Se i distretti sono stanchi




Marco Venditti



All'apparenza, quella del distretto degli occhiali del Cadore è ancora una storia di successo. Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, porta a compimento una complessa strategia con l'acquisto del marchio, degli impianti e della tecnologia dell'americana Ray Ban. Vittorio Tabacchi, patron di Safilo, da sempre l'impresa rivale, celebra il raddoppio delle vendite in Giappone, mercato in cui ha saputo investire nel momento della crisi più acuta, e annuncia lo sbarco massiccio in Brasile. I fratelli De Rigo, dopo aver rilevato un'importante catena di vendita in Gran Bretagna, accolgono nel capitale Prada, l'unica griffe, assieme a Gucci, che registra tassi a due cifre di crescita del giro d'affari. Alle spalle di queste aziende, già presenti nella Borsa italiana o americana, premono alcuni nuovi competitori: Marcolin, pronto per Piazza Affari, Visibilia, Filos (che tra i soci annovera Benetton).
Per la prima volta, però, in Cadore si parla di Cassa integrazione: nel 1998 hanno chiuso i battenti una settantina delle trecento ditte (più 1.200 imprese artigiane) che hanno riempito di meraviglia gli economisti e i sociologi di mezzo mondo. E il futuro è quanto mai grigio: la concorrenza della Cina rende impossibile una strategia basata sul prezzo e non già sulle caratteristiche qualitative o innovative, mentre la mancanza di mezzi finanziari rende impossibile la strada dell'acquisizione di marchi e di griffes. I grandi, forti di una maggior produttività interna e talora timorosi dello spionaggio industriale, tornano a concentrare la produzione nei propri capannoni, oppure si rivolgono a Paesi dove il costo del lavoro è assai più vantaggioso, il che toglie spazio ai terzisti i quali, in passato, avevano garantito flessibilità al sistema.
L'industria degli occhiali resta ancora un'isola felice del made in Italy, una delle poche ove nella prima parte del '99 è cresciuto il giro d'affari complessivo. Ma, ad esclusione delle prime dieci ditte del settore, la perdita di fatturato rispetto al '98 è dell'ordine del 30 per cento. La formula del distretto, almeno nella sua impostazione tradizionale, mostra anche qui segnali di usura, di logoramento. Grazie al supporto della telematica (partono dal Cadore i primi, veri tentativi di vendita su larga scala via Internet), alla fama conquistata in questi anni, alla leadership produttiva e di marketing, i grandi si stanno allargando in una prospettiva davvero globale. Il distretto, però, perde posti di lavoro e molti imprenditori, spiazzati dalla velocità del cambiamento, non chiudono i battenti solo perché non hanno alternative. L'unica strategia è aspettare che passi la tempesta. In questo caso, però, "tempesta" vuol dire moneta stabile, bassa inflazione, caduta delle barriere verso il Terzo Mondo...
Nel Sud, i nuovi distretti industriali hanno offerto qua e là motivi di ottimismo, ma i contratti d'area sono stati finora un fallimento e le fasi preliminari della nuova finanziaria Sviluppo Italia sono lentissime. Dopo i tantissimi annunci, nella zona di Manfredonia non si è realizzato nulla, o quasi: Benetton ha rinunciato, Inghirami racconta la parabola di un impianto in cerca di sede - da quindici mesi la commissione locale che dovrebbe assegnare i terreni non si riunisce per dissensi politici. E nemmeno il presidente del Consiglio, investito della questione, ha saputo sbloccare la situazione...
In passato, il fattore tempo non era così importante: un investimento poteva tardare rispetto alla tabella di marcia senza troppi danni. Oggi, a una fabbrica mancata in Italia ne corrisponde una realizzata nel giro di pochi mesi in Cina, ma anche in Turchia, in Irlanda o in Portogallo. "Spiacenti, ma arrivate fuori tempo massimo", ha detto il presidente degli industriali occhialai a chi gli chiedeva un parere sulla politica di possibili sgravi fiscali annunciata dal ministro delle Finanze. "Questi provvedimenti ci servivano un paio d'anni fa, oggi è tardi". Tutto questo vale anche per i settori del tessile, dell'abbigliamento, delle calzature, per la meccanica, o per la componentistica. L'Italia perde colpi, reagisce con difficoltà allo shock "moneta forte-bassa inflazione".
A queste debolezze si contrappongono i segnali di reazione, intensificatisi da parte delle cosiddette "multinazionali tascabili". Molti, come Carraro, Saiag e Gewiss, puntano verso il Sudamerica, mercato che la crisi finanziaria ha reso meno costoso. Chi dispone di tecnologia e di mezzi finanziari adeguati può scommettere sul mercato americano (Gildemeister). C'è chi reagisce alla stasi della domanda interna avviando, magari in ritardo, la necessaria diversificazione internazionale (Barilla, Campari). Ma, in ogni settore, buona parte dei produttori pare spiazzata e inerte di fronte all'evoluzione dei mercati che chiedono innovazione, specializzazione, disponibilità di mezzi finanziari e di uomini per seguire i clienti in giro per il mondo, con richieste sempre più specifiche e per volumi sempre più ridotti.
Il sistema produttivo è troppo "maturo", flessibile nella produzione ma rigidissimo sui prodotti. Certamente, non siamo gli ultimi della classifica nell'automazione di fabbrica o nella robotica, ma per un paio di decenni l'innovazione di processo, anche per motivi storici e culturali, ha perseguito quasi soltanto l'obiettivo della sostituzione della forza-lavoro, troppo costosa, e non quello del miglioramento della qualità. Pochissimo, rispetto ai concorrenti, è stato investito nella formazione del capitale umano e anche per questo diminuisce la capacità italiana di spostarsi su produzioni a più alto tasso di crescita perché meno afflitte dalla concorrenza o sui servizi e l'assistenza.
La critica di Ciampi agli industriali ("perché non si interrogano sulla qualità di prodotti e produzione?") è senz'altro corretta. Ma non è meno giusto notare che gli imprenditori vivono in un contesto sociale che somiglia loro. Al di là dei rituali della concertazione (anch'essi criticati da Ciampi, che ha definito gli ultimi appuntamenti con le parti sociali "tributo all'idea più che strumento del fare"), occorre uno sforzo straordinario sulla scuola, sul concetto di formazione e di effettiva mobilità della forza-lavoro, con la consapevolezza che il sistema può generare centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, ma difficilmente potrà conservare molti di quelli attuali o reimpiegare nelle nuove iniziative parte degli addetti attuali.
L'Italia sembra invece consumare le proprie energie in slogan, battute ad effetto, entusiasmi giovanili effimeri; oppure "giocare ai soldatini", con manie senili, attorno alle poche istituzioni finanziarie di un certo livello, sempre meno sensibili alle esigenze dell'economia reale. Non pensiamo, però, che il quadro sia nerissimo, a cominciare dagli sviluppi che hanno portato Azeglio Ciampi al Quirinale. Forse il suo ultimo compito storico sarà quello di mettere, e meglio di rimettere in moto una classe imprenditoriale un po' pigra, un po' svagata, intimamente convinta che l'Europa, d'ora in poi, ci dovrà accettare comunque. Non sarà un compito facile, quello del nuovo Presidente; con il nostro sommesso augurio che sappia andare persino oltre le "prediche inutili" di un suo illustre predecessore.


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