L'amletico Francesco II




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Bruno Alfano
Coll.: G. Decliva, F. Rey, A. Demario, E. Landi



Giovane, pieno di buone intenzioni, d'animo nobile, e fatalista, con un'amara coscienza dei propri limiti e un testardo rifiuto dell'azione: questo fu il primo Francesco II, Re Franceschiello per il volgo, che sedette sul trono di Napoli solo per due anni, prima che sul Reame si abbattesse, bella e feroce, la spedizione dei Mille. La sua nascita fu già preludio di tragedia: sua madre morì due settimane dopo averlo dato alla luce; e il padre, poi risposatosi, gli diede undici fratellastri. Crebbe dunque solitario, schivo, incline alla malinconia, attratto dalla metafisica, in mezzo a una rumorosa famiglia che non spiccava per cultura e disposizione al governo della cosa pubblica. Fu egli stesso educato da istitutori inetti, incapaci, zelanti e accaniti "difensori delle più false e demoralizzanti dottrine in fatto di princìpi politici", come scrisse al suo Re l'incaricato d'affari del Piemonte.
Gli venne dato il titolo ufficiale di duca di Calabria. Amò suo padre (che era solito definire "la metà della famiglia" superstite, dopo la morte della madre), temendolo al punto che obbediva ai suoi ordini, ma li eseguiva tremando. E fu Ferdinando a scegliergli la sposa. La scelta cadde sulla quartogenita del duca Massimiliano di Baviera, una ragazza non ancora diciottenne, che dalla Casa dei Wittelsbach aveva ereditato la bellezza, la sregolatezza, la determinazione e un pizzico di follia. Si chiamava Maria Sofia, ed era l'antitesi del fidanzato: imperiosa, quanto lui era timido (dovettero trascorrere più settimane, prima che il Re consumasse il matrimonio); brillante, quanto lui era dimesso; amante di cani, cavalli e caccia, perfetta amazzone, eccellente nuotatrice, ottima ballerina, quanto lui era legato alla solitudine, alla preghiera, all'abulia.
Celebrate per procura le nozze a Monaco, imbarcatasi a Trieste sulla nave borbonica "La Fulminante", sbarcata a Bari, dove fu accolta da una folla osannante, Maria Sofia raggiunse Napoli nel momento in cui il vecchio Ferdinando "Re Bomba", neanche cinquantenne, ma incanutito, debilitato dal morbo che lo distruggeva, chiamava al capezzale le celebrità mediche del Reame, compreso il celebre Vincenzo Lanza, inviso alla Corte per il suo liberalismo, che comunicò ai familiari che Ferdinando sarebbe morto di lì a poco, "dopo aver contemplato da vivo il suo cadavere". Come in realtà avvenne, dopo che il Re aveva ribadito all'erede le linee-base della sua politica: non allearsi con l'Austria e col Piemonte, (divampava allora la seconda guerra d'Indipendenza); temporeggiare; fidare nella geopolitica (il Regno aveva come baluardi il mare e le terre pontificie).
"Come mi pesa questa corona", disse Francesco II, re a 23 anni. Il Reame sembrava sull'orlo del disastro. E lo era: i posti-chiave erano in pugno agli elementi più retrivi, la Corte era legata al più bieco conservatorismo, e rimproverava al Re di non avere mano sufficientemente ferma; i fratellastri erano degli scioperati; Maria Sofia, detestata dai liberali, era una Regina sgarbata e intrigante. La stessa matrigna ordì una congiura per spodestare il sovrano e far salire al trono il suo primogenito, Luigi duca di Trani, detto "Tetè". Quando le prove del complotto furono portate a Francesco, egli ordinò che fossero gettate al fuoco, limitandosi a dire: "So già tutto, si tratta della moglie di mio padre".
Ma si dovette giungere ai giorni dello sbarco di Garibaldi in Sicilia per cogliere nella sua pienezza il temperamento amletico del Re, la sua fatale irresolutezza, il suo fatalismo. Non a caso un giorno aveva detto: "Io non tengo né alla vita né al Regno, perché penso a ciò che sta scritto: Dio dà, Dio toglie". Eppure, aveva una marina di nobili tradizioni e un esercito numeroso e in posizione schiacciante rispetto ai garibaldini. Chi prese in pugno la situazione fu proprio Maria Sofia. E alla Regina guardarono la Corte e l'esercito, pronti anche a radere al suolo Palermo, piuttosto che cederla a "Galubardo", a "Peppiniello", com'era chiamato Garibaldi. Ma Francesco si oppose, preferiva le trattative, pensando forse che, ceduta la Sicilia, tradizionalmente insofferente, avrebbe salvato il Reame continentale. Quando si accorse che così non sarebbe stato, era ormai chiuso a Gaeta: e qui si rivelò l'altro Francesco II, il Borbone che si comportò da uomo e da soldato, quando il Regno era perduto per sempre.
6 maggio 1860. Ore 20. Giunge a Napoli la notizia, peraltro attesa, che Garibaldi si è imbarcato con mille volontari allo scoglio di Quarto e dirige a Sud, per sbarcare in un punto imprecisato delle coste del Regno delle Due Sicilie. Il telegramma è stato spedito dal Console napoletano a Genova. Il Re non lo legge subito, perché sta pregando, mentre la Corte si prepara alla sua visita, prevista per la mattina seguente, alla cappella di San Gennaro. Quando ne prende visione, Francesco II non si preoccupa più di tanto, e conferma il programma dell'indomani.
In quei giorni il Reame era alla deriva, privo di alleanza in campo interno e internazionale: nemico il Piemonte, avversa l'Inghilterra, neutrale la Francia, amica ma lontana e impotente la Russia. Solo una parte dell'aristocrazia era favorevole ai Borbone. Il popolo era percorso da oscuri fremiti di ribellione, i ceti medi e gli intellettuali erano diventati una forza che la polizia non riusciva più a controllare. Moti erano in corso a Palermo, a Catania, a Messina, a Trapani, a Marsala, mentre sulle montagne siciliane spadroneggiavano bande armate. Per ristabilire l'ordine nell'isola, era stata inviata una forte colonna agli ordini del giovane generale Letizia. Il pensiero di Francesco, comunque, era un altro: Napoleone III di Francia aveva ritirato l'adesione all'espansionismo piemontese perseguito da Vittorio Emanuele e da Cavour, i liberali delle Due Sicilie non sembravano in grado di attuare il loro programma rivoluzionario, eventuali aggressioni dall'esterno potevano essere rintuzzate dall'esercito napoletano, di recente riorganizzato.
Le cose, però, non stavano esattamente così. Classe dirigente e generali napoletani formavano una stanca, usurata gerontocrazia. Il Lanza, scelto come comandante in capo in Sicilia all'indomani dello sbarco garibaldino, aveva 72 anni. Il duca D'Ischi-tella, suo concorrente, ne aveva 74. Il generale Landi, designato per fermare l'avanzata dei Mille, oltre 70. Sia Filangieri che D'Ischitella rifiutarono di recarsi in Sicilia a bloccare i "garibaldesi". Napoli non disponeva di un vero uomo di Stato, né di un vero generale. E commetteva errori inenarrabili. Passarono ben sette giorni, prima che si riunisse (il 14 maggio) il Consiglio dei ministri e si predisponesse la difesa. Nel frattempo (l'11 maggio), i Mille erano già sbarcati, senza essere stati intercettati dalla Real Marina, e con la complicità della flotta inglese. La scelta di Landi fu più che mai infelice: promosso generale da poco, non riusciva neppure a montare a cavallo; era debole e indeciso; soprattutto, non possedeva alcuna capacità tattica o strategica. Infine, si fece rientrare a Palermo il Letizia, con la fanteria e l'artiglieria, dall'area fra Trapani e Marsala.
La notizia dello sbarco fu nascosta ai napoletani, che ne ebbero sentore solo il 13, quando l'unico quotidiano permesso, Il Giornale Ufficiale, annunciò "un atto di flagrante pirateria" compiuto con lo sbarco a Marsala di "800 filibustieri" e la loro marcia verso Castelvetrano. Messa così la vicenda, nella capitale non c'era alcun segno visibile dell'imminente catastrofe. Il terremoto scoppiò quando si seppe della caduta di Palermo. A quel punto, Re e ministri misero in moto un'attività frenetica e disordinata. Solo il 25 giugno venne fuori "l'atto sovrano", col quale si ripristinava nientemeno che lo Statuto del '48, si adottava il tricolore, si formava un governo costituzionale e si concedeva l'amnistia ai prigionieri politici. Erano tutti segni di debolezza. Napoli finì nel caos: ai moti rivoluzionari si unirono le insorgenze camorristiche; prevalse l'anarchia, lo "squagliamento". Per prima "si squagliò" la Real Marina. Poi fu la volta degli intendenti provinciali. Infine toccò alla polizia politica.
In provincia le cose andarono peggio. Insorsero l'intera Basilicata, Cosenza, Avellino e il Matese, che si liberarono prima dello sbarco di Garibaldi in Calabria del 19 agosto. Il 7 settembre egli entrava a Napoli, il 2 ottobre vinceva la battaglia decisiva del Volturno, dove l'esercito borbonico si batté valorosamente. Alle 6 di sera del 6 settembre, Francesco si era imbarcato con la famiglia sul vapore "Il Messaggero", che lo portò a Gaeta. L'ordine camorrista regnava a Napoli. Una parvenza di Stato era rappresentata dal governo provvisorio affidato a Liborio Romano.
"Tornerò", aveva detto Francesco II imbarcandosi. A Gaeta aveva incontrato il suo confessore, padre Borrelli, che per consolarlo gli disse: "Se Vostra Maestà non è stato un gran re sulla terra, sarà un gran santo nel cielo".
Nella fortezza di Gaeta, alta sull'istmo di Montesecco, agli ordini di Francesco combattevano 1.770 ufficiali e 19.700 soldati, con 1.080 cavalli e un centinaio di pezzi d'artiglieria. L'attacco del generale piemontese Cialdini era cominciato l'11 novembre, e aveva portato alla conquista degli avamposti. Il 12 tre generali borbonici, Barbalonga, Colonna e Salzano, convinti dell'inutilità della resistenza, si erano arresi. Caddero tre località contigue alla fortezza: i Cappuccini, Monte Lombrone e Torre Viola.
Quando cominciò il vero assedio, il 13, già scarseggiavano i viveri, non c'era il soldo per la truppa, e sulla fortezza si abbattevano uragani di fuoco. Esaltata dall'acre odore della polvere da sparo, la Regina era fra i feriti o addirittura sugli spalti, circostanza che costringeva persino il rude Cialdini ad intimare ai suoi di non sparare sull'"Augusta Signora". Nessuno disobbediva.
Scoppiò un'epidemia di tifo e i soldati morivano come mosche. A quel punto Francesco lasciò libero chiunque volesse abbandonare Gaeta. Rimasero, e gli giurarono fedeltà, mille ufficiali. Il 7 dicembre, giorno in cui Vittorio Emanuele II giunse sul fronte d'assedio, il Borbone emise un coraggioso proclama: "Da questa piazza dove difendo, più che la mia corona, l'indipendenza della Patria nostra, s'alza la voce del vostro sovrano per consolarvi nelle miserie, per promettervi tempi più felici". E allorché, il 12, Napoleone III gli inviò un messaggio col quale gli suggeriva di "evitare una lotta estrema" e di "ritirarsi con gli onori militari, prima di esservi inevitabilmente costretto", Francesco II rispose fieramente: "Di rado, Sire, un re torna sul trono se un raggio di gloria non indora la sua caduta... se nulla dalla resistenza avrò a sperare, non mi resta che provare al mondo che sono superiore alla mia fortuna".
L'8 gennaio spararono tutti i cannoni degli assedianti: dodicimila proiettili caddero sulla fortezza, fra le vie e le case di Gaeta. Dopo una tregua, attuata per seppellire i morti ed evacuare i feriti, le navi della flotta francese, che fino a quel momento avevano impedito l'assedio della città dal mare, levarono le ancore. Furono sostituite da quelle della marina piemontese: 14 unità, che il 22 gennaio aprirono il fuoco, colpendo una polveriera della fortezza, che esplose dilaniando duecento soldati e un centinaio di civili. Poi ripresero i bombardamenti da terra, più furiosi che mai. Cialdini intendeva farla finita, a costo di radere al suolo la città. L'epilogo si ebbe l'11 febbraio, quando Francesco II avviò le trattative di resa, con l'onore delle armi, che venne concesso. Tre giorni dopo una nave di Napoleone III, "La Mouette", accoglieva a bordo il Borbone e Maria Sofia. Quando il vascello si mosse, poco dopo le nove, dalla fortezza, dov'erano penetrate le avanguardie piemontesi, ventuno colpi di cannone salutarono i sovrani. Francesco era sull'attenti, la mano al berretto, per l'ultimo saluto, e la regina al suo fianco, con la veletta del cappello calata sugli occhi, per nascondere le lacrime che non aveva saputo trattenere. Era il 14 febbraio 1861. I gigli borbonici erano ammainati per sempre.
Quando, nell'ottobre '60, ci fu il voto per l'annessione, a Napoli ci furono un milione e 300 mila sì e 10 mila no. Si procedette all'annessione. Dapprima fu festa grande. Subito dopo grande trauma. Reciproco, cioè dei "napoletani" e dei "piemontesi". Per cause soggettive, e per ragioni obiettive.
Le prime. Una bassa letteratura romantica aveva suggerito al Nord l'idea di una terra paradisiaca, ferace, ricca. La realtà post-unitaria lo mise di fronte a un paradiso, sì, ma "abitato da diavoli", in una terra dura e spietata, poverissima, con popoli flagellati dall'analfabetismo (punte del 97 per cento), dalla malaria, dal colera, dal tracoma. Quel Nord scoprì l'immensa miseria meridionale, e il "cafone" del Sud, incomprensibile al borghese settentrionale, fu visto come il simbolo di una sconfitta, il fastidioso simbolo negativo al tempo del trionfo. Al punto che il retorico autore dell'Ettore Fieramosca e piagnucoloso reazionario del Niccolò de' Lapi, Massimo D'Azeglio, scrisse che dormire insieme con un napoletano sarebbe stato peggio che dormire con un vaioloso!
Sull'altro fronte, quello del Sud, le delusioni non furono meno brucianti. Le plebi rurali avevano sperato nella fine del servaggio economico e sociale, così come i meridionali colti e sinceramente patriottici avevano ritenuto sicuro il progresso e dunque certo il rovesciamento della loro situazione marginale in economia e in politica. E tutti si ebbero nuove tasse, leva militare, instaurazione di un regime duro, severo, finanziariamente implacabile. Di qui, da una parte errori radicati nel rancore, e dall'altra errori radicati nella sfiducia.
Madornale, ad esempio, fu l'affrettato scioglimento dell'esercito garibaldino meridionale, dovuto alla gretta miopia della vecchia casta militare piemontese e ai sospetti dei più incolti cortigiani torinesi, che vollero vedere un "pericolo repubblicano" là dove non c'era, e che in questo modo mandarono disperso, senza alcun riconoscimento, il fior fiore del patriottismo meridionale. La liquidazione fu affidata a un ufficiale particolarmente duro e ciecamente legittimista, il generale Jacopo Genova di Revel. Questa decisione ebbe gravissime conseguenze nella lotta che il giovane Stato dovette immediatamente ingaggiare contro il brigantaggio. Tutti gli storici moderni del Risorgimento, dal Carocci al Pieri, sono concordi nel notare che se contro i "briganti" e i contadini in rivolta fossero stati utilizzati gli elementi democratici che componevano l'esercito garibaldino meridionale (50 mila uomini), molto probabilmente si sarebbero evitati gli orribili eccessi che funestarono quella guerra civile, che reclamò la presenza di Cialdini e di 120 mila uomini ai suoi ordini (metà dell'esercito italiano) per "riconquistare" palmo a palmo il Sud. La pacificazione, cioè, sarebbe stata meno cruenta e più rapida.
Altro tremendo errore di sfiducia fu rappresentato dalla situazione di monopolio del potere, instaurato a favore di uomini del Nord. Ancora un quinquennio dopo l'annessione delle Due Sicilie, su 59 prefetti esistenti in Italia, ce n'erano ben 43 piemontesi puro sangue, mentre gli altri erano nati in Emilia e in Toscana. Nel primo Parlamento unitario, su 443 deputati, 251 erano del Centro-Nord, con ben 83 piemontesi e 140 tra lombardi, emiliani e toscani, mentre l'intero Sud e la Sicilia erano rappresentati solo da 192 elementi di minoranza. Il Mezzo-giorno, dunque, venne escluso dalla direzione politica del Paese. Tutte le sue autonomie vennero distrutte, comprese quelle che sarebbero state preziose per un più equilibrato sviluppo del nuovo Stato. In sintesi: il Nord procedette all'abbattimento delle barriere protettive che avevano isolato il Sud, creò un sistema dl comunicazioni interne, ma non riuscì ad orchestrare due popoli, due economie, due culture differenti.
Entrò in crisi la vecchia, fiorente industria locale del Sud. Fu rovinata di colpo, dopo il 1860, tutta l'industria tessile di Otranto, di Salerno, di Gallipoli, di Piedimonte d'Alife, i cui prodotti erano assorbiti dall'esercito borbonico, che non esisteva più; tutte le commesse per il nuovo esercito italiano furono passate a Schio. Crollarono di colpo l'industria canapiera e la cultura della canapa, l'industria siderurgica napoletana, la produzione della celebre "robbia" che dava da vivere a Caserta e a Castellammare, l'industria della seta che era stata fiorentissima a San Leucio e altrove. 1.621 villaggi rurali su 1.848 ebbero almeno una strada di accesso, che prima non esisteva, ma questo non fece fiorire i commerci: la guerra doganale con la Francia e il forte protezionismo delle imprese del Nord penalizzarono esportazioni e produzioni del Sud, con la conseguente decadenza dei porti e degli scali marittimi meridionali. La stessa riforma agraria fu solo liberalizzazione di terre appartenute alla Chiesa. Nel Sud furono messi all'incanto 590 mila ettari di terre, più decine di migliaia di fondi di incerta estensione, e ciò contribuì ad arricchire solo i "galantuomini" che ebbero la possibilità di acquistarli. Con due conseguenze immediate: non si favorì la nascita di una borghesia agricola formata da piccoli proprietari, con parallela delusione dei contadini rimasti anche sotto i "piemontesi" senza terra; il clero spossessato si spostò tutto all'opposizione e diede un potente aiuto alle rivolte contadine e al brigantaggio.
Furono in grandissima parte qui le radici di quella "questione meridionale" che ha rappresentato gli anni difficili del Sud, e che per tanti versi ancora oggi si proietta - sotto il profilo economico, sociale, culturale e psicologico - nelle regioni del Sud, anche con i nodi separatisti emersi di recente nelle ideologie protezioniste e reazionarie del Nord opulento.


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