
Rimprovero
La luna era
una grande casa
seduta sulla schiena della collina.
Quando mio
padre mi rimproverava,
io andavo dalla luna e lì dormivo.
Gli specchi
Questa mattina
all'alba il cielo era verde.
I campi di
mais e gli alberi
si sono pettinati.
E le ragazze
- come sempre -
hanno usato le pozze come specchi.
Là
Là
di dove sono io
è l'unico
posto
dove uno
può aggrapparsi alla notte
- come a un parapetto -
per non cadere
nell'oscurità.
Lo stesso
Vedo mio nonno
trascinare novanta anni
con lo stesso vestito
di cinquanta anni fa.
Salici hanno
messo radici
nei suoi occhi
per sempre.
Canti di uccelli
Klis, klis,
klis...
Ch'ok, ch'ok, ch'ok...
Tz'unun, tz'unun,
tz'unun...
B'uqpurix, b'uqpurix, b'uqpurix...
Wiswil, wiswil,
wiswil...
Tulul, tulul, tulul...
K'urupup, k'urupup,
k'urupup...
Ch'owix, ch'owix, ch'owix...
Tuktuk, tuktuk,
tuktuk...
Xar, xar, xar...
K'up, k'up,
k'up...
Saq'k'or, saq'k'or, saq'k'or...
Ch'ik, ch'ik,
ch'ik...
Tukumux, tukumux, tukumux...
Xperpuaq, xperpuaq,
xperpuaq...
Tz'ikin, tz'ikin, tz'ikin...
Kukuw, kukuw,
kukuw...
Ch'iwit, ch'iwit, ch'iwit...
Tli, tli, tli...
Ch'er, ch'er, ch'er...
Si-si-si-si-si-si-si-si
Ch'ar, ch'ar, ch'ar...
Le mie ali
Io scuotevo
le mie ali
e guardavo il cielo,
mia madre rideva;
eravamo sull'orlo
di un precipizio.
Io aspettavo
il momento
di prendere il volo.
Il tuo ridere
Precipita il
mio udito
nei burroni
seguendo l'eco delle tue risa.
Lasciano un
alito di gerani
sparso nella nebbia
vicino alla sorgente della montagna.
Come profuma
il fiore del pesco,
quanto è dolce il canto del guardabarranca (1).
E le tue risa
che sgorgano dalla tua bocca
come l'acqua dalla tua giara.
Il mecapal
Per
noi
indios
il cielo finisce
dove comincia
il mecapal
(2).
Albero
Libro verde
albero poeta
quanta poesia nelle tue foglie!
Chiunque
si posi sui tuoi rami
diventa cantore.
Note
1) Uccello canoro molto diffuso in Mesoamerica.
2) Fascia di cuoio che si passa intorno alla fronte per caricare grossi
pesi da portare sulla schiena.
Chiudo e riapro con l'immagine dell'albero, perché all'albero
vitalistico di Ak'abal (con gran corte di animali) è speculare
il "giardino delle Ciàncole", con la sua gran quercia,
eremo aereo o terragno di Toma, selvatica officina delle sue infrazioni
poetiche scalpellate sul diagramma di giorni agri. E nel suo cono
d'ombra, tra funesti sicuri presagi ("L'idea della morte è
qui, a un passo da me..."), divaganti favolerie ("Se si
potesse imbottigliare / l'odore dei nidi...") e deliranti ossessioni
erotiche ("E amavo la tua seducente irrealtà / la tua
faccia irresistibile / la tua sfrenata inesistenza..."), è
come se i trentacinque anni di vita concessi al poeta abbiano prodotto
una sorta di accelerazione esistenziale ed estetica, bruciando i residui
di ogni indugio. Toma ausculta le contaminazioni del tempo e ad esse
dà voce, ora modulando ora urlando il disagio esistenziale
con una disperata ricerca di forme assolute di comunicazione.
Perciò il suo linguaggio si accampa come centrale, a tratti
volontaristicamente non sedimentato, tra fughe oniriche e repentini
ritorni al reale, componendo uno spartito quant'altri mai spericolato,
avido di eccentriche screziature, audace, anche acerbo, ma che sempre
risolve dal di dentro l'amaro cruciverba dell'esistenza.
L'intelligenza e la forgia creativa sono tutte racchiuse con lucida
consapevolezza nella morsa con cui egli stringe premonizioni e angosce,
in un rapporto simultaneamente intimo e distante, quasi che il sogno
abbia urgente desiderio del reale per dirsi vero e la passione ne
abbia altrettanto del distacco per sentirsi viva nell'alterno flusso
di una coscienza che alimenta il fertile dono di un'innocenza ivre.
Quarantuno poesie per il Canzoniere, da Non ti credo come incipit
a Ultima lettera di un suicida modello come explicit, in continuità
tematica e stilistica, in sviluppo lineare di forma e di lingua, per
l'approdo unitario ai significati di fondo della postulazione autobiografica.
Ventiquattro poesie per un Bestiario salentino del XX secolo, con
sei versi quasi anticipatori della terza parte ("Uccelli a vele
spiegate / sfrecciano nei boschi / virando ad angolo le querce, /
trapassando le fronde / in cerca febbrile del nido, / come io di te,
lontano amore"). E ventitrè poesie per I sogni della sera,
con le derive dolorose, le melanconie deliranti, le desolate ebbrezze
e le ragioni contestative (senza scampo e senza alternative) che culminano
nelle stanze in cui Toma "angelo sbandato" apoditticamente
afferma la sua nuda e solitaria terrestrità (La mia è
una donna favolosa).
Chiude la raccolta einaudiana una pagina di lirico furore, ("Un
giorno di questi / farò di tutto, / tutto farò filare
liscio, / i pensieri e gli occhi / anche le nuvole raddrizzerò.
/ La mia ascia / sarà inesorabile..."). Altri versi inediti,
sul tema dell'ascia, sono su alcune pagine di sughero (un quaderno
unico, con manoscritti di altri autori, Verri in testa) comprese nel
titolo Aderire allo squalo (a quel che ci macera e tormenta, alle
sconfinate ossessioni, al dissidio con i valori correnti e le vite
dissipate...). Caduche adesioni ("Ma lo squalo / era di nuovo
accanto a noi / ossessivo alla pazzia / chiaro l'occhio vigile ci
annientò / ci inghiottì d'un colpo"). Quanti "malinconici
relitti", quanti naufraghi, e quante croci in questo insidioso
cimitero marino!
Frammenti dal Canzoniere
...Eppure ancora
riesco a gustare
la luce del vento
le sue fitte d'argento
cangianti tra i rami
mentre sfocia nel sole
ancora so leggere le stelle
la dolce tremenda luna serale
le primizie invadenti delle stagioni...
...Chi muore
lentamente in fondo al lago
fra l'azzurro e i canneti
non muore soffocato
ma lievita piano in profondità...
Meglio
una morte
sola per noi soli
quest'ultima emozione
questo scoppio di felicità...
...Farsi fuori
è un modo di vivere
finalmente a modo proprio
a modo vero.
Perciò non state a inventarvi
fandonie psicologiche
sul mio conto
o crisi esistenziali
da manie di persecuzione
per motivi di comodo
e di non colpevolezza.
Ci rivedremo
ci rivedremo senz'altro
e ne riparleremo...
Il grido del
nibbio
il volo sfrecciante del tordo
la frusciante anatra verdeazzurra
l'occhio d'antilope della beccaccia
la civetta la strolaga il merlo
il dominante silenzio orgoglioso
delle campagne delle radure dei boschi
dei laghi delle sognanti colline
sono anche tuoi! Lo sapevi?
Nella stessa intensità di come
ti appartengono i tuoi desideri...
Alla deriva
c'è soprattutto il mare
il mare vero
l'annientante malinconia
delle alghe morte
alla deriva
ci sono i sogni della sera
le ultime voci
dei fondali profondi...
La mia
è una donna favolosa.
In nessuna parte
del mondo avrei potuto
trovare un simile mostro
di pazienza e di amore.
La mia
è una donna favolosa.
Pur di non perderla
rinuncerei ai miei versi...
...Se ne va
lento
ma svelto
perché dritto deciso;
avesse tanto di tacchi
non muoverebbe un dito
mai nemmeno fucilato
prenderebbe una storta.
Il suo sguardo è fermo
ammoniacato
vuoto nel vuoto
sperduto.
Le sue braccia sembrano
due liane al vento.
E' un uomo.
Vacci piano.
...Un giorno
di questi
comanderò,
come un Dio
tutto vorrò
a me comparato.
Capre galline
voleranno sulle teste
umane come rettili nei fiumi
e fra le aride rocce
un giorno di questi comincerò.
Un menhir tra
i papaveri
Dolmen e menhir sono ambedue monumenti megalitici, cioè costruiti
con pietre e macigni rozzi, presumibilmente destinati, nella preistoria,
a scopo funerario o religioso. Un tempo, furono considerati di origine
celtica, ma successivamente se ne trovarono esemplari non soltanto
in Europa centrale e sud-occidentale, bensì anche nell'Africa
del Nord; in molte regioni dell'Asia anteriore, per esempio in Palestina;
nell'India, fino in Corea e nel Giappone meridionale.
Detti semplicemente megaliti, sono più numerosi nella Scandinavia,
in Danimarca, nelle Isole Britanniche, in Francia, nella Spagna, in
Portogallo; pur se, in pubblicazioni più precise, troviamo
citata anche la nostra Puglia.
Per il sottoscritto - lo confesso - fu un incontro inatteso e solenne.
I dolmen mi apparvero come camere sepolcrali, formate da grosse pietre
poste a guisa di pareti, con un pesante lastrone monolitico posato
sopra, a copertura. Ne ricavai una sensazione funerea e tombale.
I menhir erano invece, appunto secondo l'etimologia bretone antica,
pietre lunghe, piantate nel terreno verticalmente, come obelischi
rudimentali; puntate verso il cielo e suscettibili di varie interpretazioni,
tutte basate sopra un desiderio di verticalità celeste, di
altezza mistica, insomma d'eterno, di forza assoluta.
Va da sé che preferii quest'ultimi; ed è per questo
che ogni anno, a primavera, quando i nostri campi sono invasi da nuvole
di fiori rossi e gialli, me ne vado a piedi, in facile pellegrinaggio;
per vederli spuntare all'improvviso, nei dintorni di alcuni nostri
particolari villaggi.
Tra il sapere che spesso, intorno a un dolmen di età neolitica
o eneolitica, furono trovati ricche suppellettili funerarie, armi,
ceramiche ed ornamenti vari, mentre nessun oggetto, nessuna iscrizione,
nessun dipinto mai aiutò l'uomo attonito a spiegarsi la funzione
vera di quel blocco pesante e grigio, teso verso un cielo noto a lui
solo, scelsi la non conoscenza metafisica, quella che paradossalmente
è l'ultima, sovrumana sapienza. E pregai.
E pregai; perché un menhir tra i papaveri, nel verde silenzioso
d'un meriggio di sole pugliese, evoca eternità e commozione
più d'una cattedrale, celebrata e bella, perché ricca.
Ecco, una "pietrafitta", come dicono da queste parti, è
appunto il monumento alla sublime povertà dell'essenziale;
è il simbolo dei simboli; è liturgia senza fronzoli.
Avrei voluto gridargli addosso: "Chi sei? Da dove vieni? Cosa
vuoi dirmi?" Niente. Il "mio" menhir sembrava irridere
l'altezza di certe architetture; era un idolo muto, irregolarmente
cilindrico; un idolo non molto più alto di me che proprio alto
non sono. Un idolo, che dalla notte dei tempi non parlava, non si
muoveva, non turbava la pace circostante; ma questa sua saggezza non
bastò.
Chi mai pregavo, io, in quel meraviglioso silenzio agreste?
Andrò contro corrente: non il solito simbolo religioso di chi
trasforma ogni cosa in sepolcro; non il segno di confine di chi riduce
il mondo ad un immenso catasto; non una superba stele; non la commemorazione
durevole; non un luogo di adunanze tribali; non il frusto simbolo
fallico dei maniaci; ma semplicemente il segno, tangibile e immediato,
della divinità indefinita in quanto infinita; l'indice di pietra,
che insegue noi tutti e non parla, poiché sa.
Quale divino? Quello senza nome e senza forma, quello diffuso e confuso
intorno all'uomo, quello che non ha bisogno di teologia, né
di teosofie; eppure ti spinge a pregare, come quel menhir tra fiori
rossi e gialli; fatto di pietra calda, non di gelido marmo. Fu così
che lo toccai, anzi lo tastai a lungo; e lui mi fornì altre
libere interpretazioni; non era un punto di partenza. Di questo ero
sicuro, data la sua immutabile staticità; forse, era un segnale
d'arrivo; l'inesorabile traguardo di chi ormai è stanco. Chissà?
Fu così che mi ritrovai non seduto, ma genuflesso sull'erba.
Era cresciuta folta alla sua base, tanto che dalla strada, dove un
cartello giallo lo additava ai distratti viandanti, m'era sembrato
un albero morto.
Nulla, invece, nel mio menhir indicava assenza di vita, né
tantomeno tristezza: era occasione di pensiero, meglio, di riflessioni
impreviste. Abbiamo costruito edifici che crollano, gallerie che franano,
dighe che non reggono. Lo abbiamo fatto con mezzi moderni, sempre
più perfezionati e solidi. La nostra superbia è stata
spesso punita, però! Il menhir, al contrario, ci giunge dalla
preistoria, intatto e ben fermo; di questi miracoli umili, che non
sono miracoli, la nostra facile superstizione non parla mai. Il menhir
ha vinto il tempo; è giusto che additi l'infinito agli sprovveduti
pigmei. Quel consueto pellegrinaggio primaverile acquistò così
un significato non certamente di scampagnata archeologica.
Pensai, d'un tratto, d'aver trovato la spiegazione giusta di quello
strano "oggetto". Ecco, i menhir hanno una funzionalità
benedicente e paterna.
E vidi bambini felici di tutto il mondo, un mondo senza più
guerre, che danzavano intorno a quella strana pietra verticale; verticale
come un anelito di bontà e giustizia senza confini; fanciulli
che danzavano, tenendosi per mano; piangendo una buona volta (la sola
lecita volta) di gioia e d'amore, come appunto i bambini dovrebbero
poter fare.
Pensate: la terra è cosparsa in buona parte di queste pietre
incrollabili, soltanto perché intorno ad esse bambini felici
danzino e godano il gioco. Alla faccia d'ogni spiegazione antropologica,
non giustifico in altro modo quelle magiche pietre. La preghiera sterile,
ora, s'è trasformata in idea fattiva. Non mi crederete: sento
avvicinarsi le vocette squillanti e inconfondibili della mia speranza.
Una brava e giovane maestra ha portato i suoi pallidi alunni nel verde
dei prati salentini. Li ha disposti in circolo, attorno ad un menhir.
Li ha fatti girare a giostra, tutti insieme, senza eccezione alcuna,
cantando.
Ho trovato! Ho trovato! E' a questo che servono le pietrefitte! Rispettiamole.
Nella mia preferenza, avevo ragione. I dolmen sono il passato; i menhir
sono il futuro!
Fu bellissimo allontanarmi, grazie ai folti papaveri, senza esser
visto.
Provate anche voi: cercatevi un bel menhir solitario, abbandonato.
Fissatelo in silenzio, concentratevi; non proverete noia, anzi. Avrete
di che "leggere" e capire.
Esistono pezzi incompiuti di scultori celebri, abbozzi di figure,
venature fatte volto e sudario, che sono meno espressivi d'un lungo
tronco di rozza materia; lì, dritto, immobile in mezzo al verde.
Basterà saperlo guardare, quell'indice di pietra; forse, quel
segno di atterraggio per extraterrestri in arrivo; forse, quel santone
impassibile, senza tabernacolo; forse, quell'angelo vero.
Tra dolmen e menhir non ebbi esitazioni: i primi, volessi divertirmi
con le parole, sono testimonianze; i secondi (è diverso!) sono
testimoni. Molti i paesi del Salento che ne vanno onorati; molte le
loro specie; molti i loro tipi. I dolmen, al contrario, sono più
o meno tutti uguali. I menhir puoi trovarli a gruppi, ordinati secondo
specie di filari, detti allineamenti; oppure s'incontrano misteriosamente
isolati. Suggestivi poi, quanto inspiegabili, i raggruppamenti circolari,
detti "cromlech" dagli esperti.
No, preferisco continuare ad ignorarne il significato. Amai sempre,
fin da quand'ero in Africa o in Medio Oriente, le cose misteriose,
la cui spiegazione non è tesi da obbligatoriamente dimostrare:
le cose ch'io chiamo feticci. Perciò, fra i totem più
"remoti" (aggettivo improprio), un menhir rimane il re;
non come sorgente di potere esoterico, caduto dalle stelle a conficcarsi
in terra; ma semmai, in quanto segno votivo, eretto dall'uomo alle
divinità più oscure, in modo da sopravvivere nei secoli
dei secoli.
Sì, - fantasie a parte, - è un segno votivo a prova
d'intemperie epocali; è traccia durevole delle prime imprese
umane, monumenti capaci di resistere all'infinito; anche oggi, pur
se in friabili tempi di sfaldatura universale.
Sì, - fantasie a parte, - farei piantare un menhir (perché
ridete della megalitica cura?) in ogni piazza del pianeta malato...
florio santini
Dolmen e menhir
di Terra d'Otranto
Andare per dolmen e menhir, alla riscoperta delle nostre radici neolitiche,
lungo itinerari percorsi con passione propositiva, inclusa l'emozione
della scoperta; e testimoniarne l'esistenza (e meglio ancora: la sopravvivenza)
con scatti multipli: l'impegno di Salvatore Masciullo è durato
più di due anni ma il progetto dev'essere stato concepito idealmente
da più tempo, soltanto in seguito diventando documentazione
storica, ricerca sui testi prima ancora che sul territorio, e infine
scommessa di esplorazione scientifica del complesso reticolo di sentieri,
di campagne, di masserie e persino di centri abitati.
Gran ben lavoro, condotto sul filo rosso di un profondo amore per
i monumenti megalitici di Terra d'Otranto, comuni a quelli diffusi
in diverse aree d'Europa, d'Asia e d'Africa, eppure così diversi
da tutti, e altrettanto misteriosi nella loro essenza e anche in certe
loro enigmatiche concentrazioni (Giurdignano ne è il nobilissimo
baricentro).
Masciullo (e insieme con lui l'Editrice Althea) non ha soltanto il
merito di avere attentamente esplorato e poi catalogato con rigore
filologico i megaliti salentini; ha anche quello di averci proiettato,
attualizzandola, la memoria di quella "civiltà della pietra"
che è nel nostro Dna, nella nostra antropologia culturale,
nei fermenti che ancora oggi identificano - stratificazione dopo stratificazione
- le espressioni creative salentine. Questo, il valore aggiunto del
testo, che nella struttura espositiva, redatta per itinerari, presenta
geografie locali, indici, citazioni bibliografiche.
sergio bello