Un Sud "altro"




Federico Salinas



C'erano una volta nella penisola i Reami del Sud che davano da mangiare alle popolazioni del Nord. E' la tesi (che farà rizzare i capelli ai superstiti secessionisti) dello storico britannico David Abulafia, già noto per il notevole saggio del '93 su Federico II. Nel nuovo libro I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1300, Abulafia sostiene che in quei secoli "il Sud era molto ricco, produceva ampie quantità di cibo, indispensabile per la sopravvivenza delle regioni settentrionali": i mercanti del Nord dovevano scendere in Sicilia, in Campania o in Puglia per rifornirsi non soltanto di generi alimentari, ma anche di cotone, di lino e di seta. Sotto gli Svevi, gli Angiò o gli Aragona, il Mezzogiorno era dunque prospero: la decadenza, secondo lo storico inglese, cominciò nel XVI e nel XVII secolo, quando "l'Italia meridionale e la Sicilia caddero sotto l'impero spagnolo, incentrato sullo sfruttamento coloniale di queste terre".
Abulafia cita anche la visione nordista degli studiosi che, in prevalenza, si concentrano sulla Firenze rinascimentale come faro culturale ed economico, mentre viene sistematicamente sottovalutata l'influenza dei Regni di Napoli e di Sicilia, (quest'ultima al tempo degli Aragona fu anche esempio felice di convivenza multiculturale e multireligiosa, come lo era stata al tempo di Federico II, fra cristiani, ebrei e musulmani). Sull'errore di prospettiva di molta storiografia, il medievalista Franco Cardini concorda con Abulafia: "Noi leggiamo abitualmente la storia partendo da Nord e da Ovest, mentre il Medio Evo andrebbe letto partendo da Est e da Sud, i punti cardinali che irradiavano civiltà e cultura. Basti pensare a Bisanzio, al Medio Oriente, al Nord Africa: e l'Italia meridionale si trovava proprio all'intersezione di quelle influenze. Ciò premesso, non enfatizzerei il "benessere" del Meridione italiano nei secoli di cui scrive Abulafia. Fu veramente un Mezzogiorno ricco e in grado di esportare cibo e materie prime, ma i sovrani, a cominciare proprio da Federico II, avevano creato un pesante regime di "economia dominata", che propiziò l'impianto al Sud di mercanti provenienti dal Settentrione, ma non favorì certo la nascita di una borghesia produttiva". Ed è questa, forse, la tara che il Sud si è trascinata fino alle soglie del terzo millennio, passando attraverso tutte le componenti economiche, civili, politiche e sociali della questione meridionale, conclamata per oltre un secolo, poi negata, in seguito ancora riemersa (dal secondo dopoguerra) e infine relegata fra le memorie storiche.
Ma - tornando ai nostri giorni, senza tuttavia scordare il nostro passato - è proprio vero che la questione meridionale non esiste più? Il fascismo proclamò che quella "questione" era stata risolta e che semmai esistevano soltanto "questioni meridionali" (fra l'altro, fu questo il nome dato alla più importante rivista che in quegli anni si occupò delle regioni meridionali). Ma gli esorcismi verbali non servirono a molto, perché non fu sufficiente la grandiosa bonifica pontina a portare a soluzione la complessa "questione"; né servono ai nostri tempi. Certamente, nessuno parla più di un indistinto Mezzogiorno. E' merito di sociologi e di economisti avere individuato i diversi ritmi di sviluppo delle aree meridionali, sicché oggi si potrebbe dire che non tutta l'Italia meridionale è Sud: ci sono regioni intere, come gli Abruzzi e il Molise, la Puglia e la Basilicata, che marciano ad una velocità più sostenuta. Ma, per colmare il divario col Nord, questa velocità dovrebbe essere di gran lunga superiore a quella delle regioni settentrionali. Il che non è. Potrà poi essere in qualche modo raggiunta?
E' sicuro che non esiste più il vecchio meridionalismo. Già nel 1992 il sociologo Carlo Trigilia rilevava che la questione meridionale stava cambiando segno: non si trattava più di far valere le "ragioni del Mezzo-giorno" per ottenere di più dallo Stato centrale, ma, al contrario, di ridimensionare l'intervento pubblico per ridare efficacia al sistema politico nazionale. Il meridionalismo tradizionale, nella forma di un'ideologia rivendicativa che attribuiva allo Stato (e al Nord) la colpa dell'arretratezza del Sud, aveva fatto il suo tempo.
Il sociologo esplicitava queste considerazioni in un'opera, Sviluppo senza autono-mia, in cui ricordava, fra l'altro, come la forte presenza di attività criminali condizionasse negativamente le possibilità di sviluppo economico. Di recente è stato dato alle stampe Il nodo gordiano di Mario Centorrino, Antonio La Spina e Guido Signorino, che porta come sottotitolo: Criminalità organizzata e sviluppo nel Mezzogiorno. Gli autori pongono al centro della loro analisi le strategie di accumulazione finanziaria della mafia. Nonostante i colpi inferti da magistratura e polizia ai cartelli del crimine organizzato negli ultimi anni, pare di tornare indietro nei decenni. Sembra che il potere criminale, invece di indebolirsi, si sia rafforzato, modernizzandosi alla stessa velocità della società. E spesso anche con maggior ritmo. Gli autori parlano di adattamento del sistema economico a un modello di convivenza. Certo, ricordano anche l'esistenza di aree protette, diserbate dalla gramigna mafiosa, come quella di Gioia Tauro. Ma, proprio in concomitanza con l'uscita di questo libro, i sindaci della stessa zona denunciavano la persistenza carsica di una forte presenza delle cosche. E' triste pensare che, quando, nel 1875, Pasquale Villari pose per la prima volta all'attenzione dell'opinione pubblica italiana la questione meridionale, lo fece proprio riferendosi all'esistenza della camorra, della mafia e del brigantaggio degenerato.
Ma non si può certo sostenere che in secolo e mezzo poco o nulla sia cambiato. I cambiamenti sono sottolineati con forza in un altro testo, curato da Robert Lumley e Jonathan Morris, Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d'Italia. Non è un'opera di sociologia o di economia, ma di storia. Nello studio del Mezzogiorno la compenetrazione tra i problemi attuali e la ricerca storica è sempre stata molto stretta. Alla fine degli anni Quaranta, in coincidenza con le lotte contadine del Sud, molti storici meridionali si dedicarono allo studio dei rapporti di proprietà nelle campagne, a partire dal Settecento. Negli anni più recenti, la diversità dei ritmi di sviluppo delle regioni meridionali ha fatto volgere l'attenzione degli studiosi alla storia regionale. In quest'ambito, si è proceduto ad una revisione del tradizionale concetto di "arretratezza", che ha avuto simultaneamente entusiasti sostenitori e decisi detrattori.
Luciano Cafagna ha parlato di "revisionismo nazio-meridionalista", ricevendo in risposta l'accusa di aver tradito il Sud. Certo, è difficile negare che si stia diffondendo una sorta di patriottismo regionalistico o contadino (pugliese, calabrese o napoletano che si voglia), che peraltro, diversamente che a Nord, ancora non trova sbocco in concrete proposte federalistiche. Uscendo dalle contrapposizioni frontali, è necessario riconoscere che molte recenti ricerche hanno messo a disposizione importanti contributi in termini di nuova documentazione o anche di nuova interpretazione di quella esistente. E' utile, come ricorda Lumley, studiare le strutture socio-economiche delle varie regioni del Mezzogiorno come risposte razionali a fattori umani e climatici, e non paragonandoli a quelle delle regioni "avanzate". Ma, è stato obiettato da altri, nel momento in cui quelle strutture vengono a collocarsi con l'unificazione in uno stesso mercato nazionale, è possibile parlare di "arretratezza", senza compiere alcuna forzatura. II dibattito, dunque, resta molto aperto.
C'è un punto, comunque, sul quale tutti sembrano concordare. Il meridionalismo rivendicativo ("lagnoso", secondo alcuni superciliosi e non sempre disinteressati ricercatori) non potrà più ripresentarsi sulle scene italiane. Anche perché, a furia di attribuire l'esistenza della questione meridionale alle colpe dello Stato, si è ridestata la "questione settentrionale", con le accuse al Sud di essere la "palla al piede" che frena lo sviluppo del Settentrione, come si è detto e scritto a partire dall'inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Vai poi a spiegare come e perché nacque a Sud il brigantaggio, che è come dire come si sviluppò la guerra civile italiana e come si pervenne alla sanguinosa riconquista del Sud. E vai a spiegare come e perché persiste ancora oggi in Sicilia, in Calabria, in Campania, in parte della Puglia, l'attività dei cartelli del crimine; come e perché di mafiosi e camorristi si conoscano nomi, cognomi, indirizzi e territori dominati, senza che si riesca a metterli in croce una volta per tutte; come e perché, malgrado la presenza di 1.200 pentiti, cosche, paranze e 'ndrine possano continuare a tenere in scacco intere regioni, non a caso meridionali; come e perché si istruiscano processi spettacolari, dai quali magari non si riesce a venir fuori senza dichiararne l'inconsistenza, mentre la giustizia dovrebbe partire dal basso, e colpire con la certezza della pena, (conseguenza diretta della certezza della colpevolezza), applicata con assoluto rigore; come e perché gli intrecci tra mafie e politica restino sempre in coni d'ombra impenetrabili...
E' qui il nodo gordiano della vecchia e nuova questione meridionale, in realtà mai morta, ma solo negletta, o elusa con l'éscamotage del suo inserimento nella più grande questione delle aree depresse europee. E' nella certezza del diritto, della proprietà, dell'imprenditorialità, cioè della libertà dei cittadini onesti. Ed è nella volontà, che è tutta e solo politica, di riscattare dai cartelli del crimine il Sud e i meridionali che nel Mezzogiorno, in Italia, in Europa e nel mondo hanno sempre dimostrato di saper lavorare e produrre. Quanto e più dei tedeschi. Verificare, per credere.


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