Occhio all'euro-fobia




Mario Sarcinelli



L'ultimo bollettino della Banca centrale europea contiene una sintetica, ma nient'affatto rassicurante sezione sullo stato dell'occupazione e della disoccupazione in Eurolandia. Dopo aver premesso che il rallentamento dell'economia nell'area non necessariamente è giunto al termine nel primo bimestre del corrente anno, aggiunge però che secondo alcune indagini della Commissione emergono prime indicazioni per una stabilizzazione o addirittura per un miglioramento, grazie in particolare al più favorevole clima di fiducia che si respira tra le imprese. Ne segue, quindi, che il tasso di disoccupazione standardizzato è rimasto inchiodato al 10,4%. Se poi si guarda alla fascia di età superiore ai 25 anni, il tasso è dai mesi finali dello scorso anno praticamente fisso. La conclusione che se ne trae è che "mentre ci si può attendere che la ripresa dell'attività economica nel corso dell'anno produca effetti positivi, tanto il calo dei tassi di disoccupazione che la crescita dell'occupazione potrebbero rallentare rispetto al '98". Eppure, chi scorra l'intera sezione dedicata al Patto di stabilità e crescita non può non notare, con un certo stupore e disagio al tempo stesso, come la parola "disoccupazione" e il suo contrario "occupazione" non siano mai menzionati, salvo errori di lettura da parte mia. Comunque, lo stato dell'occupazione e della disoccupazione non ha alcun ruolo nello spiegare gli andamenti della pubblica finanza rispetto agli obiettivi concordati in seno ai vari Consigli, da quello europeo a quello economico-finanziario. Sembra quasi di risentire la voce di Shylock, che pretende la sua libbra di carne perché così fu convenuto, insensibile alle ragioni della misericordia... L'economia è una scienza triste e non vale quindi ragionare per moti dell'animo; si impone, invece, un'analisi delle ragioni che richiesero al Trattato di Maastricht di disciplinare il disavanzo e l'indebitamento di Stati ancora sovrani nel settore fiscale, ma privi ormai dell'antico privilegio di battere moneta, mentre il bilancio dell'Unione, anche nei prossimi anni, non potrà superare l'1,27% del Pil dell'area. In nessuna Costituzione federale il potere centrale pone limiti agli Stati federati nell'ambito del loro bilancio; nella peculiare struttura europea, dove all'accentramento del potere monetario si contrappone la dispersione su una molteplicità di Stati e di livelli della responsabilità di bilancio, è stato necessario far ricorso a limiti concordati per i disavanzi e per i livelli di indebitamento per evitare che la scomparsa del cambio e il livellamento dei tassi di interesse all'interno di Eurolandia rendessero possibile il free ride dei membri meno sensibili alla disciplina fiscale e più difficile il compito della Banca centrale nel mantenere la stabilità dei prezzi e nel sollecitare attraverso tassi di interesse reali bassi gli investimenti e la crescita. La risoluzione del Consiglio sul Patto di stabilità e crescita stabilisce che gli Stati membri sono tenuti a mantenere, nel medio termine, posizioni di bilancio prossime al pareggio o in avanzo, al fine di poter fronteggiare fluttuazioni cicliche di normale ampiezza e allo stesso tempo osservare il limite massimo del 3% del Pil per l'eccesso di spese sulle entrate. Prescindendo dalle situazioni di eccezionalità che permettono deroghe sicure perché già disciplinate o possibili quando sono affidate alla discrezionalità del Consiglio, v'è da sottolineare che tutti gli Stati dell'Unione, sia quelli che hanno adottato l'euro come unità monetaria, sia quelli che ancora non hanno potuto o voluto farlo, sono tenuti a formulare e a presentare un programma - di stabilità per gli uni, di convergenza per gli altri - in cui devono specificare i propri obiettivi di bilancio di medio termine, secondo un modello anch'esso concordato. Si inizia, così, un procedimento complesso e minuzioso come spesso sono gli itinera amministrativi in seno all'Unione che consta di non meno di dieci fasi, ad alcune delle quali, come l'irrogazione delle sanzioni, si spera di non giungere mai.
II punto cruciale, come fu messo in luce dal defunto Comitato monetario, oggi risorto secondo il Trattato dl Maastricht come Comitato economico e finanziario, è che la definizione del medio termine deve coincidere con quella del ciclo economico, cosicché quando quest'ultimo si trova nella fase bassa, le spese sono probabilmente maggiori e le entrate certamente minori, e il bilancio è in disavanzo; quando il ciclo è alto, le spese sono forse minori, le entrate sicuramente maggiori, e il bilancio segna un avanzo. Se la lunghezza del ciclo fosse nota, le due fasi simmetriche e la legislazione fiscale e la struttura economica invariate, i saldi di bilancio delle due diverse fasi dovrebbero tendere a compensarsi. Purtroppo, tutto ciò non è del mondo reale, dove la previsione economica non è ancora uscita completamente dal regno delle arti divinatorie, il ciclo diventa noto nel suo effettivo andamento solo ex post e politici da un lato e imprenditori dall'altro sono sollecitati dall'elettorato e dagli animal spirits a modificare le strutture istituzionali ed economiche. In più, per portarsi inizialmente nella condizione di pareggio di bilancio, le posizioni di partenza di ciascun membro di Eurolandia, nonostante la marcia di avvicinamento a tappe forzate voluta dal Trattato di Maastricht, sono molto importanti.
E' ovvio che un obiettivo, per essere credibile, non può diventare mobile come l'orizzonte per un qualsiasi viandante. Pur tuttavia, l'indicazione di fine 2002 formulata dal Comitato monetario sulla base di un'analisi della Commissione europea non deve costituire un albero al quale impiccarsi. Entro il 1¡ marzo scorso tutti gli Stati hanno provveduto a inoltrare a Bruxelles i propri piani, dai quali sono emerse discrepanze rispetto all'orizzonte temporale coperto, diversità nelle ipotesi macroeconomiche talvolta superate o troppo ottimistiche, scarsa chiarezza tra gli sviluppi tendenziali e quelli programmati, mancanza di indicazioni attendibili sulla sensibilità degli obiettivi ufficiali all'andamento macroeconomico e soprattutto correzioni insufficienti a favore degli investimenti dopo gli energici tagli effettuati sino al 1997.
L'esame dell'Ecofin ha giudicato i programmi conformi al requisito di mettere le pubbliche finanze in condizione di far fronte a normali fluttuazioni cicliche, ma non pare che con riferimento ai tempi sia andato al di là di ciò che aveva affermato in precedenza, cioè "il tempestivo conseguimento dell'obiettivo di medio termine previsto dal Patto di stabilità e crescita". E' ovvio, però, che alcuni eventi ai quali bisogna prepararsi o sono sicuri, anche se lontani di alcuni anni, come l'esplosione degli oneri pensionistici, o sono probabili, come l'aumento dei tassi di interesse, particolarmente sgradito a chi, come l'Italia, ha un alto debito pubblico.
Con riferimento al 1998 solo sei Paesi, fra cui tre che non hanno adottato l'euro, sono in regola con il dettato del Patto di stabilità, che richiede un saldo di bilancio prossimo allo zero, o positivo; in Eurolandia, Germania, Francia, Italia, Austria e Portogallo hanno avuto disavanzi pari o superiori al 2% del Pil. Per il futuro, le tre maggiori economie prevedono di fatto un indebitamento netto dell'1% del Pil per il 2001 o il 2002. La critica della Banca centrale europea, al riguardo, è inflessibile: si comincia col dire che "la strategia prevista per il futuro non offre adeguate garanzie" e si continua affermando che l'approccio minimalista alla stabilità fiscale che è prevalso non è soddisfacente perché "sembra riflettere l'idea che vi sia un trade-off tra riduzione del disavanzo e riforma strutturale", e soprattutto perché "i Governi di gran parte degli Stati membri della Ue non hanno politiche efficaci per ridurre i disavanzi corretti per il ciclo".
Tralasciando questo secondo aspetto, che richiederebbe un'analisi empirica tra stabilizzazione automatica e discrezionalità nell'uso della politica fiscale in ciascun Paese, è bene concentrarsi sull'affermazione che non vi sarebbe un trade-off, ma una complementarietà tra riduzione del disavanzo e riforma strutturale. A chi scrive sembra proprio che, nel breve arco temporale in cui si vuole raggiungere l'obiettivo del sostanziale pareggio di bilancio, il trade-off esista, eccome! Basti pensare per l'Italia alla forte caduta degli investimenti pubblici per poter rientrare nei parametri di Maastricht, al mancato decollo di quelli privati a causa dell'elevata tassazione e delle rigidità di mercato, compreso quello del lavoro, e all'esportazione all'estero di capitali in cerca di migliori condizioni di impiego produttivo. Se si vuole perseverare in una politica miope che porta a ridurre il tasso di crescita, a non espandere la capacità produttiva localizzata in Italia e a potenziare quella estera, è sufficiente serrare le fila dietro il vessillo del pareggio di bilancio. Il rischio è che la disoccupazione comporti anche una disaffezione verso l'euro, che a torto o a ragione potrebbe venire identificato come la causa di tante sofferenze individuali e di un andamento macroeconomico più attento all'equilibrio di bilancio che al benessere sociale. Stranamente, si potrebbe finire col dare ragione a quei critici, soprattutto americani, che invitavano sino ad alcuni mesi or sono ad abbandonare l'euro e ad affrontare il problema della disoccupazione. Chi come me è stato sempre a favore dell'euro, sente che bisogna evitare ogni eccesso che porti a trasformare l'euro-euforia in euro-fobie.
Qualcuno potrebbe obiettare che si verrebbe a creare un problema di credibilità per l'Ecofin che, avendo fissato una data per il raggiungimento del sostanziale pareggio delle pubbliche finanze, non sarebbe in grado di farla rispettare. A parte il fatto che l'Ecofin non sembra aver mai fatto propria la precisa data indicata dal Comitato monetario, non sarebbe preferibile, come altra volta ho sostenuto, che in cambio di un diverso percorso per il raggiungimento del pareggio di bilancio, quale conseguenza di una riduzione del carico fiscale per rilanciare la domanda, si affrontasse con impegno il disinnesco della bomba a orologeria costituita dall'enorme debito vitalizio e sanitario che si sta accumulando?
Lo stesso rapporto della Banca centrale europea scrive a questo proposito: "E' stato calcolato al riguardo che a seguito dell'evoluzione demografica si aggiungeranno circa sette punti percentuali del Pil alla spesa per pensioni e sanità nell'area dell'euro entro la fine del terzo decennio del prossimo secolo". Non è opera più meritoria cercare di affrontare questi temi, che in Italia si porranno già nei prossimi anni, invece di fare puntigliose battaglie sul residuo 1% del Pil che non sarebbe coperto da entrate entro il 2002? A mio avviso, il trade-off esiste e sarebbe opportuno che lo si prendesse in seria considerazione. Battendosi, simultaneamente, per una profonda liberalizzazione del mercato del lavoro.


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