Politica e mercati




Alfredo Recanatesi



Sono trascorsi ventotto anni da quel ferragosto del 1971, quando gli Stati Uniti decisero di "sospendere la convertibilità" del dollaro in oro. Fu così sancita la fine del sistema di cambi fissi che aveva felicemente retto alla fine della seconda guerra mondiale, ma che si era mostrato non più sostenibile perché, esaurito il denominatore comune della ricostruzione e della riconversione post-bellica, ogni Paese e ogni moneta tendevano ad incamminarsi verso storie autonome e diverse.
Ventotto anni sembrano ancora insufficienti, però, per convincere i governi che il mondo è troppo cambiato perché si possa tornare a vincolare tra loro le principali monete del mondo. E così da ventotto anni sulle scene delle cronache valutarie continuano a succedersi leader politici che rispolverano l'idea di stabilire limiti alle oscillazioni tra i cambi reciproci delle valute-guida. Sarebbe bello, certo: contenere le oscillazioni dei cambi significherebbe ridurre uno dei maggiori fattori delle crisi sistemiche che periodicamente agitano la scena valutaria mondiale con l'esigenza di piani di stabilizzazione più o meno severi, rischi di insolvenze a catena delle banche, cadute dei commerci.
Il motivo di tanta nostalgia per il bel tempo andato è, dunque, palese, ma per comprendere le vicende del nostro tempo può essere utile qualche ulteriore considerazione. Ogni area geografica del mondo, grande o piccola che sia, dai subcontinenti ai quartieri delle città, ha proprie specificità economiche che derivano dalle risorse naturali, dal clima, dalla densità e dal carattere della popolazione, dalla sua cultura, dalla sua religione. Ogni area, di conseguenza, ha una sua propria evoluzione e un suo proprio grado di reattività ai fattori esterni, per cui l'andamento dei suoi indici economici più significativi - inflazione, produzione, scambi con l'estero, domanda e offerta di credito - non sarà mai parallelo a quello di qualsiasi altra area, generando così squilibri, tensioni, scompensi. Se le diverse aree appartengono ad un medesimo sistema politico, questo è legittimato ad effettuare i trasferimenti di reddito necessari a compensare gli squilibri nel nome di valori extra-economici, quali la patria nazionale, l'unità linguistica o religiosa, una storia di comuni battaglie per la libertà e la democrazia. Se appartengono a diversi sistemi politici, tra i quali non vi sono motivi di solidarietà, allora i casi sono due: o vengono attuate politiche in grado di eliminare gli squilibri, oppure occorre interporre tra l'economia dell'area in questione e il resto del mondo un ammortizzatore che attenui e compensi gli squilibri e le tensioni che inevitabilmente si producono nel tempo. Il cambio della moneta è uno, forse il principale, di questi ammortizzatori.
Si capisce allora che i leader politici avvertano il conflitto tra l'autonomia politica, che legittimamente si sentono di poter rivendicare in forza del mandato ricevuto dagli elettori, e il potere dei mercati, che è diventato enorme e prevaricante, in quanto ormai concentrato in un'unica entità globale. Ma quella che avvertono non è altro che una contraddizione che sempre più sta dominando la nostra epoca, quella, appunto, tra un sistema economico e finanziario che è stato liberalizzato fino a renderlo unico, globale, e sistemi politico-istituzionali che sono rimasti quelli di un tempo, con la loro frammentazione, con i loro nazionalismi, con la loro ambizione di autonomia.
L'Europa ne è un esempio sempre più chiaro: Lafontaine, e non solo lui, scalpitava perché avrebbe voluto poter allargare i cordoni della spesa per sostenere in qualche modo l'occupazione, cioè per rispondere alla speranza che in Germania aveva portato all'elezione sua e della sua coalizione. Doveva trattenersi perché, tra l'altro, un aumento della spesa pubblica in Europa sarebbe stato sanzionato dal mercato con un cospicuo deprezzamento dell'euro; ed ecco l'idea di imbrigliare la quotazione.
Ma il rispetto di un qualsiasi accordo per evitare ogni instabilità, e dunque per evitare che l'euro si indebolisse come aveva già fatto dall'inizio dell'anno, avrebbe imposto una politica economica ancor più severa, con ulteriori restrizioni della spesa che Lafontaine avrebbe voluto espandere. Il che porta a concludere che l'attuale assetto fra le tre grandi valute - l'euro, il dollaro e lo yen - è probabilmente il compromesso più consigliabile.


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