L'ordine del mercato




Friedrich A. Von Hayek



E' difficile difendere gli economisti dall'accusa di aver discusso sulla concorrenza, per circa 40-50 anni, partendo da presupposti che, se fossero veri per il mondo reale, la renderebbero completamente priva di interesse e inutile. Se chiunque sapesse realmente tutto su ciò che la teoria economica chiama i dati, la concorrenza sarebbe veramente un metodo molto rovinoso per assicurare un aggiustamento a questi fatti. Non sorprende, dunque, che alcuni siano stati indotti a concludere che noi possiamo o fare completamente a meno del mercato, o fare in modo che i suoi risultati siano usati soltanto come un primo passo per assicurare una produzione di beni e servizi che possiamo poi manipolare, correggere o redistribuire in qualsiasi modo vogliamo. Altri, che sembrano derivare il loro concetto di concorrenza solo da testi moderni, sono arrivati alla conclusione - naturale, date le premesse - che la concorrenza non esiste.
Contro questa posizione, giova ricordare che, dovunque l'uso della concorrenza può essere giustificato razionalmente, lo è sulla base del fatto che non conosciamo in anticipo i fatti che determinano le azioni dei concorrenti. Nello sport o negli esami, non meno che nell'assegnazione di appalti governativi o di premi letterari, sarebbe chiaramente inutile organizzare la competizione se sapessimo con certezza in anticipo chi sarà il migliore. Allora propongo di considerare la concorrenza come un procedimento per scoprire fatti che, senza ricorrere ad essa, nessuno conoscerebbe, o almeno non utilizzerebbe.
Ciò può apparire a prima vista così ovvio e incontestabile da non meritare una grande attenzione. Ma dalla formulazione esplicita di una verità così evidente possono derivare alcune interessanti conseguenze che non sono subito altrettanto ovvie. Una è che la concorrenza ha valore solo perché, e finché, i suoi risultati sono imprevedibili e, nel complesso, differenti da quelli ai quali ognuno ha o potrebbe aver mirato deliberatamente. Un'altra conseguenza è che oltre agli effetti generalmente benefici della concorrenza possono esserci anche la delusione o il fallimento in alcune particolari aspettative o intenzioni.
Strettamente connessa è un'interessante conseguenza metodologica. Essa arriva a spiegare il discredito in cui è caduto l'approccio micro-economico alla teoria. Anche se questa teoria mi sembra l'unica capace di spiegare il ruolo della concorrenza, essa non è più compresa neppure da alcuni economisti dichiarati. Fin dall'inizio, quindi, vale la pena di dire qualche parola sulla peculiarità metodologica di qualsiasi teoria della concorrenza, in quanto le rispettive conclusioni sono diventate sospette a molti di coloro che applicano un test eccessivamente semplificato per decidere cosa siano disposti ad accettare per scientifico. La conseguenza necessaria del motivo per cui noi usiamo la concorrenza è che, nei casi in cui essa è interessante, la validità della teoria non può mai essere controllata empiricamente. Possiamo controllarla sulla base di modelli concettuali, e potremmo eventualmente verificarla in situazioni reali create artificialmente, dove i fatti che la concorrenza dovrebbe scoprire sono già noti all'osservatore. Ma in questi casi essa non ha alcun valore pratico, cosicché non vale certo la pena fare l'esperimento. Se non conosciamo i fatti che speriamo di scoprire per mezzo della concorrenza, non possiamo mai accertare quanto efficace essa sia nello scoprire quei fatti che potrebbero essere scoperti. Tutto ciò che possiamo sperare di trovare è che, nel complesso, le società che per tale fine contano sulla concorrenza hanno raggiunto i loro scopi meglio di altre. Questa è una conclusione che la storia della civiltà sembra aver confermato in modo eminente.
La peculiarità della concorrenza - peculiarità che essa ha in comune col metodo scientifico - è che la sua efficacia non può essere controllata in casi particolari in cui essa è significativa, ma è mostrata solo dal fatto che il mercato prevarrà rispetto a qualsiasi ordinamento alternativo. I vantaggi di procedimenti scientifici riconosciuti non possono mai essere provati scientificamente, ma solo dimostrati dall'esperienza comune che, nel complesso, essi si rivelano più adatti di altri approcci alternativi nel fornire i beni.
La differenza tra concorrenza economica e i procedimenti coronati da successo della scienza consiste nel fatto che la prima è un metodo per scoprire fatti particolari importanti per raggiungere dei fini scientifici, temporanei, mentre la scienza tende a scoprire quelli che talvolta sono chiamati i "fatti generali", che sono regolarità di eventi. La scienza si occupa di fatti unici, particolari, solo nella misura in cui essi contribuiscono a confermare o a confutare le teorie. Poiché queste si riferiscono ad aspetti generali, permanenti del mondo, le scoperte della scienza hanno tutto il tempo perché sia provata la loro validità. I benefici di fatti particolari, invece, la cui utilità viene scoperta dalla concorrenza nel mercato, sono in larga misura transitori. Per quanto riguarda la teoria del metodo scientifico sarebbe altrettanto facile screditarla per il fatto che non porta a previsioni controllabili di quel che scoprirà la scienza, quanto lo è screditare la teoria del mercato per il fatto che non riesce a prevedere quali risultati particolari questo riuscirà a raggiungere. Ciò, nella natura del caso, è quanto la teoria della concorrenza non può fare in ogni situazione in cui è interessante che essa venga impiegata. La sua capacità di previsione si limita necessariamente al tipo di modello, o al carattere astratto dell'ordinamento che si formerà, ma non si estende fino a prevedere fatti particolari.
Rileverò qui di seguito che la teoria economica talora sembra, fin dall'inizio, sbarrarsi la strada verso una vera valutazione del carattere che presenta il processo della concorrenza, perché parte dal presupposto che esista una "data" offerta di beni scarsi. Ma quali beni siano scarsi, o quali cose siano dei beni, e quanto siano scarsi o di valore: sono esattamente queste le cose che deve scoprire la concorrenza. Solo dei risultati provvisori in ciascuno stadio del processo di mercato dicono agli individui cosa cercare. L'utilizzazione di conoscenze ampiamente disperse in una società caratterizzata da una vasta divisione del lavoro non può basarsi sul presupposto che gli individui conoscano tutti gli usi particolari ai quali potrebbero essere destinate cose ben note nel loro ambiente abituale. I prezzi indirizzano la loro attenzione a ciò che vale la pena scoprire circa le offerte del mercato per varie cose e servizi. Questo significa che le combinazioni, sotto certi aspetti sempre uniche, di conoscenze e capacità individuali, che il mercato permette loro di usare, non saranno semplicemente, e neanche in prima istanza, una conoscenza di fatti tale da poterne fare un elenco o da poter comunicare se qualche autorità dovesse chiedere loro di farlo. La conoscenza della quale parlo è piuttosto una capacità di scoprire circostanze particolari, capacità che diventa efficace solo se coloro che ne sono in possesso vengono informati dal mercato sui tipi di cose o servizi che sono richiesti, e con quanta urgenza lo sono.
Basti questo per indicare a quale genere di conoscenza mi riferisco quando chiamo la concorrenza un procedimento di scoperta. Si potrebbe aggiungere ancora molto per dare corpo a questa scarna affermazione astratta, in modo da mostrarne tutta l'importanza pratica. Ma debbo accontentarmi di accennare brevemente all'assurdità del procedimento usuale di iniziare l'analisi con una situazione in cui si suppone che tutti i fatti siano noti. Questo è uno stato di cose che la teoria economica chiama curiosamente "concorrenza perfetta". Non lascia spazio alcuno all'attività chiamata concorrenza, che si presume abbia già svolto il suo compito. Ma devo affrettarmi ad esaminare una questione sulla quale esiste una confusione ancora maggiore, cioè il significato dell'assunto secondo il quale il mercato aggiusta spontaneamente le attività ai fatti che scopre, vale a dire la questione dello scopo per cui esso usa questa informazione.
La confusione che domina in questo campo è dovuta in larga misura al fatto che viene trattato in modo sbagliato l'ordine prodotto dal mercato come una "economia" nel senso stretto della parola, i risultati del processo di mercato venendo giudicati secondo criteri che si addicono solo ad una singola comunità organizzata al servizio di una gerarchia di fini. Ma questa gerarchia di fini non ha attinenza con la complessa struttura composta di innumerevoli arrangiamenti economici individuali. Purtroppo, definiamo anche questi arrangiamenti economici individuali con la stessa parola, "economia", sebbene si tratti di qualcosa di profondamente diverso e che deve essere giudicato secondo criteri differenti.
Un'economia, nel senso stretto della parola, è un'organizzazione o una struttura in cui qualcuno assegna deliberatamente delle risorse ad un ordine unitario di fini. L'ordine spontaneo prodotto dal mercato non è nulla del genere; e sotto certi aspetti importanti non si comporta come un'economia vera e propria. In particolare, quest'ordine spontaneo è diverso perché non garantisce che siano sempre soddisfatte, prima di quelle meno importanti, le esigenze che l'opinione generale ritiene più importanti. E' questo il motivo principale delle obiezioni che si muovono contro tale ordine.
Tutto quello che chiede il socialismo, in effetti, non è altro che la trasformazione dell'ordine di mercato in un'economia in senso stretto, in cui una scala comune d'importanza determini quali delle varie esigenze debbano essere soddisfatte, e quali no.
La difficoltà che pone quest'obiettivo socialista è duplice. Com'è vero per ogni organizzazione deliberata, solo la conoscenza dell'organizzatore può entrare nel disegno di un'economia vera e propria, e tutti i membri di una tale economia devono essere guidati nelle loro azioni dalla gerarchia unitaria di fini che essa serve. D'altra parte, a questa duplice difficoltà corrisponde un duplice vantaggio dell'ordinamento spontaneo del mercato, o catallassi. La conoscenza che vi è usata è quella di tutti i suoi membri. I fini che esso serve sono i fini distinti di quegli individui, in tutta la loro varietà e contrarietà.
Proprio da questo fatto sorgono difficoltà di carattere intellettuale che preoccupano non solo i socialisti, ma anche tutti gli economisti che vogliono valutare i risultati conseguiti dall'ordine di mercato; perché, se l'ordine di mercato non serve un determinato ordinamento di fini, e se in realtà non si può dire legittimamente, come per ogni altro ordine formatosi spontaneamente, che abbia dei fini particolari, non è possibile nemmeno dare una valutazione dei risultati come di una somma dei suoi prodotti individuali particolari. Cosa intendiamo, dunque, quando affermiamo che l'ordine del mercato produce in un cento senso un massimo o un ottimo?
Il fatto è che, sebbene non sia appropriato dire che l'esistenza di un ordine spontaneo non creato per uno scopo particolare abbia uno scopo, tale ordinamento, però, può contribuire in notevole misura al conseguimento di molti obiettivi individuali differenti non noti nel loro insieme a una singola persona, o ad un gruppo di persone relativamente piccolo. Un'azione razionale è possibile, infatti, solo in un mondo relativamente ben ordinato. Ha quindi chiaramente un senso cercare di produrre delle condizioni sotto le quali la possibilità che qualsiasi individuo preso a caso avrà di raggiungere i propri fini nel miglior modo possibile saranno molto alte, anche se non si può prevedere quali obiettivi particolari saranno favoriti e quali no.
Come abbiamo visto, i risultati di un procedimento di scoperta sono imprevedibili per loro natura; e tutto quello che possiamo aspettarci dall'adozione di un efficace procedimento di scoperta è di aumentare le possibilità per individui sconosciuti. L'unico obiettivo comune che possiamo perseguire scegliendo questa tecnica per ordinare gli affari sociali è il tipo generale di modello, o il carattere astratto, dell'ordinamento che si formerà.
Gli economisti descrivono solitamente l'ordine prodotto dalla concorrenza come un equilibrio, un termine in certo senso infelice, perché un tale equilibrio presuppone che i fatti siano stati già scoperti tutti e che la concorrenza abbia quindi cessato di esistere. Il concetto di "ordine", che almeno per la discussione di problemi di politica economica io preferisco a quello di equilibrio, offre il vantaggio di poter parlare in modo significativo di un ordine al quale ci si avvicina progressivamente per gradi, e che può essere salvaguardato attraverso un processo di cambiamento. Mentre un equilibrio economico non esiste mai realmente, vi è una certa giustificazione per asserire che ci si avvicina ad un alto grado al tipo di ordine di cui la nostra teoria descrive un tipo ideale.
Quest'ordine si manifesta in primo luogo nel momento in cui le aspettative di transazione da effettuare con altri membri delle società, sulle quali si basano i progetti di tutti i vari soggetti economici, per lo più si realizzano. Questo reciproco aggiustamento di progetti individuali è prodotto da ciò che, da quando le scienze fisiche hanno cominciato ad occuparsi anche degli ordini spontanei, o "sistemi auto-organizzantisi", abbiamo imparato a chiamare feedback negativo. Infatti, come dei biologi ben informati riconoscono, molto prima che Claude Bernard, Clerk Maxwell, Walter B. Cannon o Norbert Wiener sviluppassero la cibernetica, Adam Smith aveva già usato con altrettanta chiarezza l'idea della Ricchezza delle nazioni. La "mano invisibile" che regolava i prezzi alla perfezione corrisponde chiaramente a quest'idea. In un mercato libero, diceva infatti Smith, i prezzi sono regolati da un feedback negativo.
Il fatto che un alto grado di corrispondenza delle aspettative è prodotto dalla sistematica delusione di alcuni tipi di aspettative è di cruciale importanza per comprendere il funzionamento dell'ordine di mercato. Ma produrre un aggiustamento reciproco di piani individuali non è tutto quello che realizza il mercato. Esso garantisce anche che tutto ciò che viene prodotto sia prodotto da chi possa farlo più a buon mercato (o per lo meno allo stesso costo) rispetto a chi non lo produce (e non può dedicare le proprie energie per produrre qualcos'altro a costi comparativamente più bassi), e che ogni prodotto sia venduto ad un prezzo più basso di quello al quale potrebbe offrirlo chi in effetti non lo produce. Ciò non esclude, ovviamente, che alcuni possano trarre profitti considerevoli rispetto ai loro costi, se questi costi sono molto più bassi di quelli del produttore potenziale che più si avvicina alla loro efficienza. Ma ciò significa che, dell'insieme di merci che di fatto viene prodotto, verrà prodotto tanto quanto sappiamo produrre con ogni metodo conosciuto. Non sarà naturalmente quanto potremmo produrre se tutte le conoscenze che uno possedesse o potesse acquisire fossero controllate da qualche organismo e inserite in un computer (il costo della ricerca sarebbe tuttavia elevato). Ma facciamo un torto a ciò che riesce a ottenere il mercato se lo giudichiamo, per così dire, dall'alto, mettendolo a confronto con un modello ideale che non abbiamo alcuna possibilità conosciuta di raggiungere. Giudicarlo, come dovremmo, dal di sotto, comporta un confronto con ciò che potremmo conseguire con qualsiasi altro metodo - specialmente con ciò che verrebbe prodotto se fosse impedita la concorrenza, cosicché solo a coloro ai quali qualche autorità avesse conferito il diritto di produrre o vendere cose particolari fosse permesso di farlo. Tutto quello che dobbiamo considerare è quanto sia difficile, in un sistema di concorrenza, scoprire dei modi per fornire ai consumatori beni migliori o più a buon mercato di quanto già non abbiano. Dove sembrano esistere queste opportunità inutilizzate noi troviamo di solito che esse rimangono non sviluppate perché il loro uso è ostacolato o dal potere dell'autorità (compresa la concessione di privilegi evidenti) o da qualche abuso personale di potere che la legge dovrebbe proibire.
Non bisogna dimenticare che, a tale riguardo, il mercato crea solo un approccio verso un qualche punto su quella superficie unidimensionale con la quale la teoria economica pura rappresenta l'orizzonte di tutte le possibilità nelle quali la produzione di ogni combinazione proporzionale di merci e servizi può essere concepibilmente realizzata. Il mercato lascia la particolare combinazione di beni, e la sua distribuzione tra gli individui, per lo più a circostanze imprevedibili; e, in questo senso, al caso. E' come se - Adam Smith l'aveva già compreso - ci fossimo messi d'accordo per giocare un gioco in cui entri in parte l'abilità e in parte la fortuna.
Questo gioco competitivo, al prezzo di lasciare in qualche misura al caso la quota di ciascun individuo, garantisce che l'effettivo equivalente della sua quota, comunque debba risultare, sia quanto più grande è possibile. Il gioco è, per usare un linguaggio corrente, non un gioco a somma zero, ma un gioco attraverso il quale, giocando secondo le regole, l'ammontare della posta da dividere viene aumentato, lasciando le singole quote di essa, in larga misura, al caso. Una mente che conosca tutti i fatti potrebbe scegliere a suo piacimento qualsiasi punto sulla superficie e distribuire questo prodotto nel modo da lei ritenuto giusto. Ma il solo punto sull'orizzonte delle possibilità, o abbastanza vicino ad esso, che sappiamo come raggiungere è quello al quale arriveremo se lasceremo che sia il mercato a determinarlo. Il cosiddetto "massimo" che così raggiungiamo non può essere definito, ovviamente, come una somma di cose particolari, ma solo nei termini delle possibilità che esso offre a individui ignoti di ottenere il più alto equivalente reale delle proprie quote relative, che sarà determinato in parte dal caso. Semplicemente perché i suoi risultati non possono essere valutati secondo un'unica scala di valori, come avviene in un'economia vera e propria, è davvero fuorviante valutare i risultati di una catallassi come se fosse un'economia.
Se la concorrenza è importante in un sistema ad alto sviluppo economico in quanto processo di esplorazione in cui gli individui cercano nuove opportunità che, una volta scoperte, possono essere usate anche da altri, ciò vale a maggior ragione per le società sottosviluppate. Ho prestato deliberatamente un'attenzione preminente ai problemi riguardanti la salvaguardia di un ordine che sia efficiente sotto condizioni in cui la maggior parte delle risorse e delle tecniche è generalmente nota e in cui continui adattamenti delle attività per mantenere un certo livello di redditi sono resi necessari da cambiamenti inevitabili di minore entità. Non prenderò in considerazione l'indubbio ruolo che la concorrenza svolge nell'avanzamento della conoscenza tecnologica. Ma desidero sottolineare quanto debba essere più importante nei Paesi nei quali il compito principale è quello di scoprire le possibilità ancora sconosciute di una società in cui, in passato, non c'è stata concorrenza. Può non essere del tutto assurdo, anche se in gran parte sbagliato, credere che possiamo prevedere e controllare la struttura della società che un ulteriore avanzamento tecnologico produrrà in Paesi già altamente sviluppati. Ma è pura fantasia credere che possiamo determinare in anticipo la struttura sociale in un Paese dove il problema più importante rimane quello di scoprire quali risorse umane e materiali siano disponibili, o credere che per questo Paese possiamo prevedere le conseguenze particolari di qualsiasi misura possiamo adottare.
A parte il fatto che in questi Paesi c'è ancora così tanto da scoprire, c'è un altro motivo per cui la massima libertà di concorrenza sembra essere addirittura più importante lì che in Paesi più avanzati. Questo motivo è il fatto che i necessari cambiamenti nelle abitudini e negli usi si verificheranno solo se i pochi desiderosi e capaci di sperimentare nuovi metodi riescono a far sì che sarà necessario per la maggioranza seguirli, e allo stesso tempo, possono mostrare loro la strada. Il necessario processo di scoperta sarà ostacolato o impedito se la maggioranza riesce a trattenere i pochi nell'osservanza delle vie tradizionali.
Naturalmente, uno dei motivi principali del rifiuto della concorrenza è che essa non solo mostra in che modo le cose possono essere fatte con maggiore efficacia, ma, inoltre, mette coloro che dipendono dal mercato per i loro redditi di fronte all'alternativa di imitare i migliori o di perdere del tutto o almeno in parte il loro reddito. La concorrenza produce in tal modo un tipo di pressione impersonale che rende necessario, per molti individui, adattare il proprio modo di vivere in un modo che nessuna deliberata istruzione e nessun ordine potrebbero realizzare. La direzione centralizzata al servizio della cosiddetta "giustizia sociale" può essere un lusso che le nazioni ricche possono permettersi, forse per lungo tempo, senza troppo danno per i loro redditi. Ma non è certamente un metodo con il quale i Paesi poveri possano accelerare il proprio adattamento a circostanze in rapido mutamento, dalle quali dipende la loro crescita.
Forse vale la pena far notare, a tale riguardo, che le possibilità di crescita sono probabilmente tanto più grandi quanto più ampie sono le opportunità ancora non usate di un Paese. Per quanto possa sembrare strano a prima vista, un alto tasso di crescita dimostra il più delle volte che in passato le opportunità sono state trascurate. Perciò, un alto tasso di crescita talora può anche testimoniare cattive politiche del passato piuttosto che buone politiche del presente. Di conseguenza, non è ragionevole aspettarsi, in Paesi già molto sviluppati, un tasso di crescita così alto quanto quello che per qualche tempo può raggiungersi in Paesi dove, per una lunga età, ostacoli legali e istituzionali avevano impedito un'efficace utilizzazione delle risorse.
Da tutto quello che ho potuto vedere nel mondo, la percentuale di persone private che sono disposte a tentare nuove vie, se queste sembrano promettere loro migliori condizioni, e se esse non incontrano l'opposizione del propri simili, è più o meno la stessa dovunque. L'assenza tanto lamentata di uno spirito d'iniziativa in molti dei nuovi Paesi non è una caratteristica immutabile dei singoli abitanti, ma la conseguenza di restrizioni che gli usi e le istituzioni attuali impongono loro. Questo è il motivo per cui sarebbe fatale, in questa società, permettere alla volontà collettiva di dirigere gli sforzi degli individui, anziché limitare il potere governativo a proteggere gli individui dalle pressioni della società.


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