Storia del Tempo




Egidio Sterpa



Voglio raccontare la storia di un uomo e di un giornale che meritano di non uscire dalla memoria storica del giornalismo italiano e perciò della nostra cultura. Un uomo e un giornale - Renato Angiolillo e Il Tempo - che sono stati parte della mia vita professionale, dieci anni.
Renato Angiolillo lo conobbi sulle scale di Palazzo Wedekind, una sera ch'ero andato ad incontrare il redattore capo del suo giornale, Carlo Scaparro, formidabile uomo di macchina, come si direbbe oggi.
Ero appena ventenne e già da un paio d'anni scrivevo, come collaboratore, per Il Momento e Il Giornale della sera, due quotidiani romani importanti nel '46-'48. Al Momento il mio punto di riferimento era il "colonnello" Petrucci, un vecchio e buon giornalista di cui non ho mai saputo perché lo chiamassero "colonnello". Aveva simpatia per me e mi diceva sempre paternamente: "Prima o poi tu sfonderai".
Il Momento non mi bastava e perciò feci tentativi anche col Giornale della sera, che allora contava firme assai prestigiose, come Virgilio Lilli, Salvatore Aponte, Giovanni Artieri. Aponte mi aprì un varco: riuscii a pubblicare, tra l'altro, persino un racconto. Di quel giornale ricordo come godibilissima la rubrica "Saliera", tagliente e carica di humour, nella quale si alternavano le migliori firme del giornale.
Il Tempo era certamente quanto di meglio ci fosse sulla piazza: proprio in quegli anni aveva raggiunto, si diceva, la tiratura delle trecentomila copie grazie alla pubblicazione del "Diario" di Galeazzo Ciano, che altri giornali avevano rifiutato e che Angiolillo acquistò da un'agenzia americana e coraggiosamente pubblicò. Editore e direttore del Tempo, era dotato di una sensibilità giornalistica non comune; pochi colleghi ho conosciuto con un "sesto senso" come il suo. La notizia la fiutava, si direbbe. Il suo cruccio quotidiano era la ricerca dell'argomento di cui fare il punto di forza della prima pagina. Scendeva in tipografia al momento della chiusura del giornale e molto spesso faceva cambiare l'"apertura" o la "spalla", che erano i titoli che più dovevano attirare il lettore.
Esordii come collaboratore del Tempo con alcuni articoli su Napoli, dove m'ero recato per poter raccontarne gli umori sociali e culturali di quel tempo. Quegli articoli, quattro o cinque se ben ricordo, furono il mio primo impegno "meridionalistico".
Li portai, su suggerimento di un anziano collega, a Scaparro, redattore capo, il quale naturalmente li mostrò al direttore: m'ero permesso di dirgli che avrei gradito una risposta al più presto perché avevo, appunto, la possibilità di pubblicarli altrove. Scaparro aveva già notato la mia firma sul Momento e sul Giornale della sera. Fatto sta che tre o quattro giorni dopo il mio articolo comparve sulla prima pagina del Tempo. Si può immaginare la mia soddisfazione.
Scaparro quella sera stessa mi disse che proprio ad Angiolillo erano piaciuti i miei "pezzi". La fortuna volle che incontrassi il direttore sulle scale, mentre lui arrivava al giornale e io me ne tornavo a casa. Non mi conosceva, naturalmente. Fui io a fare la prima mossa: "Buonasera, direttore, sono Sterpa". Si fermò su un gradino dello scalone di Palazzo Wedekind, si mise il monocolo - era un suo vezzo; in realtà era miope ma odiava gli occhiali -, mi squadrò, fu gentilissimo: "Bravo, - mi disse - venga a trovarmi: lei sa fare dell'ottimo giornalismo". Fu così che qualche giorno dopo venni assunto al Tempo. Posso dire ora che fui "miracolato": Angiolillo volle che mi si facesse il contratto come professionista, mentre secondo la norma sindacale ero un praticante. Fui catapultato nella redazione politica interna, in uno dei box ricavati nello splendido Salone delle Cariatidi che s'affaccia sul grande terrazzo da cui si ammira la Colonna Antonina, in piazza Colonna, nel cuore di Roma. Lì mi accolsero Vittorio Zincone, grande firma editorialista, principe del giornale, e Peppino Selvaggi, redattore con più esperienza di me, che mi aiutò a districarmi nel lavoro di redazione, che per me era completamente nuovo.
Entrai subito in confidenza con Guido Guidi, che divenne grande cronista giudiziario; Alberto Giubilo, giornalista sportivo di alta classe; Pippo Puglisi, giovane speranza della redazione esteri scomparso troppo presto; Igor Man, che doveva diventare una grande firma, con il quale strinsi una solida amicizia. Entrai a far parte del gruppo dei giovani redattori, io il più giovane di tutti, un sodalizio mai venuto meno, anche quando ci disperdemmo nei diversi giornali. Più tardi dovevano arrivare altri giovani: Bruno Zincone, Ignazio Contu, Angelo Frignani, amici carissimi ancora oggi.
Ad Angiolillo piaceva fare un po' il "cacciatore di teste": di tanto in tanto conduceva in redazione qualche nuovo praticante.
Così come era generoso verso colleghi anziani in difficoltà. Non esitò a recuperare Salvatore Aponte, dopo la morte del Giornale della sera. Fu Aponte negli anni Venti, da inviato del Corriere della Sera, a dare per primo la notizia che sarebbe stato Stalin a succedere a Lenin. Divenne titolare della "nota politica" (il "pastone", come veniva definito in gergo) e si allocò nel "box" dov'ero anch'io. Elegante, colto, raffinato nei comportamenti, rassomigliava a Totò. Era facile scambiarlo per il grande attore comico. Napoletano pure lui (di Vico Equense), lo imitava e capitava che, scherzando, si presentasse come "principe De Curtis". Mi legai affettuosamente a lui e spesso andavamo a cena in un ristorante non lontano dalla Fontana di Trevi o da "Vito", in un vicolo dietro piazza Capranica. Con lui conobbi, in queste serate, molti nomi del giornalismo della sua generazione.
Altre grandi firme che Angiolillo accolse furono Alberto Giovannini e Alberto Consiglio: Giovannini divenne popolare tra i lettori per la sua "Lettera della domenica"; Consiglio, corsivista brillante anche lui, si produceva nelle rubriche "Formi-caio" e "Disco Rosso" e in editoriali. Furono ambedue preziosi soprattutto nel periodo in cui il giornale perse Vittorio Zincone, chiamato a dirigere il Giornale dell'Emilia, poi diventato Il Resto del Carlino (fu Vittorio a ripristinare l'antica testata bolognese). Quando Zincone ritornò come vice direttore, Il Tempo poté contare su una terna di corsivisti-polemisti formidabili. In quei tre anni di assenza di Zincone, fu vice direttore Giovanni Artieri, scrittore di raro pregio. Tra le firme che Angiolillo aveva sagacemente reclutato sin dall'inizio, oltre a collaboratori come Leonida Repaci, presto perduto però, ci furono Italo Zingarelli, da noi indicato come il "figlio del vocabolario", anche lui ex corrierista (aveva scritto un libretto, Questo è il giornalismo, che io avevo divorato; con lui ebbi sempre un meraviglioso rapporto tanto che quando andò a dirigere Il Globo mi volle come collaboratore: firmavo Egidio da Vejano, come feci anche più tardi col Roma, quando andò a dirigerlo Giovannini); Ugo D'Andrea (detto "il motore del secolo" per aver definito così, in un suo scritto, Mussolini), coltissimo e bravissimo fondista di politica estera; Virgilio Lilli, che fu certamente, prima di passare al Corriere, il principe degli inviati del Tempo: con quella sua prosa si può dire cantilenante e quasi poetica i suoi servizi erano pezzi d'antologia, uno stile che nessuno più ha saputo imitare. Tra gli inviati non possono essere dimenticati Arnaldo Vacchieri, sempre pronto a partire, che non deludeva mai con i suoi servizi puntuali, ricchi di particolari, ben scritti; Vero Roberti, giornalista di vecchia e solida scuola, che doveva passare poi al Corriere andando a Londra come corrispondente; Ettore Della Giovanna, che si era fatte le ossa prima a Tempo Illustrato durante la guerra, poi all'Espresso quotidiano e quindi in America, dove andò a dirigere un giornale italo-americano a San Francisco, per poi tornare da grande inviato al Tempo; Piero Accolti Gil, un collega carissimo ormai scomparso, al quale mi legò negli ultimi anni un'amicizia affettuosa, giornalista di gran gusto che fu anche corrispondente a Parigi, e che, se fosse stato meno pigro, avrebbe potuto lasciare scritti tutt'altro che precari quali sono sempre le cronache giornalistiche; Mino Caudana ("in Caudana venenum", si diceva di lui), giornalista di grande vena, polemista malizioso ma piacevole raccontatore.
Una segnalazione a parte la meritano Gianni Granzotto e Nantas Salvalaggio. Granzotto fu il primo corrispondente inviato da Angiolillo a Parigi: le sue corrispondenze erano saggi di bravura, vive e precise nell'informazione, penetranti nelle analisi culturali. Quando tornò da Parigi Gianni fece per un breve periodo l'inviato di politica internazionale, poi passò alla RAI come corrispondente politico da New York (fu lì che lo rividi nel '56 quando, reduce da un viaggio in California, mi trovai a fare servizi sull'affondamento dell'"Andrea Doria") e quindi più tardi fu commentatore televisivo da Roma e infine amministratore delegato della RAI. Con Granzotto dovevamo poi incontrarci ancora nel '74 e insieme correre l'avventura del Giornale di Montanelli.
Nantas Salvalaggio è della mia generazione. Quando io giunsi al Tempo egli era già un cronista brillante: morbidissimo scrittore, detto "piumino di cipria" (fu il titolo di uno dei suoi primi libri), ebbe molto successo con le cronache della rubrica "Un giorno in pretura". Poi prese il volo: andò a Parigi come corrispondente del Giornale d'Italia, poi a New York, dove lo incontrai infatti nel '56. Tornò in Italia per fondare il Panorama di Mondadori, che all'inizio fu mensile, e ha scritto molti libri di successo. Tra noi c'è sempre stata molta buona amicizia.
Prima di annotare quanto fosse corposa e veramente importante la parte culturale del giornale, voglio ricordare altri colleghi di notevole spessore professionale: Ilario Fiore, che fu inviato e poi corrispondente da Washington; passò alla RAI e fu per molti anni in Russia e a Pechino, realizzando servizi ragguardevoli; G.A. Longo, scomparso ormai da molti anni, robusto commentatore politico e analista economico; Lino Dina, che veniva dall'informazione parlamentare e al Tempo si qualificò come acuto scrittore politico.
Mi preme non dimenticare alcuni compagni di lavoro di quegli anni (chiedo scusa a quelli che dimentico): Sandro Salvatori, vice redattore capo con Scaparro; Marcello Zeri, uomo di macchina allievo di Scaparro, infaticabile, che scriveva anche di sport; Guglielmo Serafini, signorilissimo segretario di redazione, poi passato alle cronache parlamentari; Dante Pariset, che fu a capo della redazione stenografi ma veniva dal giornalismo scritto; Antonio Perrini, capo della redazione esteri che finì poi corrispondente a Londra; Ettore Della Riccia, capocronista di grande grinta, conoscitore come pochi di Roma e dei suoi problemi.
La parte culturale del giornale era indiscutibilmente poderosa. Angiolillo aveva tenuto a renderla tale, cominciando con l'affidarla al più rigoroso dei critici letterari, Enrico Falqui. La terza pagina del Tempo si distingueva per classe e firme prestigiose e, senza alcuna esagerazione, si può dire che competeva con quella del Corriere. I collaboratori erano di alto livello - Prezzolini e Mala-parte, per esempio, tanto per citarne due -, ma già tutta la redazione del giornale, come si può notare dalle firme segnalate, offriva alla terza pagina intelligenze non comuni. Anche qui due nomi: Carlo Belli, che fu una grande speranza del futurismo negli anni Venti (il suo libro Kn è la testimonianza di una cultura e di una generazione); Adriano Grande, un poeta che negli anni giovanili fu alla pari di Montale: fondò la rivista Circoli, che è entrata nella storia della letteratura. Sia Belli che Grande erano redattori ordinari, resocontisti parlamentari, l'uno alla Camera, l'altro al Senato.
Lo spessore culturale della "terza" del Tempo è dimostrato dai nomi dei titolari delle diverse sezioni: Silvio D'Amico, critico drammatico (gli successe poi Giorgio Prosperi); Guido Pannain, critico musicale; Gian Luigi Rondi, critico cinematografico, Virgilio Guzzi, critico artistico. Nella scelta di questi collaboratori (che erano redattori a tutti gli effetti sindacali) Angiolillo non transigeva: o erano di livello altissimo o non li voleva. Anche questo dice la eccezionale dimensione del personaggio. Basti considerare quanto egli tenne ad avere come collaboratori, assai ben pagati peraltro, Prezzolini e Malaparte.
Ebbi con Angiolillo un rapporto affettuoso. Fu soprattutto lui ad avere verso di me comprensione e generosità: mi considerava un suo "poulain", diceva sempre che mi aveva scoperto lui, il che era sostanzialmente vero. Gliene ero assai grato naturalmente, anche se mai fui con lui servile né conformista. Da redattore capo (lo fui a meno di trent'anni) spesso amichevolmente lo contrariavo quando ritenevo di doverlo fare. Ci davamo del "lei", ma quando si arrabbiava o voleva mostrarsi affettuoso lui mi dava del "tu". Quando lo facevo arrabbiare per la franchezza delle mie opinioni mi diceva: "Ma perché mi devi sempre contrariare?". Le sue collere duravano minuti, poi tornava a scherzare. Una grande incassatrice dei suoi momentanei furori era la sua segretaria, Ottilia Farella, bella e simpatica, fedelissima.
La storia di Angiolillo come editore è straordinaria. Veniva da una famiglia piccolo-borghese lucana, il padre era un avvocato. Era il più piccolo di tre fratelli maschi (c'era, mi pare, anche una sorella, andata sposa in Puglia), nato a Ruoti, in provincia di Potenza, nel 1901. Degli altri due fratelli maggiori, uno fu uomo di Nitti (ne diresse un giornale a Napoli), l'altro arrivò a consigliere di Stato. Il fratello preferito era il primo, il giornalista, Amedeo, ch'era stato per lui un po' padre e un po' "chaperon" nel mondo della carta stampata. Durante il fascismo, anticonformista dichiarato, se la cavò facendo l'editore di piccole pubblicazioni (in Puglia, per esempio) e occupandosi di cinema. C'è un suo film (soggetto e regia) che è ormai da cineteca: "Un garibaldino al convento". Ne era orgogliosissimo.
D'essere editore e direttore d'un giornale quotidiano egli l'aveva sempre sognato. Durante l'occupazione di Roma da parte dei tedeschi, fece diventare questo sogno più concreto: si preparò ad uscire con un giornale non appena Roma fosse stata liberata. Acquistò la testata L'Italie, piccolo giornale ch'era stato anche di Bottai, ma poi varò Il Tempo. Uscivo spesso a cena con lui e gli piaceva farmi partecipe di riflessioni e confidenze. Una sera, dopo la chiusura della prima edizione, prima di andare a cena all'"Abruzzi", un ristorante per lui abituale in via Frattina, che da anni non c'è più, volle condurmi nei sotterranei di Palazzo Wedekind per assistere al girare della rotativa che stampava il giornale. "Vedi quella macchina?", mi disse, "costa molti milioni. Quando ho cominciato questa avventura avevo solo duemila lire in tasca. Tutti credevano che io fossi un pazzo. Questa macchina comprata in Germania [era una "Man", N.d.R.] e quel giornale che esce dalle sue bocche li ho sognati fin da quando ero giovane come te".
Di Angiolillo non sempre ho sentito parlar bene nel mondo giornalistico e in quello politico. Trovo che sia ingiusto e dovuto al fatto di non averlo conosciuto da vicino. Per parte mia, avendolo conosciuto anche nei suoi momenti di grande sincerità, posso dire che era a modo suo un romantico, amava visceralmente il nostro mestiere, possedeva una vena di generosità in alcuni casi impareggiabile. Era, si può dire, come editore e direttore, della "razza" di Scarfoglio. Tra Roma e tutto il Sud, dopo Scarfoglio e Bergamini, rispettivamente fondatori del Mattino di Napoli e del Giornale d'Italia di Roma, certamente il nome di Renato Angiolillo merita di entrare con gran diritto nel "gotha" del giornalismo italiano.
Ci fu, ad un certo punto, un momento in cui ritenni di dovermi sottrarre alla tutela di Angiolillo. Decisi di lasciare Il Tempo, salendo da Roma verso il Nord, al Corriere, dopo una breve esperienza al Giornale d'Italia. Più tardi Angiolillo mi rivolle al Tempo (avevo già fatto anche l'esperienza del Corriere Lombardo come direttore), ma ormai Milano e la sua cultura erano entrate a far parte della mia vita, e dopo un anno, che mi piace chiamare sabbatico, da Roma ritornai a Milano, dove mi capitò di vivere una delle più belle avventure della mia vita: la partecipazione alla nascita del Giornale di Montanelli. Ma questa è un'altra storia.


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