L'aquiletta bavara




a. b.



Il vascello "La Mouette" attraccò a Civitavecchia nello stesso momento in cui il generale Cialdini veniva nominato sul campo duca di Gaeta. Il sigillo alla conquista del Sud, tuttavia, non era stato ancora apposto: resistevano Messina, in Sicilia, e Civitella del Tronto, in Abruzzo. Sarebbero state prese, poi, per fame e per diluvio d'artiglieria. Giunti a Roma, i Borbone furono accolti da Pio IX e alloggiati in un'ala del Quirinale. In seguito si sarebbero trasferiti a Palazzo Farnese, di loro proprietà.
Sebbene, tranne l'Inghilterra, nessuno Stato europeo avesse riconosciuto il Regno d'Italia proclamato a Torino, Francesco II finì presto per non coltivare più nell'animo alcun progetto di restaurazione. Il re rimase a Roma fino al 1870. Poi si ritirò in Baviera, nel castello di Starnberg. Sarebbe morto in territorio allora austriaco, ad Arco, in provincia di Trento, il 27 dicembre 1884. Dopo dieci anni di matrimonio, Maria Sofia, nella notte di Natale del '69, gli aveva dato una figlia, Cristina Maria Pia, che visse appena tre mesi. Non ci furono altri eredi diretti.
Maria Sofia, l'"aquiletta bavara" nella definizione del D'Annunzio, sopravvisse a lungo, separata di fatto dal marito, nutrendo ben altri sentimenti. Nei suoi progetti, perseguiti con determinazione, prevaleva un'alternativa radicale: il ritorno al trono di Napoli o la vendetta contro i Savoia. Austria, Russia, Prussia e Stati Pontifici erano dalla sua parte. E dalla sua parte stava il devoto barone Rodolfo di Rothschild, quarto della dinastia dei grandi banchieri, da gran tempo amico dei sovrani, e finanziatore delle loro imprese legittimiste, che seguirono diverse strade.
La prima puntava alla rivolta del popolo, vessato quanto e più di prima. A piazza Farnese, a Campo de' Fiori, a piazza Montanara si svolgevano arruolamenti ed esercitazioni militari alla luce del sole. Vi affluivano onesti filoborbonici, mazziniani e garibaldini delusi, romantici innamorati dell'"eroina di Gaeta", spericolati avventurieri e figuri di fama criminale. Gli armaioli di via Frattina fornivano le armi senza problemi. A piazza delle Tartarughe un ebreo, tale Pontecorvo, confezionava le uniformi. La Sacra Penitenzieria aveva invitato i confessori a garantire il regno dei cieli a tutti i volontari. I conventi, soprattutto quello dei Trinitari di via Condotti, offrivano ospitalità ai più celebri capi "fuorbanditi", come Chiavone, Crocco, Ninco Nanco, Guerra, Fuocco, Giordano, quando giungevano a Roma per essere ricevuti da Maria Sofia.
Da tutta Italia e da mezza Europa spiriti avventurosi mettevano al servizio della sovrana spodestata dai piemontesi la propria vita e le bande che avevano formato nelle province meridionali. Il primo fu un italiano, il colonnello borbonico Francesco Luvarà, accompagnato dal barone francese Klitsche de la Grange, che andò a combattere sulle montagne di Tagliacozzo, prima di essere battuto e costretto a riparare in Francia. Poi, Emilio de Christen, giovane imparentato con i più bei nomi dell'aristocrazia parigina: tenne in scacco i bersaglieri in tutto l'ex Reame, finché, arrestato a Napoli, ebbe salva la vita grazie all'intervento di Napoleone III. Sorte peggiore toccò allo spagnolo José Borjes, che dapprima combatté in Calabria con Achille Caracciolo di Girifalco, poi ricevette l'ordine di passare agli ordini del capobrigante Crocco, che operava nel territorio di Rionero in Vulture. Quando Borjes si rese conto d'avere a che fare con uno scellerato criminale comune, se ne staccò, insieme con una ventina di compagni, con i quali fu catturato e fucilato a Tagliacozzo. L'esecuzione fu condannata in tutta Europa e deplorata persino da Victor Hugo. Lo spagnolo, in realtà, fu il primo e ultimo vero crociato della causa legittimista. L'elenco potrebbe continuare: col marchese belga Alfredo di Trozégies, che si pose a capo della banda di Chiavone, partecipò a molte azioni di guerriglia e, catturato, finì di fronte al plotone d'esecuzione. Della gran banda di Chiavone fece parte un altro spagnolo, Carlo Tristany, che si diede subito a rapine e a saccheggi, fino al giorno in cui tradì e fece fucilare il capobrigante e fuggì in patria. E altri ancora: il nobile tedesco Carlo Kalkrent di Gotha, poeta romantico; il musicista, anch'egli tedesco, Zimmermann; l'ex tenente francese De Rivière, lo spagnolo Mussot, il bretone De Langlais. Finirono tutti sotto il piombo piemontese, entrando nelle pagine della complessa storia della guerra civile seguita all'annessione, che vide in campo, al momento culminante, 30 mila "briganti" contro 120 mila militari: quattro contro uno.
L'insurrezione durò dieci anni. Dapprima conservò le caratteristiche del legittimismo. In seguito finì per trasformarsi in rivolta irrazionale, quasi del tutto priva di fini politici e di istanze sociali, degenerando infine in atti di criminalità pura. In quella terribile campagna, l'esercito regolare ebbe 314 morti, 24 dispersi e 80 feriti. Molto più sangue scorse tra le file dei "briganti". Nella zona di Gaeta 71 furono fucilati e 160 caddero in combattimento; nelle Calabrie, 124 fucilati e 134 caduti; nella Basilicata ne furono uccisi 1.232; negli Abruzzi 2.000. Migliaia i prigionieri, centinaia dei quali condannati all'ergastolo.
Ad un certo punto Maria Sofia prese atto, realisticamente, che non c'era da sperare in una rivoluzione contadina, e ruppe ogni rapporto con briganti e avventurieri. Ma non rinunciò al suo progetto iniziale. Si dedicò all'alternativa al ritorno al trono: alla vendetta, cioè, che avrebbe dovuto colpire la dinastia sabauda.
Maria Sofia era nella villa Hamilton, a Neuilly-sur-Seine, quando apprese dai giornali che il generale Bava Beccaris aveva dapprima sperimentato sulla folla in sommossa disarmata a Milano gli effetti del nuovo fucile "Modello 91", poi aveva deciso di passare la parola addirittura al cannone. E, sebbene un anarchico avesse pugnalato a morte una sua adorata sorella, la favolosa imperatrice Sissi, proprio con gli anarchici strinse rapporti, tramite Charles Malato, figlio di deportati alla Caienna, all'Isola del Diavolo, giornalista, ed estremista fino alla violenza sanguinaria. Malato era amico di Errico Malatesta, originario di Santa Maria Capua Vetere, dunque ex suddito dei Borbone, autorevole leader della sovversione anarchica internazionale. E come "amico fidato" lo introdusse nella piccola corte di Neuilly.
All'epoca, non erano solo gli anarchici a voler sovvertire il giovane Stato italiano. L'Italia stava rovinando fra crisi economiche, speculazioni, scandali bancari, corruzione diffusa, imprese coloniali che, oltre a fallire, svuotavano le casse pubbliche, costringendo il governo a far ricorso a quelle "tasse sulla miseria" che colpivano i consumi popolari, il sale, il vino, il macinato e il pane, causando i primi conflitti sociali che mettevano in allarme la borghesia ingorda del Nord e quella parassitaria del Sud. In questo scenario si proiettavano le mire della Francia repubblicana, che vedeva di buon occhio la caduta della monarchia italiana, fatto che avrebbe consentito la sua egemonia sulla penisola; e del Vaticano che, nella prospettiva di un'Italia di repubbliche federate, avrebbe potuto stabilire rapporti di Vicariato, ripristinando con ciò stesso l'unica sovranità dell'unico monarca possibile nella penisola, cioè il Papa.
A Neuilly, dunque, si coltivava la speranza che l'Italia fosse alla vigilia di un collasso, di una catastrofe analoga a quella che aveva cancellato le Due Sicilie. E non a caso l'entourage di Maria Sofia si componeva di alti prelati, di esponenti della nobiltà borbonica, di membri influenti dell'ambasciata austriaca a Parigi, dell'immancabile barone di Rothschild, oltre che di un misterioso napoletano, un certo Angelo Insogna, del quale si sa ancora oggi pochissimo, se non che era ex direttore di quotidiani legittimisti, biografo di Francesco II, personaggio inutilmente braccato dalla polizia italiana e comunque sempre presente nei momenti della congiura anti-sabauda, che lo storico Giovanni Artieri colloca fra il 1894 e il 1912. Di sicuro, Insogna fu l'alter ego della regina, e mantenne i contatti con gli anarchici italiani presenti in Francia e a Paterson, nel New Jersey, Stati Uniti.
Nacque a Neuilly l'idea di uccidere Umberto I di Savoia? O si trattava di un progetto stilato a Paterson, perfezionato con Maria Sofia, e concluso col regicidio di Monza?
E' una storia ricca di misteri. Le carte segrete di Giolitti non contengono in merito molte rivelazioni. Ma è certo che lo statista piemontese affermò in varie occasioni di "avere fondati sospetti" che l'anima della congiura era stata "la nota Signora". E il prefetto di Torino, Guiccioli, dichiarò: "Giolitti mi ha detto che il Governo ha le prove di come fu ordito il complotto di Monza. La regina Maria Sofia ne fu l'ispiratrice e la mandante e procurò i mezzi finanziari per attuarlo. Nei contatti da lei avuti con Errico Malatesta fu prestabilita la chiamata di un agente anarchico adatto allo scopo, proveniente dal numeroso gruppo di anarchici di Paterson (Usa). A Torino trovò appoggio presso Oddino Morgari, deputato socialista rivoluzionario".
Malatesta era confinato a Lampedusa. L'isola era sorvegliatissima e l'anarchico era guardato a vista. Malgrado ciò, riuscì ad evadere. Il direttore della colonia penale era stato avvisato dal comandante di una nave greca che qualcosa bolliva in pentola. Non mosse un dito. Quattro giorni dopo la fuga, il console italiano a Tunisi fu in grado di fornire al governo italiano una dettagliata descrizione dell'evasione, compresa la somma pagata a un battelliere: 700 lire. Scrive Arrigo Petacco: "Malatesta si trasferì a Malta, da lì raggiunse Londra per poi trasferirsi a Parigi. Il 15 agosto del 1899 si imbarcava a Le Havre su un transatlantico diretto a New York, per compiere un giro di conferenze a Paterson [...]. Alcuni mesi dopo partiva alla volta di New York anche Angelo Insogna. Iniziava la fase esecutiva di una complessa operazione che doveva sfociare alla fine in un insospettabile "gesto individuale"".
Il gesto individuale, cioè tre colpi di pistola sparati contro Umberto I, lo avrebbe compiuto Gaetano Bresci, nato a Coiano di Prato, residente a Paterson, noto come "lo Zittone" per il suo temperamento schivo e taciturno. Bresci sbarcò a Le Havre (altro mistero: incontrò Insogna, che vi abitava in Rue des Horphelines?), poi raggiunse Genova, senza incontrare difficoltà in dogana, poi Prato, Castel San Pietro e Milano. Infine, in compagnia di un altro anarchico, Luigi Granotti, si trasferì a Monza. Mistero nel mistero: due sovversivi "schedati" e in possesso di armi potevano alloggiare a due passi dal palazzo reale, registrandosi tranquillamente con i propri nomi e cognomi, potevano aggirarsi tranquillamente in città, cenare insieme, entrare da due ingressi diversi nel campo sportivo dove, presente il re, si svolgeva un saggio ginnico, sedere nelle vicinanze del palco reale. Bresci era a meno di dieci metri di distanza dal monarca. Quando, alla fine della cerimonia di premiazione degli atleti, Umberto salì sulla carrozza scoperta, Bresci si avvicinò, puntò l'arma, sparò e lo uccise. Fu catturato sul momento. Granotti si sganciò, gettò la sua pistola in un prato, tornò in albergo, pagò il conto e lasciò Monza. Bresci, dopo un processo sommario e dieci minuti di Camera di consiglio, sarà condannato all'ergastolo.
Vittorio Emanuele III, che successe al re assassinato, non chiese vendette, reazioni o altro. Ancora oggi ci si interroga su tutta la vicenda, sulle omissioni, sulla cecità collettiva delle istituzioni, sul sospetto dell'esistenza, al di là di Maria Sofia e di Malatesta e compagni, di un personaggio di ben più alta e misteriosa autorità: ci fu, agì, tirò i fili, in segreto, un "grande vecchio"?
Il regicidio fu un errore politico clamoroso. Salito al trono Vittorio Emanuele III, si aprì l'epoca giolittiana. Cambiò il colore del cielo e della terra. Si restituì alla vita politica una maggiore libertà, apprezzata dai socialisti. Si concesse il suffragio universale. Soprattutto, si affrontò il problema anarchico. Abili agenti, come i misteriosi "Virgilio", "Dante", "A 113", infiltrarono ad alto livello le organizzazioni di Paterson e la stessa corte di Neuilly. Giolitti era informato su tutto e su tutti. Anche sul fatto che alla piccola corte di Maria Sofia si stava tramando qualcosa di grosso. Infatti, si era messo a punto un piano per liberare Bresci, detenuto numero 515 in isolamento, guardato a vista, con obbligo di luci accese anche di notte, in una cella al bagno penale dell'isola di Santo Stefano.
Un'oscura ragione di Stato fu all'origine dell'invio all'isola del commendator Alessandro Doria, "direttore del circolo delle carceri italiane", sulla cui missione non è stata mai fatta luce. Sta di fatto che, alle 14,55 del 22 maggio 1901, poche ore dopo la sua partenza dal penitenziario, Bresci fu trovato impiccato in cella, con un asciugamano. Forse Giolitti tirò un sospiro. Gli anarchici erano definitivamente fuori gioco.
Intanto, Maria Sofia perdeva appoggi. Vienna era interessata a mantenere l'Italia nella Triplice Alleanza. Il Vaticano mutò la sua politica anti-unitaria. La regina venne espulsa da Parigi e si stabilì a Monaco. E da questa città, allo scoppio della prima guerra mondiale, quando si era schierata con i non-interventisti italiani, la duchessa di Castro (come ormai si faceva chiamare) continuò a congiurare contro l'Italia. Con la complicità di personaggi di rilievo. Così, il 27 settembre 1915 saltò in aria la santabarbara della nave corazzata "Benedetto Brin", ancorata a Brindisi, che affondò col capitano e con 400 uomini d'equipaggio. In dicembre, toccò alla corazzata "Regina Margherita" che, uscita da Valona, in "rotta di sicurezza", finì invece su un campo minato. Pochi mesi dopo, nell'agosto del 1916, saltò in aria e affondò nel porto di Taranto un'altra corazzata, la "Leonardo da Vinci": 230 i morti. Furono perdite da battaglia navale non combattuta, e tuttavia tragicamente perduta. L'inchiesta portò a nomi che facevano accapponare la pelle. Vennero arrestati la contessa Frida Ricci Pozzoli, amica personale di Maria Sofia e in eccellenti rapporti con Berlino e Vienna, e gli ex deputati Adolfo Brunicardi, Enrico Buonanno e Luigi Dini, "imputati di intelligenza col nemico e di implicazioni in parte affaristiche e in parte spionistiche". Agenti di Maria Sofia agivano anche accanto al soglio pontificio. Uno di essi era Monsignor Rudolf Gerlak, bavarese, legatissimo all'ex regina. Fu provato che aveva diretto personalmente il sabotaggio della "Brin" e della "Leonardo". Condannato a morte in contumacia, quando fu finalmente arrestato non venne fucilato, ma, grazie a potenti intercessioni, accompagnato alla frontiera svizzera da dove raggiunse la Baviera.
Dura a morire, un'ultima speranza le si accese al tempo della "Spedizione punitiva" austro-tedesca e della rotta di Caporetto. Ma si spense con la resistenza italiana sul Piave e con Vittorio Veneto. La regina sopravvisse alla vittoria italiana, ormai avanti negli anni. Ne aveva poco più di 83 quando passò dal sonno alla morte, la notte del 18 gennaio 1925. Fu sepolta a Monaco, poi a Roma, infine, con Francesco II, nel Pantheon dei Borbone nella sua antica capitale, Napoli, nel maggio 1984. Alla cerimonia parteciparono i discendenti di tutte le famiglie reali europee. Erano rappresentati anche i Savoia: da Amedeo, duca d'Aosta. Tutti si inchinarono di fronte ai gigli che fregiavano la tomba della "barbara Maria Sofia di Wittelsbach", la splendida aquiletta bavara che aveva volato più in alto di tutte le regine del Regno del Sud.


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