A quando la ripresa?




Mario Deaglio



Se, per rispondere alla domanda del titolo, si vuole impostare il problema in termini più generali e meno implicitamente ottimisti: nel secolo che si chiude, i bagliori straordinari delle nuove tecnologie e degli aumenti di produttività che lasciano intravedere saranno più forti delle crisi e dei bagliori di guerra che, sul finire del marzo scorso, sono ricomparsi in Europa?
Non si tratta di un interrogativo retorico o provocatorio se si considera l'intero quadro del pianeta e se si tiene conto delle varie fragilità emergenti. Il mondo è come un tavolo con una gamba sola, anche se si tratta di una gamba centrale molto solida. Quasi un pilastro: è l'economia degli Stati Uniti, che con i suoi straordinari risultati e la sua prorompente domanda ha impedito all'economia giapponese di affondare del tutto, mentre ha facilitato quella stentatissima ripresa che è possibile intuire nelle economie asiatiche.
Per usare un'espressione ricorrente, gli Stati Uniti si sono rivelati, nel '98, "importatori di ultima istanza", (o, per dirla col vicepresidente americano, "importatori di unica istanza"), un luogo dove gli altri Paesi possono "scaricare" le loro produzioni senza dover procedere a un difficile rilancio della propria domanda interna: difficile perché impedito, in certi casi, da vincoli internazionali che impongono prima il risanamento, in certi altri da una riluttanza politica alla ridistribuzione interna di reddito e di potere che tale rilancio richiederebbe.
Pur intrinsecamente solida, l'economia americana presenta tuttavia non trascurabili elementi di precarietà. Si può aggiungere che il risparmio degli americani è divenuto negativo: i guadagni di Borsa hanno consentito una diffusa rivalutazione patrimoniale per effetto della quale, pur consumando marginalmente più del loro reddito, quasi la metà degli americani si è ritrovata più ricca. Ciò accentua la precarietà, in quanto lo stimolo ai consumi derivante dal cosiddetto "effetto ricchezza" rischierebbe, nel caso di una caduta di Borsa, di trasformarsi in un effetto deflattivo estremamente marcato: vedendo diminuire il valore dei loro patrimoni finanziari, milioni di americani frenerebbero duramente i loro consumi.
Al di là delle "sei nuvole" che potrebbero oscurare il cielo economico degli Stati Uniti, (l'onda lunga delle crisi estere, lo scoppio della "bolla speculativa", un possibile rallentamento tecnologico, una possibile debolezza fiscale, un ritorno dell'inflazione per le rigidità del mercato del lavoro, un malessere sociale legato agli aspetti meno esaltanti del miracolo americano), non va mai trascurata la possibilità di uno shock di politica estera che trasformi radicalmente il clima generale di quel Paese e del mondo. Si pensi, ad esempio, a mutamenti strategici nei rapporti Stati Uniti-Cina che rendano vulnerabile, nel prossimo futuro, il territorio metropolitano degli Usa a nuovi missili di Pechino e modifichino sensibilmente l'atteggiamento di apertura commerciale di Washington; oppure al rialzo di una tensione russo-americana e alle conseguenze negative sulle Borse di un possibile infortunio militare, in una o un'altra occasione, magari trascurabile dal punto di vista strategico ma significativo agli occhi dell'opinione pubblica.
Al di là di questi fattori politico-militari, i cui sviluppi appaiono in larga misura imprevedibili, sulle possibilità di ripresa pesa negativamente il lento accumularsi degli squilibri commerciali. Le stime per il '99 parlano di un deficit di parte corrente nei conti degli Stati Uniti di circa 280 miliardi di dollari, pari a quasi un miliardo di dollari al giorno, domeniche escluse, circa il doppio del livello del '96. A fronte di questo deficit, si prevede un surplus complessivo quasi uguale (324 miliardi di dollari) di Giappone (150 miliardi), Europa dell'euro (quasi 100 miliardi) e Paesi emergenti dell'Asia. E' semplicemente impossibile che una simile situazione continui indefinitamente. Certo, queste importazioni, a basso prezzo data la forza del dollaro, costituiscono per gli Usa un vantaggio non trascurabile e consentono l'espansione della domanda interna senza inflazione, a ritmi superiori a quelli della produzione. Un simile accumulo di deficit presenta però pericoli non piccoli, potrebbe non rivelarsi sostenibile e dar luogo a crolli improvvisi, con immediati riflessi sull'economia mondiale e una recessione, anziché una ripresa, globale. Per questo, nella riunione del G7 di Bonn il segretario del Tesoro americano ha chiamato duramente in causa l'Europa, invitandola a rilanciare la propria economia.

Si tratta di fornire una seconda gamba al tavolo della globalizzazione. Se ciò non accadesse, per usare le parole del ministro statunitense del Commercio, "la crisi finanziaria del '98 potrebbe diventare la crisi commerciale del '99". Per questi motivi, il contenzioso commerciale tra Unione europea e Stati Uniti assume grande importanza e si avverte più o meno oscuramente che la ripresa mondiale non potrà veramente verificarsi se non con un ridisegno istituzionale globale: si tratta delle "nuove architetture", finanziaria e commerciale (e forse anche politica), delle quali si è cominciato a discutere con un certo vigore.

Le due chiavi della ripresa europea
Questo contenzioso sposta l'obiettivo sul Vecchio Continente, e in particolare sull'Europa dell'euro e sul suo inaspettato rallentamento congiunturale a partire dalla seconda metà del '98. L'evoluzione europea dei prossimi mesi assume un valore che va molto al di là della congiuntura: può veramente l'Europa porsi sul cammino di una crescita maggiore dell'attuale, può veramente creare produzione e occupazione?

 

Per cercare di rispondere a questa domanda, occorre considerare che le chiavi della ripresa europea, e, per quanto detto sopra, della ripresa mondiale sono essenzialmente due: l'espansione monetaria, che è di competenza della neonata Banca centrale europea (Bce), e la liberalizzazione economica, la quale invece dipende dai governi nazionali e dalla Commissione europea. (Una terza possibilità, la riduzione delle imposte, appare, almeno nel breve periodo, limitata e problematica per i vincoli del Patto di stabilità). Le due chiavi debbono essere utilizzate congiuntamente perché la porta dorata della stabilizzazione mondiale possa essere realmente aperta. Il rischio è che la Bce e i governi europei continuino a ributtarsi la palla, scaricandosi reciprocamente la responsabilità e il peso di una manovra di rilancio.
Nel suo primo "Bollettino mensile" uscito a fine gennaio '98, la Bce offre spiegazioni abbastanza convincenti della propria mancanza di azione. Sostiene, non senza ragione, che l'elevato livello europeo di disoccupazione deriva da motivi in larga prevalenza strutturali (basti pensare alla forte incidenza in Europa della disoccupazione di lungo periodo, della disoccupazione giovanile e della disoccupazione in zone particolari, quali il Mezzogiorno d'Italia e l'ex Germania orientale); alle radici del malessere la Bce individua con estrema chiarezza la scarsa flessibilità dei mercati del lavoro europei e anche l'eccessiva regolamentazione dei mercati dei beni.
A questo si potrebbe aggiungere, come ricorda spesso il Governatore della Banca d'Italia, il forte carico pensionistico che caratterizza non solo l'Italia ma l'intera Europa, e che si ripercuote sul costo del lavoro, determinando una preferenza eccessiva delle imprese per la sostituzione di lavoro con macchine e imprigionando risorse che sarebbero, anche solo in piccola parte, meglio utilizzate, in quanto a stimolo per l'economia, sotto forma, ad esempio, di investimenti infrastrutturali pubblici o di incentivi agli investimenti privati.
Secondo la Bce, "il tentativo di ridurre la disoccupazione con una politica monetaria inflazionistica" - che altri, è doveroso osservare, chiamerebbero solo moderatamente espansiva - "sarebbe in definitiva votato al successo". La Bce ributta quindi la palla ai governi, proclamandosi priva di responsabilità in materia di disoccupazione, chiede loro di fare la prima mossa sulle riforme, e ribadisce il proprio ruolo di garante della stabilità dei prezzi e non già della corrispondenza tra domanda e offerta globale. Alla richiesta di usare la chiave monetaria oppone, insomma, un netto rifiuto. La risposta dei governi è venuta per bocca del ministro tedesco delle Finanze. La posizione del governo tedesco è che il ruolo delle rigidità è stato esagerato e che anzi le rigidità sono state in buona parte provocate da una politica monetaria eccessivamente restrittiva, in contrasto con la politica monetaria espansiva della Federal Reserve degli Stati Uniti, da considerarsi esemplare.
Si avverte una riluttanza di fondo - comune a tutti i governi europei espressione della sinistra - a perseguire politiche rapide di liberalizzazione che si tradurrebbero inevitabilmente nella perdita di privilegi da parte di numerose categorie (i "pensionabili" più che i pensionati, i dipendenti di imprese pubbliche o comunque "protette"). Ed è ovvio temere che il primo effetto delle riforme, come del resto è accaduto negli Usa e in Gran Bretagna, possa essere rappresentato da una maggiore e non da una minore disoccupazione. I governi, pertanto, rifiutano di fare uso, se non in maniera estremamente leggera e in tempi lunghi, della chiave della flessibilità.
Questo "blocco decisionale" caratterizza la situazione europea, con prospettive assai poco allegre, anche se certo non catastrofiche, per l'Unione, e con uno scarsissimo contributo alla soluzione dei problemi mondiali. L'elemento preoccupante è la prevalenza, dalle due parti, di posizioni estreme. La Bce sembra sottovalutare l'entità del rallentamento congiunturale e la comparsa di tendenze deflattive, mentre le socialdemocrazie europee paiono troppo disinvoltamente evitare di riconoscere la necessità di riforme. Senza volersi nascondere dietro un salomonico in medio stat virtus, è evidente che, in mancanza di una qualche forma di compromesso, appare difficile raggiungere l'obiettivo di una ripresa in grado di modificare le stagnanti prospettive del Continente.
Appare ugualmente difficile pensare a una ripresa di tipo tradizionale, ossia largamente incentrata sui consumi, anche in considerazione del, sia pur moderato, ritardo tecnologico che l'Europa ha accumulato. Dai trasporti all'informatica, ci sono "reti" da completare, da rinnovare o da costruire dalle fondamenta, c'è un sistema dell'istruzione che dev'essere rivisto in profondità, mentre la minaccia dell'inquinamento e del dissesto territoriale in Paesi così densamente popolati richiede di certo investimenti massicci. E ciò che è vero per l'Unione europea appare ancora più vero per l'Europa orientale, che potrà procedere solo se riceverà finanziamenti adeguati, preferibilmente nella nuova moneta europea.
Occorre fornire a un tempo gli strumenti finanziari e quelli istituzionali di liberalizzazione che rendano possibile un rapido movimento in questa direzione; in tale quadro, si inserisce la nomina di Prodi a presidente della Commissione, che si può interpretare come un tentativo di rilancio della dimensione politica della scelta europea in posizione dialettica con la dimensione burocratica e con quella monetaria.

Le prospettive italiane
Nello scenario, grandioso e perturbato, dell'economia globale, l'Italia assomiglia talvolta a una sedia traballante sul ponte di una nave che affronta un mare grosso: ciò significa che i fattori interni di instabilità, legati a un difficile e coraggioso processo di innovazione politico-istituzionale oltre che economico, interagiscono in maniera non prevedibile a priori con i fattori esterni, derivanti dalle vicende dell'economia, della politica mondiali.
Essendo venuto meno il rischio di cambio con l'adesione all'euro, il collegamento si verifica principalmente mediante il commercio con l'estero. L'andamento delle esportazioni assume così un'importanza particolare nella determinazione della congiuntura italiana e su di esso l'Italia può ormai influire ben poco, essendo legata al cambio dell'euro e anche agli assetti commerciali dell'Europa, alle sue aperture e chiusure. Il successo o insuccesso delle esportazioni dipende in maniera crescente dalla struttura dei costi e in particolare da quella del costo del lavoro. In Italia, com'è noto, a un costo del lavoro non particolarmente elevato, sia a livello di lavoratore dipendente sia a livello di unità di prodotto, fa però riscontro un "cuneo fiscale" elevatissimo: per ogni lira di retribuzione effettivamente intascata dal lavoratore, le imprese ne pagano un'altra allo Stato o agli enti previdenziali.
E' probabile che una vera ripresa italiana passi per una riforma della struttura salariale (sia della singola busta paga sia dell'architettura complessiva dei salari), termine sintetico dietro al quale si intravede una diversa struttura della società. Riformare la struttura dei salari significa incidere sulla spesa sociale, modificando radicalmente, e in tempi molto più brevi del previsto, il sistema pensionistico e aumentando la quota della spesa destinata ai giovani e alle famiglie; significa tener conto del lavoro degli immigrati, delle sue differenti tipologie ed esigenze; significa ridurre il carico fiscale e per conseguenza l'incidenza della spesa pubblica. La struttura dei salari rappresenta quindi uno snodo particolarmente importante dei problemi italiani.
Il secondo snodo è costituito dal sistema decisionale pubblico. Si è rilevato come questo sistema di fatto non consente, o per lo meno rallenta fortemente, la realizzazione delle reti tipiche dell'odierna economia globale. In questo modo, la leva della spesa pubblica per investimenti, uno dei pochi strumenti rimasti ai governi per pilotare le economie, può essere usata solo in maniera decisamente inefficiente.
Entrambi questi problemi sono sufficientemente lontani dalle ideologie per consentire, al di là delle drammatizzazioni correnti, un approccio che non ripeta gli schemi usuali del conflitto politico. Su entrambi si sono avuti tentativi empirici di cambiamento (le riforme pensionistiche, le nuove forme di lavoro, le "agenzie"), senza però un disegno di rinnovamento sufficientemente esplicito e coerente.
Il rinnovamento ha invece riguardato in modo più consistente i mercati finanziari, il cui ruolo, nell'attuale economia globale di mercato, risulta di gran lunga amplificato. Tant'è che ora come ora attraverso la Borsa italiana stanno passando le più grandi operazioni di ristrutturazione bancaria e delle telecomunicazioni che si siano viste in Italia nel corso di due generazioni. Da elemento secondario del quadro istituzionale, la Borsa è diventata quindi il principale veicolo del cambiamento; attorno alla Borsa, alla sua capacità di funzionare correttamente e di inviare segnali giusti, ruota gran parte della possibilità dell'Italia di mantenere la propria identità e di continuare ad essere un'unità autonoma nell'economia globale.


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