La critica e i film sul Mezzogiorno




Giuseppe Cubitosi
Docente di Storia della Comunicazione di massa - Univ. Di Perugia



Negli anni Sessanta la cultura italiana seguì la linea che si era andata affermando nel decennio precedente. Era una linea estremamente rigida e chiusa ed invalse l'idea che le contraddizioni del modello di sviluppo del nostro Paese avrebbero condotto a un mutamento radicale, a una vera e propria rivoluzione e quindi a un rovesciamento del capitalismo italiano. Tra queste contraddizioni si annoverava in primo luogo il dualismo, il fatto cioè che quel modello di sviluppo fosse fondato su due aree di diverso livello, quella settentrionale più moderna e avanzata e quella meridionale, più arretrata. La cultura italiana era in sostanza convinta che non ci fosse alcuna possibilità, nell'ambito del capitalismo, di superare l'arretratezza meridionale. Il modello di sviluppo italiano, infatti, era nato col Risorgimento e quest'ultimo era l'unico tipo di rivoluzione che la borghesia italiana era in grado di portare avanti. Una rivoluzione incompleta, perciò incapace di eliminare il dualismo. Ne derivò una visione molto statica del Mezzogiorno che ebbe i suoi riflessi sia sul cinema italiano sia sulla critica. La critica, anzi, ebbe un peso rilevante, perché gli autori dei film, i cineasti, erano particolarmente sensibili ai richiami della critica e seguivano da vicino ciò che i critici scrivevano nei loro articoli. Per capirlo basta tener presente quanto ebbe a dire nel 1966 Alessandro Blasetti a La Rivista del cinematografo sul suo film "1860, I mille di Garibaldi", uscito per la regia dello stesso Blasetti nel 1933 e riguardante la spedizione dei Mille e il comportamento dei siciliani in quella circostanza. Riferendosi ad un'intervista rilasciata ad Angelo L. Lucano e apparsa sulla stessa Rivista del cinematografo nell'aprile 1966, il regista italiano alle incongruenze storiche rilevate da Lucano, il quale aveva osservato che il film aveva fatto "passare il patriottismo del 1860 come sentimento nazionale mentre non fu che sentimento tribale", Blasetti non ebbe nulla da obiettare se non che il suo era un film e come tale ne andava valutato "l'arco narrativo". Osservò, insomma, che nel caso dei film le considerazioni storiche non hanno un grande valore e che invece occorreva valutare quello che lo stesso Lucano definiva "il soffio vivificatore dell'arte". In definitiva, Blasetti non si provava affatto, di fronte alle obiezioni del critico, a difendere la sua interpretazione della storia del Mezzogiorno e in particolare della spedizione dei Mille in Sicilia, ma faceva valere la qualità di opera d'arte del suo film, per cui esso poteva anche non rispettare la verità storica.
Tra il Risorgimento e gli anni Sessanta c'era stato il secondo Risorgimento, ovvero la Resistenza, ma a questa aveva fatto seguito quella che fu definita la "restaurazione liberista", attuata da De Gasperi e da Einaudi, per cui erano tornate a trionfare le ragioni del capitalismo.
Particolarmente importante fu l'avvento del centro-sinistra, che si era assunto il compito di avviare in Italia una pianificazione che avrebbe comportato, per intervento dall'alto, un mutamento dei parametri fondamentali, condizione indispensabile per superare il divario Nord-Sud. Al cinema si assegnava il compito di fare affiorare alla coscienza del pubblico italiano le contraddizioni insite nel modello di sviluppo dell'Italia unita. Naturalmente i critici italiani, che in genere erano e si sentivano con orgoglio intellettuali organici, supportarono questa linea di comportamento e nei film che recensivano, sui quotidiani e sulle riviste specializzate, cercavano appunto queste contraddizioni. Se non le trovavano mostravano vistosamente il loro pollice verso nei confronti del film preso in esame.
Quindi i critici, coerentemente con l'idea che avevano del sottosviluppo, consideravano i film sul Mezzogiorno essenziali per capire l'arretratezza di quell'area. Da quell'area doveva incominciare l'esplosione del modello, da quell'area doveva in sostanza partire la rivoluzione italiana.
Nel 1962, in un dibattito sul film "Salvatore Giuliano" di Francesco Rosi (1961) organizzato dal circolo F. De Sanctis di Napoli, pubblicato dalla rivista Mondo Operaio, Pio Baldelli ebbe a dire:

Si vuol forse pretendere che da parte degli autori si faccia la "rivoluzione" con il finanziamento dei capitalisti?

Ma, nonostante questa affermazione iniziale, Baldelli voleva che il cinema svolgesse una funzione rivoluzionaria e protestava perché il cinema di quegli anni non riusciva in questo scopo. A suo avviso nel cinema italiano "le cose spesso procedono come vivessimo prima dell'era industriale, come se il fenomeno dominante dell'Europa occidentale non fosse quello di una forte espansione capitalistica, nella forma dei monopoli, collegati fra loro nell'ambito del MEC, e non incombesse il pericolo di una involuzione fascista e autoritaria".
Convinto com'era che nell'Europa occidentale si corresse "il pericolo d'una involuzione fascista", Baldelli affidava anche al cinema il compito di scongiurare questo pericolo e lamentava che i film che si facevano a quel tempo fossero in prevalenza arretrati rispetto ai problemi più urgenti del momento tanto che, a suo avviso, "le opere cinematografiche" pareva che ruotassero "ancora nel sistema astronomico (e morale) tolemaico".
Perciò salutava con compiacimento l'uscita di "Salvatore Giuliano", un film che il pubblico non avrebbe capito, perché a suo avviso "la platea" era purtroppo "abituata agli intrighi delle vicende hollywoodiane". Quel che invece Baldelli apprezzava di più del film era l'"indignazione morale e civile", che in esso si esprimeva attraverso la "passione di capire, di entrare nei fatti". Pertanto il film non poteva che avere il carattere della ricerca e quindi assumere la forma del documentario, della ricostruzione della vita del bandito:

Il film - aveva detto a Baldelli - non poteva essere girato altro che nei luoghi stessi della vita di Giuliano: le pietre dovevano essere le stesse pietre, come la natura e il comportamento della gente [...]. Rimettersi alla fonte dei fatti.

Rosi aveva cercato di capire i siciliani, che, secondo un'affermazione dello stesso regista, "secoli di malcostume hanno reso [...] imprevedibili, recalcitranti, diffidenti". Per questa via Rosi aveva scoperto con emozione il separatismo:

Io ho voluto capire - aveva detto Rosi con parole riportate da Baldelli -. Per esempio, quel vecchio che recita l'inno separatista mi ha commosso perché girando per le montagne della Sicilia avevo parlato con molti separatisti e penso che questo vecchio sia un personaggio veramente rappresentativo di un paese come la Sicilia.

Il film era dunque, sia per Rosi sia per Baldelli, un regista e un critico in piena sintonia tra di loro, uno strumento di conoscenza. Doveva servire a capire la realtà per intervenire su di essa e modificarla. Sotto questo profilo non era per nulla casuale che l'intervento di Baldelli trovasse spazio su Mondo Operaio, una rivista del Partito socialista, co-diretta da quello stesso Antonio Giolitti che nel 1963 sarebbe divenuto ministro del Bilancio e si sarebbe fatto portavoce nel governo d'una istanza di profonda modificazione dei parametri dello sviluppo nazionale attraverso la pianificazione, ovvero attraverso un intervento dall'alto. Quel che di "Salvatore Giuliano" andava dunque apprezzato era il coraggio con cui guardava in faccia la realtà siciliana, della quale facevano parte non solo i "figli della miseria", ma anche il fatto che a Portella della Ginestra, alcuni di quei figli, assoldati da Giuliano, avevano sparato su altri, i contadini che si riunivano per celebrare il Primo Maggio ascoltando un sindacalista.
A Baldelli non interessava affatto che il pubblico facesse ressa per vedere quei film che proponevano gli "intrighi delle vicende hollywoodiane". Non interessava affatto capire perché ciò accadesse. A lui bastava dire che ciò non andava bene e che Rosi aveva scelto una strada diversa. Era il pubblico che doveva adeguarsi, seguendo a sua volta la stessa strada. Se non lo faceva non c'era altro da dire se non che quel pubblico era irrecuperabile:

Lo spettatore o trova conferma del mito popolare (il film dice bene [di Giuliano]: faceva del bene, era con i poveri, etc.), oppure non vede come possa esserci una connessione qualunque tra l'arcangelo che appare sullo sfondo e il massacro di Portella: come da questo personaggio venga quella sparatoria.

Su questa base poteva tranquillamente superare la contraddizione tra la negazione iniziale della radicale incapacità degli autori a fare la "rivoluzione" e l'assegnare al cinema il compito spropositato di modificare le coscienze per preparare il terreno alla svolta che si sarebbe realizzata col centro-sinistra.
La posizione di Baldelli era condivisa da Cineforum, la rivista creata dai cattolici per discutere il ruolo del cinema nell'Italia contemporanea. Ciò non è casuale perché si tratta degli anni in cui si affermò il centrosinistra. A proposito di Rosi e del suo "Salvatore Giuliano", Sandro Zambetti, scrivendo su quest'ultima rivista apprezzava soprattutto la trasfigurazione del bandito in emblema di tutta la Sicilia nel periodo 1943-1960. Ricorda infatti che il titolo originale della sceneggiatura era "Sicilia 1943-'60" e che Rosi stesso, prima di girare il film, aveva dichiarato che ""Sicilia 1943-'60" non è un titolo di comodo: per me, in un certo senso, è il vero titolo del film" e, dopo aver analizzato i diversi piani in cui andrebbe scomposto il film, conclude:

I due titoli del film, quello provvisorio e quello definitivo, - finiscono con l'equivalersi e con l'essere ugualmente validi ad indicarne la tematica: "Salvatore Giuliano" è la "Sicilia 1943-'60", esiste in quanto rispecchia una situazione, gli aspetti della sua personalità [...] sono la proiezione dei fenomeni confluenti nel quadro storico preso in esame.

In definitiva, secondo Zambetti, il film di Francesco Rosi aveva il pregio di dar ragione dell'ostilità dei meridionali nei confronti del resto dell'Italia. La scelta di Salvatore Giuliano di darsi al banditismo non era che la "proiezione" d'un più vasto "quadro storico".
Quanto a La Rivista del cinematografo, sul fascicolo di aprile-maggio 1962, Adriano Buzzonetti scriveva:

Salvatore Giuliano è l'epifenomeno di una realtà estremamente complessa e sotterranea ed il suo mito, soltanto agli osservatori disattenti, appare come una colorita avventura banditesca sullo sfondo della Sicilia dell'immediato dopoguerra.
Francesco Rosi ha intuito che l'avventura di Giuliano aveva una filigrana sociale, politica e psicologica, che doveva essere portata alla luce; che il bandito era, in qualche modo, la misura paradossale ma autentica di un costume, di una mentalità, di una protesta, che esprimeva connotati reali, seppure non universalmente validi, della Sicilia degli ultimi anni.

Anche per il critico di La Rivista del cinematografo il cinema è strumento di indagine e di ricerca (non di osservazione della realtà):

Nelle mani di Rosi, S. Giuliano diventa un test di ricerca, mediante la quale è possibile individuare una particolare società nelle sue strutture, nei suoi condizionamenti palesi ed occulti, nelle sue miserie e nei suoi impulsi più vivi.

Quindi conclude:

"Salvatore Giuliano" è un film di altissima dignità formale per virtù di una regia di scaltrita bravura e di grande sapienza, che unifica i vari momenti di un racconto frammentario e variamente angolato in un quadro equilibrato e di grande suggestione.

Anche il giudizio morale è favorevole:

La Sicilia di ieri e soprattutto di oggi non è soltanto quella della mafia, dei separatisti, dei latifondisti, dei banditi; essa non è tutta paralizzata in un immobilismo secolare; Giuliano con la sua banda, le sue vittime, i suoi mandanti non è tutta la Sicilia; lo Stato democratico in Sicilia non ha inviato solo questurini e carabinieri. Tuttavia Francesco Rosi formula una denuncia precisa; affronta a viso aperto i personaggi di una vicenda; fruga, spesso vanamente, nella melma di una situazione scabrosa in ragione di un fermissimo atteggiamento morale che - al di là di un fatto criminoso - intende aiutare alcuni cittadini e determinati gruppi sociali a riconquistare una dignità solo in apparenza salvata da barbare quanto sciocche costumanze.

Gli faceva eco Cinema Nuovo, la rivista diretta da Guido Aristarco. La recensione di "Salvatore Giuliano" fu affidata ad a.f. (probabilmente queste iniziali stanno al posto di Adelio Ferrero) il quale, pur rifiutandosi di aderire a una valutazione eccessivamente positiva, ricordò che "Salvatore Giuliano" era stato considerato "il più bel film del cinema italiano". Subito dopo l'autore dell'articolo, tuttavia, tesseva le lodi del film:

L'emozione profonda che proviamo dinanzi a talune sequenze del film conferma la sensazione esaltante che Rosi ricorda sovente di aver provato, quella cioè di fare un cinema libero dagli intoppi e dalle strettoie del mestiere e della convenzione, in cui il momento della elaborazione creativa coincide con quello della progressiva scoperta della verità di una condizione umana, di una realtà contraddittoria e drammatica, di una strozzatura storica tuttora irrisolta.

Parlando di coincidenza tra creatività e ricerca il recensore pensava al neorealismo, ma dimostrava di possedere una concezione molto ideologizzata del neorealismo stesso:

La passione del neorealismo fu la rabbia e la foga della sua volontà di scoperta, l'aggressività del suo impegno conoscitivo, essa si trova in pieno nel film di Rosi in cui si avverte d'altro canto la nervatura critica di certe tendenze "retrospettive".

Dove quello che è importante è il riferimento all'"aggressività del suo impegno conoscitivo" che, secondo il recensore di Cinema nuovo, era stato proprio del neorealismo, ma si ritrovava anche in Rosi. In realtà l'"aggressività" di cui parlava a.f. non c'era stata nel neorealismo, se non per il fatto che esplorare l'Italia del dopoguerra aveva significato esplorare un'Italia devastata da una guerra perduta, ma c'era in Rosi e in coloro che hanno creduto di rifare il neorealismo facendo invece un cinema ideologicamente orientato. Una concezione, dunque, del cinema che vedeva in esso uno strumento per orientare il pubblico, non un mezzo di osservazione della realtà. Tanto che a.f. diceva:

Rosi, in questo rifarsi al neorealismo [...], ha ritrovato l'entusiasmo di chi fa il cinema sapendo di compiere un atto di testimonianza e di comunicazione.

Un'espressione che anche La Rivista del cinematografo avrebbe potuto far sua, come attesta il fatto che sia appunto il cristianesimo a tener vivo il culto dei martiri, ovvero di coloro che hanno voluto lasciare testimonianza della propria fede (màrtyros in greco significa appunto "testimone").
Tra la critica cattolica e quella - d'ispirazione rigorosamente marxista - di Cinema Nuovo c'è dunque una sostanziale convergenza nel considerare positivamente il film di Rosi e la sua capacità di far pervenire ovunque, fino ai margini della società, la denuncia delle condizioni di miseria in cui si trovava la Sicilia del secondo dopoguerra, quella degli anni 1943-'60, per riprendere il primo dei titoli ai quali Rosi aveva pensato per il suo film. E il critico di Cinema Nuovo sembra aderire profondamente a questa visione dei problemi della Sicilia quando rileva che "gli esterni delle imprese di Giuliano, fotografati da quel sensibilissimo e rigoroso operatore che è Gianni Di Venanzo, tradiscano la meccanicità di certe letture e assimilazioni americane del regista". Invece a.f. esalta le qualità creative di Rosi quando il regista "deve aderire immediatamente alla disperazione e alla rivolta delle plebi diseredate e respinte ai margini del paese legale". A suo avviso, questa adesione di Francesco Rosi dà luogo alle "sequenze più belle e memorabili del suo film" e a.f. ne indica alcune:

Il dolore e la disperata protesta delle donne nell'aspra e vigorosa sequenza del rastrellamento di Montelepre, il tragico silenzio che si stende a Portella della Ginestra sul campo della strage, la ribellione del pastorello che si trova suo malgrado coinvolto nell'impresa per ritrovarsi incredulo nella gabbia di Viterbo.

In definitiva, per a.f., l'"emozione civile, che è il segno distintivo del film, il suo impulso necessario, ne costituisce poi anche il limite" che a suo avviso si può ritrovare "nella dispersione dell'asse ideologico e narrativo che dovrebbe sostenerne il discorso". Non solo, dunque, a.f. apprezza il film per l'"emozione civile", ma ne trova il limite nell'allentamento della tensione ideologica.

(1 - continua)


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000