TORNERANNO PER SEMPRE I BEI GIORNI?




Nicola Carducci



Osservava Luigi Russo nel suo saggio su Giovanni Verga del 1919: "Non si diventa europei andando a Parigi o a Londra o a Berlino o a Budapest, ma si nasce europei anche in provincia" (Bari, Laterza, 1959, p. 24): un europeismo che si acquisisce e matura nella riflessione sugli eterni problemi dell'uomo, percepibili anche, se non proprio più acutamente, nell'angusto perimetro della provincia. In tal senso la provincia, oltre ad essere una categoria sociologica e storiografica, e nel merito non mancano studi (vd. L'asino d'oro, a. I, n. 2, novembre 1990), assume anche la valenza di una categoria letteraria, in quanto è in grado di innestare dialetticamente la propria specificità nella più vasta generalità. E' questo e non altro il significato da annettere al noto saggio di Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana. Le particolarità geostoriche, giustamente rivendicate nel mutato clima del secondo dopoguerra, arricchiscono il patrimonio culturale della nazione, senza disperderne o comprometterne il tessuto unitario.
Il salentino Fabrizio Colamussi (1889-1955) appartiene appunto alla non esigua schiera degli scrittori che nella provincia sfidantemente rimasero, senza alcun rimpianto per le eventuali mancate sortite a Chiasso. Ne fuggirono altri, negli stessi anni e in seguito, ma non raggiungendo per questo più alti traguardi di realizzazione artistica. La "fuga" dalla provincia ha potuto consentire un'eco più vasta al proprio lavoro, un maggior numero di occasioni di successo, non di rado effimero, perché la reale consistenza e autenticità di un testo letterario è sempre "filia temporis". Al "provinciale" Colamussi, peraltro, non mancarono affatto riconoscimenti abbastanza lusinghieri, per consenso alle ragioni della sua arte, d'illustri personalità d'oltralpe e d'oltre Manica, come ne attesta il folto carteggio diligentemente esplorato da Lina Jannuzzi e in fase di riordino per la pubblicazione. Per citare qualche esempio di notorietà non provinciale, il dramma storico lirico in quattro atti Elisabetta d'Austria ha avuto traduzioni in francese, in inglese e parzialmente in tedesco e in ungherese; ed un critico belga, ancora nell'immediato dopoguerra (e l'opera del Colamussi risaliva al 1929), in una lettera all'autore, deprecava "l'esprit mercantile" che ostacolava la rappresentazione nei teatri di Londra e di Parigi, del suo "beau et puissant drame historique". Né va taciuta l'entusiastica adesione del francese Devaux, già nel 1939, per l'altro lavoro teatrale, L'Artide: "Fabrizio Colamussi pénètre résolument dans un demain nouveau et fait, dans son pays, figure de précurseur".
Nell'area salentina degli stessi anni, si possono accostare al Colamussi altri due scrittori "solitari", Francesco Stampacchia e Cesare Teofilato, sui quali da qualche anno soltanto si è rivolta un'attenzione non preconcetta, al di fuori del vieto pregiudizio retorico scolastico, che bandisce dal canone storiografico gli outsider: attraversare la propria epoca, facendo "parte per se stesso", non costituisce motivo di demerito. Il percorso novecentesco di Colamussi, come degli altri due, non conosce le tappe obbligate del secolo: essi hanno in comune una concezione dell'arte fondata su un rigore formale e ideale e ispirata ad una robusta fede laica nei valori della storia e della scienza. Alle avanguardie letterarie risposero con un'accorta indifferenza, più interessati alla propria identità quale che fosse, invece che ad una classificante omologabilità di grido. La tradizione classica fungeva per essi da schermo contro la facile mimetizzazione; era sinonimo di realismo rappresentativo, non di un pigro rigurgito del passato, che tuttavia non escludeva, perché si resta sempre figli del proprio tempo, fermenti non dissimulati di modernità nella riassunzione di miti antichi, come nel caso della figura del ribelle per antonomasia, Prometeo, operante nell'immaginazione di Colamussi e di Stampacchia.
La prima prova letteraria del Colamussi, Lo spirito della pietà (1915), è un poemetto liricodrammatico, che trae spunto dalla cronaca, un episodio realmente accaduto nell'isola bretone dì Belle Île en Mer, dell'aprile 1911. Ma la cronaca viene subito trascesa in un messaggio di fratellanza umana, di universale amore, proprio quando sul vecchio continente si abbatteva il primo conflitto mondiale del secolo. Un messaggio non reso però in termini romantico-sentimentali, ma di mimesi teatrale, quasi ad accreditarne anche un carattere altamente, non pedantescamente pedagogico, mediante la proiezione estraniante del proprio sentire, la Verfremdung. La vicenda si sviluppa e scioglie in poche rapide suggestive sequenze, ora dialogiche ora corali, di tenerezza e di angoscia, di tensione meditativa e di fiduciosa fierezza. Nella casa del custode del faro di Kernodis, due bambini, di sette e di otto anni, vegliano presso il letto del padre morto, increduli del tragico evento; è così venuto meno il sostegno unico della famiglia; la madre è inesperta, per potersi sostituire nel funzionamento delle manovre del faro, e l'incubo del buio assoluto, che insidia la rotta dei naviganti, le pesa nella mente e nel cuore. A dissipare tanta desolazione, che sempre meno risparmia i due bambini, appaiono, forieri di speranza, stuoli festanti di gabbiani: "son gli augelletti che amano la luce"; e la figura simbolica del vecchio, fantasma propiziatorio più che presenza palpabile, incarna l'umano anelito all'illusione, nell'acerbità dell'esistenza. Il vecchio si identifica con la poesia del faro che è, a un tempo, la poesia della luce: "Tutta risento l'antica poesia / del faro... Solitudine / del faro! Come sempre io t'amo, come / sempre t'ho amata! Ancora giovinetto, / tutta t'intesi, o poesia del faro / e sopra un faro lungi nel deserto / del mare io m'appartai dal mondo". La famigliola si ricompone nella "nuova casetta tutta verde / di là, sull'altra sponda dell'Oceano / col glorioso vecchio". La catarsi si realizza nel segno della saggezza e della luce della poesia.
Questo poemetto, pur nella sua acerbità impressionistico-espressiva, contiene in nuce i temi di fondo della fantasia di Colamussi, quale verrà esplicandosi nelle opere maggiori.
Intanto va subito rilevato un dato, la predilezione del genere letterario del dramma, che non può essere ricondotta a ragioni esclusivamente retorico-istituzionali; è piuttosto lo sbocco cosciente di una visione dolorosa del mondo, di una lettura della realtà in chiave tragica, pur nell'ansia del disacerbamento; lettura che investe la storia, la scienza, l'esperienza, ed in proposito giova ricordare la vasta e profonda cultura filosofica di Colamussi, come ne fa fede la sua ricca biblioteca. L'azione di Elisabetta d'Austria abbraccia un lungo arco di anni, sull'esempio del teatro elisabettiano e del Manzoni, dal 1853 al 1898, periodo che segna la rovinosa parabola della Casa d'Asburgo e della vecchia Europa degli Imperi centrali.
La vita di Elisabetta futura imperatrice si apre, a dir così, nel segno di una violenza morale subita: la forzosa e innaturale rinuncia alla propria gaia spensieratezza di fanciulla in fiore: "Non vedete? Ho le robe corte, Maestà. Non mi è permesso ancora di sedere a mensa quando vi sono ospiti. Del resto io ne approfitto a mio bell'agio. / Corro tutto il paese; / entro dove voglio / m'inerpico sui monti / raggiungo le cascate / m'interno nelle grotte / danzo con le fate / il lago è mio / mio è il bosco / i monti che vedete sono miei / corro sui cavalli / salto / nuoto / mi batto alla scherma / la vita, l'aria è mia / Ed anche la libertà è mia!". La vis dramatis èracchiusa in questa innaturale rinuncia, nella quale hanno radice gli eventi che seguiranno, sino all'assassinio per mano anarchica, nel settembre 1898; preludio insieme di ulteriori tragedie europee tra i due secoli. Se ne commosse il Carducci, poeta della storia: "Ahi quanto fato grava su l'alta tua casa crollante / su la tua bianca testa quanto dolore, Asburgo!" (Alle Valchirie). Ma ancor più ne rimane scosso Fabrizio Colamussi, appena giovinetto; sicché, come documenta Lina Jannuzzi, risale a questa stessa data, 1898, la prima embrionale idea del futuro lavoro teatrale, per la cui definitiva elaborazione, certo, dovettero concorrere altri fattori, di cultura e di esperienza, oltre alla necessaria, puntigliosa ricognizione documentaria. Né possono escludersi le impressioni prodotte dagli sconvolgimenti storici del primo quarto del nuovo secolo e dalle avvisaglie di una specie di assopimento della coscienza collettiva della belle époque.
Per Colamussi, poi, la storia, crocianamente, è sempre contemporanea, e pertanto l'assunzione di fatti storici, remoti o recenti, a materia d'interpretazione artistica, può costituire un banco di prova della funzione eternatrice della poesia, la verifica del trascendimento delle scorie del tempo e dello spazio nell'aura mitica della perpetuità cosmica; "parce que nous vivons une vie sociale et même cosmique autant et plus q'une vie individuelle", sulla scorta di Bergson, non sconosciuto al Colamussi. Il personaggio di Elisabetta, prima ancora del goethiano eterno femminino, condensa in sé il paradigma dell'esistenza come sogno e come sofferenza, come utopia e come ansia insoddisfatta di libertà. Di contro alla ragione di Stato la donna rivendica, anche nei labirinti del Potere, la propria identità, l'autenticità del suo sentire e pensare, nel cupo involucro dei condizionamenti esterni, il possesso inalienabile del proprio io indiviso. Elisabetta si ritrova intera nei frequenti monologhi, che le permettono anche un distacco sovrano e serenante dal mondo che la circonda: "La sera del mio primo ricevimento cominciava il mio dramma; ed ora lo sento che sale, che mi investe, mi serra sempre più da tutti i lati. Il principio di una forza immensa, senza dubbio!... E dappertutto quei fagotti d'ipocrisia e di maldicenza ... Scelgono gli angoli bui; ne è piena la Reggia ... Che mai possono tramare di bene codesti fasci di serpi?... Che mai può tenere sì strettamente avvinte, cose sì vili? L'immondizia del mondo: non altro!". Nell'assedio incessante delle convenzioni, dei cerimoniali, delle liturgie cortigiane, Elisabetta avverte sempre più acuta la propria solitudine, senza subirla come destino; legge Heine, il rivoluzionario, ed ha in disprezzo il prestigio del trono.
Oltre all'orgoglio di una vita offesa, di una dignità di madre e di donna subdolamente calpestata, ulteriore, determinante elemento della tragedia è il codice delle "inique corti"; la "meretrice che mai da l'ospizio / di Cesare non torse gli occhi putti", è qui personificata dal conte Grünne, il bieco Jago di turno nella dimora del Potere, il quale s'insinua nel contrasto tra a madre e la sposa dell'imperatore per tirarne vantaggi di carriera. Riportiamo qualche passo del monologo che ne rivela il fosco animo: "La vecchia ti occorreva conquistare: è lei sola che conta qui; la giovane imperatrice non ha voce... E, d'altra parte, troppo sei inviso tu, Grünne, a costei; troppo costei è bella, franca, libera e pura... e tu, chiuso, opaco, obliquo, turpe, strisciante. Nulla, ben nulla avresti potuto sperare da lei.. Fa pure da lubrica spia; segui passo per passo, come hai fatto sin qui, l'orme della bella fantasiosa; rapporta, rapporta; ingrandisci, ingrandisci; inventa. Salire ancora tu devi.. Incontrastato, pieno tu devi avere il dominio sull'animo dell'Imperatore... Questo, questo tu vuoi, fosco Grünne!, ... per appagare verso tutti e verso tutto la tua folle sete di vendetta feroce e implacabile". Così ad Elisabetta verrà sottratto, per volere della suocera, il primogenito dei tre figlioletti, crede al trono, nel timore che possa crescere ed educarsi nelle idee libertarie della madre; non senza un esplicito ed ostentato avallo dell'Imperatore, per di più: "Mia madre ha ragione. Per colei che siede tra Dio e il popolo sul trono dell'Austria non si deve ammettere o scusare la minima ignoranza dei doveri che si hanno verso l'Uno e verso l'altro. Non sarebbe la Sovrana: non regnerebbe sull'Austria".
Per Elisabetta, alea iacta; alla ironia delle sue repliche subentra ben presto un sarcasmo senza tregua, che rivela, tutt'intero l'animo della indomita "contadinella bavara", con le sue intatte categorie di giudizio. Con un forte scatto di fantasia, Colamussi trasferisce gli scenari del dramma prorompente di Elisabetta, sposa vilipesa e madre conculcata, nella immensità di una distesa marina, a bordo del panfilo "Miramar"; e gli interlocutori della donna sono ormai gli elementi della natura, con evidenti echi shakespeariani; le onde del mare, le raffiche del vento, la salsedine amara, il battello stesso; e ne ricava una forza interiore tellurica, "un empito di vita divinissima", che la trasfigura e quasi trasumana. Elisabetta diventa sempre più consapevolmente antagonista di un mondo, di una realtà secolare, l'Austria felix, di un'epoca storica, appendice estrema dell' "antico regime". Un antagonismo, tuttavia, al limite della follia e del dolore supremo: "La corsa, sol la corsa / voglio, il volo! / il senso eterno attuale della fuga, / fatta con te sol. Una con lo spazio". La Casa d'Asburgo gronda ancora di sangue: il Kronprinz, l'crede al trono, che ha subìto anch'egli, in tenerissima età, il distacco oltraggioso dagli affetti più naturali, chiude la sua errabonda esistenza con questo messaggio: "Mamma, non ho il diritto di vivere. Ho ucciso".
Si accampano nella pièce storico-drammatica di Colamussi, calati nei personaggi e nelle situazioni, i princìpi del bene e del male, dell'innocenza e della colpa, e l'acciaro dell'anarchico colpisce la volontà del bene, la vittima della cospirazione cortigiana non i cospiratori. I due piani della fiction, ardua nella sua ambizione poetica, cioè il realistico e il simbolico, anche per effetto di suggestioni chiaramente freudiane, rendono con efficacia i due livelli della dissestata psiche di Elisabetta, la "contadinella bavara" per l'Imperatrice madre e la "rosa di Posshenofen" per i sudditi dell'Impero; quello della coscienza critica e l'altro del perturbato inconscio, di cui si fanno portavoce "i dèmoni della poesia, della irrequietezza, della follia". Sono i dèmoni che si scatenano tra i "giardini dell'Achilleion, nell'isola di Corfù, visti dall'alto della terrazza della MUSE": "La mia vita finì!... Come negarlo? / Questa che ora si comincia è Altra", esclama tra sé, in assoluta solitudine e avvolta da un peplo nero. Al naufragio mentale di Elisabetta sopravvive un Sogno, che la donna racconta a un "vecchio monaco"; un sogno anch'esso tristemente presago; le perle della sua collana giacciono in fondo al mare. Così la regalità si scorpora degli ufficiali paludamenti, degli orpelli di una giovinezza perduta, per mettere a nudo l'infelice umanità di sempre. A Ginevra infine, nel settembre 1898, come ne perpetuò la memoria Maurice Barrès, "une morte tragique vient donner un suprême prestige à cette âme que les coups acharnés du destin avaient travaillée comme une matière rare ... ", sicché "l'imbecile Lucheni a tué une morte".
Con l'altro lavoro del Colamussi, L'Artide, dramma polare in quattro atti, si ha un balzo in avanti, come ritiene Lina Jannuzzi, o non piuttosto una diversione, in coerenza poetica altrettanto pregnante, dalla verità storica alla verità scientifica, nell'assunzione fantasticamente trasfigurativa? Il termine di convergenza resta il medesimo, una poco esaltante prospettiva sul mondo umano. Il binomio arte-scienza sostituisce ora il binomio arte-storia. Già pronto nel 1933, L'Artide vide la luce nel 1939; ma da tempo lo scrittore veniva interessandosi agli sviluppi della scienza contemporanea, alla einsteiniana teoria della relatività non meno che alla scoperta delle onde elettromagnetiche, a Guglielmo Marconi e ai fratelli Lumière. Meritorie a riguardo le informazioni fornite dalla Jannuzzi. Né va ignorato il dibattito sul rapporto scienza-fede e scienza-società, dalla fine del secolo in avanti, in conseguenza del quale prendevano vita movimenti culturali di grande spessore teorico e pratico, o per convalidarlo (lo scientismo positivista) o per ridimensionarlo e infine rigettarlo (le varie correnti irrazionalistiche, da Boutroux a Bergson a Nietzsche sino ad Heidegger). Nel pieno Novecento vi si richiamerà anche un poeta meridionale trapiantato nel Nord, Leonardo Sinisgalli.
Il progetto colamussiano è ora di una drammaturgia che tende a fondere razionalità scientifica e lirismo, nel giuoco infido che rimescola elementi eterni della natura ed effimere creature umane. L'occasione è data, ancora una volta, da un episodio di cronaca, di alto profilo, come già per Elisabetta d'Austria: la tragica spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord del 1928. L'impresa presentava in sé due aspetti: uno retorico-propagandistico, in sintonia col clima politico dominante, e l'altro più semplicemente umano, che ad un occhio sgombro dell'ideologia nazionalistico-imperialistica, poteva implicare una connotazione filosofica di ampio raggio, qual è l'eterno conflittuale rapporto dell'uomo con la natura. Con l'intuito del poeta, l'opzione di Colamussi è scontata: l'interesse del nostro scrittore risale all'archetipo umano, al mito di Prometeo, il sovrumano eroe sospeso da sempre sull'abisso di una smisurata grandezza e insieme di una sconfinata sventura.
Ecco, nelle scene culminanti del dramma, baluginare l'ombra radiosa di Marconi ma anche errare inquieto il fantasma di Amundsen, l'esploratore norvegese tragicamente perito. Qui la cosmica animazione della natura (lo spettro della deriva, i blocchi fantasmi, le correnti subglaciali, la nebbia, il vento, i crepacci, la tempesta magnetica, i monti, i ghiacciai eterni) non nasce, nell'ispirazione del poeta, dalla intellettualistica concezione dell'ilozoismo classico-rinascimentale, bensì da una sensibilità, più sgomenta che rinfrancante, per le sorprendenti conquiste della scienza, contro cui, poi, si scontra e soccombe la fragile fibra dell'uomo. La Sfinge artica è ben più possente della Sfinge del mito antico; se questa agiva, trascendentemente, per obbedire alla capricciosa "invidia degli dei", l'altra imperversa, lucida, contro la temerità dell'uomo moderno, il Sisifo dei tempi nuovi. Colamussi, di fronte all'avventura del dirigibile "Italia", non si pone con l'animo dell'esteta, del letterato puro, alla Vincenzo Monti, né con l'orgiastica esaltazione macchinistica di un Marinetti; perciò, assai pertinente sembra anche a noi il richiamo della Jannuzzi al pessimismo materialistico di Leopardi. Tra l'uomo e la natura sussiste sempre uno scarto incolmabile, che qui viene emblematizzato dall' "infernale maleficio" della Sfinge artica; ne fa eco il doloroso lamento delle Ondine: "Non possiamo più! Non possiamo più! / Mille furie c'inseguono! / La vista del libero mare ci ammazza! / La vista del libero cielo ci uccide! / E' una rissa feroce, Sorelle! / Attraversate, flagellate siamo! / Urtate! Rovesciate! / Ogni istante ogni istante! / Non lasciate libere! Non lasciate libere! / Massacrate! / Sommerse!". E segue la didascalia del Colamussi: "L'urlo del dolore si propaga e circola nel mondo". Il dramma si chiude, è vero, con un auspicio che è però un interrogativo: "Torneranno per sempre i bei giorni?", sono le Ondine a chiederselo.
Ma gli anni Trenta, culturalmente, sono contrassegnati anche dalle celebrazioni del bimillenario virgiliano. Si sa dell'enfasi retorica a senso unico che avvolse l'evento, cui, come anche si sa, furono in pochi a contrastare, e tra questi il nostro umanista Tommaso Fiore. Il suo eterodosso saggio sulla poesia di Virgilio (Laterza, 1930) compare tra le fonti cui si è rifatto Colamussi per il suo dramma lirico in tre atti, Il faro della latinità (composto nel '36 ma pubblicato soltanto nel '50), accanto all'Eneide, ai fasti di Ovidio, al melodramma metastasiano (Didone abbandonata) e, forse, al Carmen Saeculare di Orazio. Francamente, a noi il lavoro pare una caduta; anche, e forse anzitutto, perché l'inevitabile confronto col modello classico preminente, Virgilio, cospira a suo detrimento.
Probabilmente, è il tema stesso a forzare la mano di Colamussi, che, malgré lui, si sente ricacciato anch'egli, se pure in sordina, nella schiera dei pifferi della rivoluzione. Quel virgiliano "tantae molis erat romanam condere gentem", ahinoi finisce nel "Tevere biondo", da cui "nasce la novella istoria", e se ne fa garante il Coro finale: "Sotto l'ali dei legni /fiorisce la Storia / fioriscon gli eroi futuri, / Italia Italia! / Squillo dell'anima! Tra nembi di fumo, / il Passato è sommerso! Un mito fu Troia, / un mito l'amore, / un mito ogni sogno, ma la gloria, la gloria / che già acuta s'innalza lungo il Tevere biondo, / di là d'ogni monte, / di là d'ogni mare, / è come il Tempo che nasce / sul mondo, / O Italia Italia, o Sole!". Non sfuggono a nessuno sfocati echeggiamenti oraziani: "Alme sol, curru nitido diem qui / promis et celas aliusque et idem / nasceris, possis nihil urbe Roma / visere maius". Tuttavia, nel labile disegno complessivo, resiste un affiato panico non dannunziano ma velato di una discreta religiosità larica (tipicamente salentina?): ecco, fra l'altro, il ricordo struggente di Ilio, in Enea fuggiasco e carico di sconosciuti destini, e dell'avita casa di Sidone, nell'infelice regina di Cartagine.
Senza dubbio, l'acme dell'itinerario artistico di Colamussi si ha con La fontana di Aretusa, del '52, pubblicata postuma nel '55. Il tema esercita nei siciliani un particolare fascino e noi pensiamo almeno a Quasimodo. Il mito della ninfa, Il sorriso dei boschi", riconduce Colamussi alla Sicilia della sua fanciullezza, alla "inconsapevolezza" dell'infanzia felice, con una nostalgia che l'assurda tragedia della guerra recente ha reso più acuta. Nella "prefazione" il poeta si dà l'estremo convegno con le persone più care, che in modi vari sono entrate nella sua vita: un dolente e risentito "petit testament", con balenii di poetica: "C'era insomma qualcosa della loro anima che mi seguiva: mia Madre soprattutto, per la cui statua procedo da anni a comporre inutili parole; mio Padre, così cavalleresco e buono, al cui muto guardare per la casa debbo l'insegnamento d'amore della mia famiglia e l'alto concetto unitario di essa; Umberto, il fratello mio così presto caduto in una guerra micidiale, ombra di bellezza come petali di un fiore buttati sul mondo; Adele, l'ultima nata fra noi, forse la più vezzeggiata della nostra giovinezza, da poco scomparsa ... ; Alfredo, la cui morte, nel campo di Mathausen, ne innalza e compie la figura, perché la sua non fu che la storia di una delle più nobili lotte che possa sostenere un uomo ... ; la mia povera signora Margherita Roberti, non bella, non così giovane, ma così agile e fresca, così intelligente e appassionata, che il canto suo stesso, la musica svegliata dalle sue dita e la piacevolissima conversazione nelle incantevoli serate delle nostre case di Ravenna, con mia Madre regina dei nostri giorni e delle nostre gioie, esasperavano i nostri sogni di adolescenti". Vi si convocano inoltre nella memoria, ma prima ancora nel cuore, gli amici estimatori d'oltralpe.
In effetti, questo dramma lirico, attraverso la "ricerca del tempo perduto", risuona sommessamente del "canto del cigno"; canto che, come nei modi dei "fons Bandusiae" di Orazio, si lascia mormorare e insieme zampillare dalla Fontana di Aretusa. Il mito classico viene recuperato con una larvata tecnica di straniamento: Colamussi non si abbandona al sogno carducciano di una "primavera ellenica", ma piuttosto a un bisogno esistenziale, forse anche di senso storico (siamo nel primo decennio postbellico), di un placamento delle feroci passioni che avevano dilaniato l'Europa dell'ultimo venticinquennio. Di qui il "mito d'amore", "nell'infinito senza tempo del cuore umano", che si contrappone, nella coscienza del poeta, alla "caduta degli dei"; ed è riverificato, al tempo stesso, alla luce della scienza, non più succube del Potere e del predominio degli uni sugli altri. Il ritrovato approdo della salvezza è ora la spiritualità assoluta, che si irradia come l'esalazione del profumo dei fiori. Lo definiremmo, in veste classica, un amore di crisma paolino? La concupiscenza di Alfeo per la ninfa Aretusa è troppo intrisa di colpa perché possa essere esente dalla yubris; e Artemide soccorre la fanciulla illibata e indifesa, e la trasforma in fonte. Soltanto ora la selvaggia passione del dio si redime e sublima, nel ricercare la ninfa "nella danza delle stelle / nell'eterno fluire del mondo". Un dato strutturale di quest'opera, come delle altre di Colamussi, è la presenza di ampi squarci descrittivi a introdurre le varie scene, le quali poi si articolano nelle battute dialogiche proprie della mimesi drammatica. Così la scena seconda, ad apertura, intreccia parte descrittiva e parte dialogata: "Nell'isoletta di Ortigia leggendaria, Sicilia - Un tratto di spiaggia immerso in una fitta nuvola. Il mare - lo Jonio - ora sì ora no, s'intravede, ma sempre velato e quasi opaco. Dopo un poco, la nuvola si dirada, aprendosi nella sua parte centrale e, in mezzo ai veli che si sfaldano, appaiono Aretusa salvata dall'inseguimento e Artemide. Però, le due figure si disegnano appena. La Dea scende a terra per prima, poi fa scendere Aretusa". Quindi la ninfa chiede: "Dove mi hai condotta, o Dea? / Alla più bella delle isole, alla sicula spiaggia t'ho condotta / - Oltre lo Jonio, dunque? / - Lungi d'Alfeo. / - Per sempre? / - Per sempre". E più avanti, il nome di Aretusa passa, mormorato, di bocca in bocca tra le altre ninfe, alle quali si unisce la voce di Artemide, quasi assorta in sogno: "L'aroma dei boschi eri, Aretusa! / Nessuna t'uguagliava nella caccia! / Nessuna più pronta accorreva / nessuna porgeva più fiera / la lancia ad Artemide; / i tuoi capelli al vento della corsa, / nubi di fragranza lasciavan ... / il piede, più morbido / dell'erbe vellutate marine, / cauto e alato, sfiorava". L'allegoria del mito antico ripropone insomma, all'indomani dell'immane massacro, un messaggio d'amore senza tramonti, ripete il canto perenne degli affetti più congeniti nell'essere umano e concresciuti nel comune dolore: affetti che la poesia, cioè il limpido zampillo della fonte, preserva intatti dalle bufere della storia: poesia che è anche sinonimo della "aurea beltade ond'ebbero / ristoro unico ai mali / le nate a vaneggiar menti mortali", per concludere col Foscolo, insuperato cantore di miti.


BREVI NOTIZIE BIOGRAFICHE
Nato a Piazza Armerina (Enna) l'11 giugno 1889, da genitori pugliesi, trascorre l'infanzia in Sicilia; quindi, per seguire il padre, ufficiale dei carabinieri, si trasferisce con la famiglia a Ravenna, dove compie gli studi ginnasiali, poi completati al liceo "G. Palmieri" di Lecce, dove si stabilisce definitivamente. Conseguita la laurea in giurisprudenza, esercita per qualche tempo l'attività legale nel capoluogo salentino, senza mai trascurare i suoi interessi letterari; traduce dall'inglese, dal francese e dallo spagnolo. Prende parte al secondo conflitto mondiale, come ufficiale dell'esercito con mansioni di censura militare, a Bari. Qui frequenta personalità di spicco della cultura meridionale: da Mario Sansone a Gabriele Pepe ad Antonio Corsano a Francesco Barbieri. Alla fine della guerra rientra a Lecce, per qualche anno è incaricato della direzione del museo provinciale. Muore il 10 maggio 1955. Lina Jannuzzi ha curato la pubblicazione delle opere teatrali (Lecce, Milella, 1990), corredandola di un'ampia introduzione, di una nota biografica, filologica e bibliografica. Numerosi gli inediti e un fitto carteggio, in possesso del dottor Enzo Carlino, suo nipote, che si ripromette di darli quanto prima alla luce.


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