Scherzi d'afa meridiana ovvero l'ideologia sottovuoto dei Vassalli




Aldo Bello



L'avversione di Sebastiano Vassalli per la cultura meridionale non è una novità, come non lo è di altri settentrionali scrittori (preferisco questa espressione all'altra, "scrittori settentrionali", che non sottende i climi - nel senso di atmosfere, e se si vuole di contesti - ma va oltre, infilandosi nei vicoli ciechi delle prese di distanza letteraria, quando non anche del disprezzo dei valori e dei contenuti espressi dai meridionali scrittori) che in nome di appartenenze locali o territoriali rivendicano "lingue", "linee" (si cominciò con una Linea lombarda della poesia, con prefazione di Luciano Anceschi) e quant'altro possa identificare non la ricchezza della diversità nell'unità, ma l'orgoglio della discontinuità e della separatezza come cardini di una cultura alternativa immersa nel crogiolo di una civiltà, di un'economia, di un'organizzazione sociale "altre", in ogni caso superiori e comunque più nobili delle contigue cultura, economia e organizzazione sociale mediterranee.
Neanche opinioni, solo fumisterie. Che questa volta, però, si sono tradotte in un sorprendente atto d'accusa contro gli "scrittori siciliani", rei - secondo Vassalli - d'essersi limitati a narrare di una mafia tutt'altro che maligna, quasi accattivante, puramente oleografica. Tutti gli isolani narratori, da Verga a Sciascia, sarebbero insomma colpevoli di una sorta di omertà letteraria, per non aver saputo o voluto raccontare la sanguinaria realtà del cartello del crimine. Così si spiegherebbero oltre vent'anni di silenzio di Verga, che avrebbe diluito nell'assenza della parola uno scontroso riserbo esistenziale; e ancor più si spiegherebbero figure come quella del boss don Mariano, tratteggiata da Sciascia ne Il giorno della civetta, come mafioso in servizio permanente effettivo, sì, ma con una forte carica di rispettabilità e, al limite, di umana simpatia.
Non occorre una fantasia eccelsa per collocare queste tesi fra le amenità estive giocate sul filo dell'azzardo di un'originalità a tutti i costi. Quella di Vassalli, infatti, non è un'intuizione critica, priva com'è di un qualsiasi spessore concettuale. E', visti i precedenti di questo evanescente scriba antimeridionale, solo un rigurgito ideologico paludato con afose elucubrazioni. E che sia così, purtroppo, lo prova la considerazione che costui pretende di giudicare Verga di fine Ottocento e Sciascia del 1961 evitando ogni prospettazione storica, condannando attraverso un armamentario ideologico di fine millennio e d'epoca telematica ciò che fu scritto prima della rivoluzione industriale e all'epoca del boom (per chi?) e della crisi della rendita terriera. Soltanto a chi mostra un'assoluta inettitudine critica, che sfiora l'insensibilità ermeneutica, può sfuggire infatti che don Mariano, nelle celebri pagine di Sciascia, è il prototipo della mafia rurale degli anni Quaranta e Cinquanta che taglieggiava sull'acqua irrigua e sull'incetta dei prodotti dei campi servendosi di soprastanti, campieri e gabellotti: una mafia patriarcale, ruspante, raramente omicida, che una diversa volontà politica avrebbe potuto trasformare e assorbire nei circuiti delle attività finalmente legali, e che invece fu pilotata dapprima verso le lucrose speculazioni edilizie e in seguito (con gli anni Settanta) verso il traffico degli stupefacenti e il riciclaggio del denaro sporco.
Per quel che riguarda Verga, poi, dedurne dai silenzi letterari l'ansia o l'incubo di non oltrepassare la soglia di svelamento del fenomeno mafioso significa davvero non stare né in cielo né in terra, e cioè leggere in un denso e faticosissimo percorso personale di scrittura, intrisa di inevitabili e anche perduranti silenzi, l'ordito di una segreta e inconfessabile trama di reticenze e di omertà morali e intellettuali di cui l'autore de I Malavoglia e di Mastro don Gesualdo si sarebbe macchiato. Così opinando, si dovrebbe sostenere che la terza parte di Essere e tempo annunciata e mai scritta da Martin Heidegger fu da questi taciuta per occultare la cancerosa corruzione della Repubblica di Weimar; o che - per tornare alle vicende italiane - sebbene fosse stato il meridionale Bernari ad aprire il capitolo della "letteratura industriale" con l'anticipatore Tre operai, il Nord che anche allora produceva e lavorava non seppe o non volle esprimere alcun filone narrativo del genere (il Donnarumma all'assalto di Ottiero Ottieri fu accolto addirittura con una certa freddezza dalla critica militante) per non svelare le condizioni miserabili in cui erano costretti a vivere i nostri emigrati "piantatori di basilico nelle vasche da bagno", oppure gli scempi perpetrati ai danni dell'ambiente...
Che cosa scriverebbe di tutto questo, non dico uno storico della filosofia, ma almeno un saggista imparziale, al tempo dei Vassalli?
E' vero: c'è modo e modo di leggere - e di prendere - le cose. Se Stendhal avesse collocato Fabrizio Del Dongo ai margini della battaglia di Waterloo una trentina d'anni prima che quella sconosciuta cittadina diventasse celebre, sarebbe andato ben oltre la letteratura, avrebbe raggiunto la divinazione! Più o meno la stessa cosa è accaduta a Mario Puzo, che a metà degli anni Sessanta inventò il nome Corleone per narrare la sagra della mafia italo-americana. Corleone era, all'epoca, un piccolo paese dell'entroterra palermitano quasi del tutto sconosciuto al di là del circuito della mafia rurale che includeva Mazzarino, Agrigento, Raffadali, Mussomeli, Menfi, Castelvetrano, Partanna, Marsala, Trapani, Castellammare, Alcamo, Palermo, Termini Imerese, Montelepre (quella del bandito Giuliano) e Misilmeri. Il cuore delle terre mafiose batteva ancora a Villalba, dove una lapide nel cimitero così descriveva vita e gesta del boss dei boss terragni, don Calogero Vizzini: "Precorse ed attuò la riforma agraria / sollevò le sorti di tutte le ingiustizie / fu difensore del diritto dei deboli / raggiungendo altezze mai toccate". Era stato un magistrato a tesserne l'elogio funebre in un commosso articolo.
Comunque, Puzo descrisse, di Corleone, l'ambiente, le persone, la mentalità e i destini in modo altamente realista. Poi accadde che il paese siciliano diventò celebre, non per la serie cinematografica del Padrino, ma per vicende reali di mafia. Domanda elementare: Luciano Liggio e Totò Riina agirono come agirono perché avevano letto il romanzo o visto il film; oppure Puzo (che aveva testualmente dichiarato di non aver mai conosciuto un mafioso prima di scrivere il romanzo) aveva intuito le potenzialità di quel minuscolo centro abitato isolano?
Nessuno potrà mai rispondere, anche se non poche testimonianze hanno confermato che i mafiosi hanno visto nel Padrino un'epopea che agognavano, i riti che cercavano, i comportamenti che volevano imitare, il tipo di famiglia che intendevano costruire, la determinazione feroce con cui intendevano punire il tradimento. Le prime, clamorose testimonianze sul mondo di Cosa Nostra - quelle rese da Tommaso Buscetta e da Totuccio Contorno - potrebbero benissimo far parte della fiction di Puzo, tanto sono aderenti al mondo fittizio che lo scrittore aveva creato due decenni prima. E tuttavia comportamenti, famiglia, epopea, riti, ferocia, visti oggi al di là dell'Atlantico, sono diventati stereotipi che gli stessi italo-americani irridono, al punto che al Godfather hanno intitolato una colossale catena di pizzerie.
Il fatto è che Puzo aveva creato don Vito Corleone per gli americani che avevano bisogno di un padre severo ma giusto, anche se sanguinario: e gli americani se lo godettero, e poi lo metabolizzarono. A noi, invece, è rimasto il paese di Corleone, ex epicentro della mafia rurale, poi epicentro del narcotraffico, del malaffare diffuso, del riciclaggio per via telematica, e delle alleanze carsiche tra politica e cartelli del crimine organizzato. Capitalismo e famiglia (vero oggetto dei libri di Puzo) sono molto diversi se letti al di qua o al di là dell'Atlantico. Ma anche se letti a nord o a sud della penisola; e magari ad est o ad ovest del Sud. Soltanto il pregiudizio indifferenziato - come tutti i vassallaggi intellettuali - non conosce frontiere. Accade anche per questo che parli o scriva chi non vuol capire perché intende solo adeguarsi.


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