La rivoluzione mancata




Aldo Bello



I duecento giorni

23 DICEMBRE 1798
Ferdinando IV, all'arrivo delle truppe francesi, abbandona Napoli.

21 GENNAIO 1799
Il generale francese Jean-Etienne Championnet conquista il castello di Sant'Elmo. Due giorni dopo entra nella capitale del Reame.

22 GENNAIO
Si proclama la Repubblica napoletana e si costituisce un governo provvisorio. Presidente è Carlo Luberg, ma la mente è il giurista Mario Pagano, intorno al quale si raccolgono intellettuali come Domenico Cirillo, Vincenzo Russo, Eleonora de Fonseca Pimentel.

29 GENNAIO
La Repubblica comincia a sostituire la legislazione borbonica.

8 FEBBRAIO
Il cardinal Fabrizio Ruffo sbarca in Calabria e inizia a risalire il Sud, raccogliendo contadini lealisti.

24 APRILE
La Repubblica dichiara decaduta la feudalità.

7 MAGGIO
Le truppe francesi abbandonano la città.

13 GIUGNO
Capitolazione della Repubblica.

29 GIUGNO
Horatio Nelson fa impiccare all'albero maestro di una nave Francesco Caracciolo, capo della piccola marina repubblicana.

8 LUGLIO
Ferdinando IV, rientrato a Napoli, mette a morte 120 patrioti

E' tempo di revisioni. Apprendiamo che Enrico Toti aveva perso una gamba a 26 anni, che aveva voluto ugualmente partecipare alla guerra mondiale, senza essere mai un vero soldato, che non è vero che abbia scagliato la stampella contro il nemico, che morì per una pallottola vagante. Un'altra icona della storia nazionale va in soffitta. Ed è tempo di precisazioni. Perché Garibaldi aveva i capelli lunghi? Perché in Sudamerica, per sopravvivere, aveva messo su una banda di razziatori di cavalli. Catturato, gli avevano mozzato un orecchio, marchio infamante per gli abigeatari del subcontinente. Ed è, infine, tempo di reinterpretazioni, come nel caso della Rivoluzione francese (ma non solo). Nulla che, in realtà, non si sapesse, almeno fra gli studiosi d'alto profilo. Solo che con i tempi che corrono si rilegge la storia ad alta voce, si diffondono informazioni che finora erano circolate quasi esclusivamente fra i club degli specialisti. Perché?
E come mai si è taciuto per un gran numero di decenni?
Prendiamo il caso della Rivoluzione napoletana del '99, passata alla storia come la pagina giacobina italiana per eccellenza. Fu vera gloria? Risponde Ruggero Guarino: ma quale rivoluzione, e quale Repubblica nata dalle lotte dei patrioti napoletani! A Napoli, due secoli fa, non ci fu alcuna rivoluzione. Accadde invece qualcosa di assai meno eroico: l'ascesa al potere di un gruppo di giacobini locali graditi all'invasore francese e protetti dai loro archibugi. Le prove? Non furono i giacobini partenopei a sbaragliare l'esercito borbonico. Ferdinando e Carolina non vennero messi in fuga da costoro, e non furono costoro a conquistare il potere che poi esercitarono: si limitarono a riceverlo dalle mani del giovane generale napoleonico Championnet, il quale, dopo essere entrato a Napoli alla testa delle sue truppe, permise la proclamazione della Repubblica, l'insediamento del governo, lo svolgimento di pubblici festeggiamenti, lo studio di alcune leggi e riforme, e persino l'imposizione di un balzello che gli stessi tassatori, con grazioso stile garantista, dissero concepito per "tassare le opinioni", quelle - naturalmente - degli avversari.
Si trattava di un eletto circolo di intellettuali. Anzi, il fior fiore degli intellettuali, come scrisse Croce, provenienti da parecchie province del Regno. Erano quasi tutti borghesi benestanti, agiati professionisti, virtuosi e colti studiosi anche di fama europea.
Ma del gruppo facevano parte anche aristocratici celebri per i loro leggendari patrimoni, per lo splendore dei loro palazzi, oltre che per le tendenze filo-francesi e il disprezzo per i Borbone, i quali, dopo la decapitazione di Luigi XVI e di Maria Antonietta, il primo cugino di Ferdinando e l'altra sorella di Carolina, avevano preso a detestare quel distinto club di amici dei loro nemici. Né mancavano alcune signore che intendevano spingere il popolo (legatissimo alla monarchia) a decretare la decapitazione del re e della consorte, al modo della giustizia sommaria consumata a Parigi.
I giacobini napoletani sognavano la presa di una loro Bastiglia. La annunciavano con fogli, libri e discorsi, senza mai passare all'azione. Non ci fu una sola sommossa, non si registrò un solo tumulto, non si ebbe neanche un corteo. Forse, realisticamente, ebbero paura dei "lazzaroni", che solo le armi transalpine tennero a bada.
E' nota la successione degli eventi che precedettero il '99. Nel 1798 l'espansione franco-repubblicana nella penisola aveva fatto un nuovo passo avanti con la conquista di Roma, dove il 5 febbraio era stata proclamata la Repubblica. La Corte di Napoli cominciò a tremare. Con i francesi a poche miglia dai confini del nord, tutto poteva essere perduto da un momento all'altro. Ma ad agosto la vittoria degli inglesi ad Abukir, dove durante la spedizione di Napoleone in Egitto la flotta francese era stata distrutta da Nelson, riaccese gli entusiasmi. Riposta ogni speranza di salvezza negli inglesi, i Borbone aderirono all'alleanza con l'Inghilterra, la Russia, l'Austria e la Turchia. Dopo di che, diedero inizio alle ostilità, mettendo in marcia verso Roma un esercito malconcio che il 5 dicembre, a Civita Castellana, era battuto e disperso da Championnet.
A questo punto, tutto precipitò. I francesi mossero verso Napoli e all'inizio del nuovo anno si accamparono alle porte della capitale. I reali ripararono in Sicilia a bordo della nave ammiraglia di Nelson. Nella città abbandonata a se stessa la plebe insorse al grido di "Viva la Santa Fede, viva San Gennaro, morte ai giacobini!", e per ben tre giorni, dal 21 al 23 gennaio, combattendo disperatamente, riuscì a impedire alle truppe francesi di entrare in città. Poi i "lazzaroni" si arresero, e finalmente, entrato Championnet, al riparo della sua armata, cominciò la breve stagione della Repubblica partenopea.
Ma intanto, che cosa avevano fatto i giacobini napoletani? Nulla. Non si erano mossi neanche dopo la disfatta dell'esercito borbonico, né dopo la fuga della famiglia reale. L'unica impresa di quei giorni fu, com'è noto, l'occupazione di Sant'Elmo, il forte militare abbarbicato sul colle più alto della città, del quale si impadronirono solo quando i francesi stavano per entrare in città. Conquistatolo, si misero anch'essi a sparare: non contro le truppe borboniche, che non c'erano più, né contro i francesi invasori, ma contro i pezzenti che stavano opponendo ai francesi una resistenza che lo stesso Championnet onorò, definendola "eroica".
Così andarono le cose, e nessuno si è mai sognato dì negarlo. E tuttavia abbastanza misteriosi restano i motivi per cui da due secoli gli storici, sia "progressisti" che "reazionari", si ostinano a chiamarla "rivoluzione", perpetuando una leggenda priva di fondamento. Sui motivi di questo comportamento, Guarini azzarda un'ipotesi: essa può essere nata solo dal nobile proposito di onorare quegli sventurati patrioti, destinati quasi tutti a morire sul patibolo, con una parola adeguata alla misura del loro martirio. Ma l'atrocità di quell'epilogo non basta a trasformare in un drappello di "rivoluzionari" un gruppo di generosi sognatori che, una volta portati al potere da un esercito straniero, altro non seppero fare che piantare in ogni piazza un Albero della libertà, incaricare alcuni personaggi a indottrinare il popolo, distribuire incarichi ai propri adepti, fingere di condividere il culto di San Gennaro, nel tentativo di rabbonire la plebe. Non per caso un dubbio circa la pertinenza di quel nome, "rivoluzione", fu già sollevato dal primo e più illustre storico dì quegli avvenimenti, l'onesto Vincenzo Cuoco, il quale scrisse e pubblicò a botta calda, nel 1801, quel Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, che resta, nonostante la passione giacobina dell'autore, il testo più illuminante sull'argomento. Parlare di "rivoluzione" sembrò infatti eccessivo anche a lui, sicché fin dall'inizio del libro, per giustifare il titolo, dopo avere introdotto una sottile distinzione fra "rivoluzioni attive" e "rivoluzioni passive", assegnò quella di Napoli alla seconda categoria. Splendido ossimoro, in nome di una rivoluzione mancata.


Stramaledetto Nelson

Aveva 40 anni, una larga cicatrice sul volto. Aveva perso in battaglia un braccio e l'occhio destro. Ma Nelson, di ritorno a Napoli nel 1798, era soprattutto il trionfatore di Abukir, e la bellissima Emma Hamilton fu sua in un sospiro, con consumata arte di seduttrice, sul ponte della nave Vanguard ancorata nel Golfo. La relazione tra l'ammiraglio e la splendida moglie dell'ambasciatore inglese a Napoli divenne presto leggendaria. Alla vigilia del '99, secondo il più convenzionale canovaccio di intrighi di corte, di passione e di sete di potere, fu stretto il patto scellerato tra questa donna fatale e il potente ammiraglio, così devoto alla moglie da scriverle una lettera al giorno. Fu proprio l'affascinante inglese, che era amica e amante della regina Maria Carolina, a manovrare l'ammiraglio e a renderlo il più viscerale nemico dei giacobini. Interpretazione da feuilleton, ma ampiamente accreditata dai cronisti dell'epoca.
Nelson infatti era arrivato a Napoli nel '93 per stringere alleanze antifrancesi con i Borbone. In città trovò l'amore di Emma Lyon, bella da far perdere la testa, come assicura un testimone d'eccezione, Goethe, che a Napoli, nell'87, conobbe l'ambasciatore e la moglie, che abitavano nel sontuoso Palazzo Sessa. L'odio dell'ammiraglio per Francesco Caracciolo risalirebbe, secondo Maria Antonietta Macciocchi, all'umiliazione che la donna subì quando, ad una festa da ballo data in onore dell' "eroe del Nilo", il fiero napoletano non la invitò a ballare. Ma pare vi fosse anche la gelosia di Nelson per la spedizione di Tolone del 1793, che registrò brillanti azioni militari di Caracciolo. Pagina oscura rimane, comunque, quella della condanna capitale dell'ammiraglio napoletano che nel '99 aderì alla rivolta giacobina. Durante la repressione fu sommariamente messo a morte e appeso al pennone della nave Minerva, proprio per determinazione di Nelson, mentre Ferdinando sembra volesse concedergli la grazia. Al momento della resa, i giacobini avevano lasciato i castelli in cui erano arroccati, dietro promessa di salvezza. Ma Nelson non considerò valido il patto firmato da Ruffo. Da Palermo gli giunse l'ordine di trattare Napoli come avrebbe fatto con una città irlandese insorta. L'ammiraglio non si fece pregare e alzò i patiboli in Piazza del Mercato. In compenso, fu nominato duca di Brontë, la città in cui si sarebbe esercitata poi la ferocia di Bixio. E Brontë era già feudo inglese, apparteneva al padre delle scrittrici Charlotte ed Emily, che preferivano il nome patrizio di Brontë a quello del padre.
Nelson, comunque, fu una pedina importante dell'Impero britannico, che era quasi esclusivamente commerciale e marittimo, e che nel Mediterraneo dominava già Malta, sottratta a Napoleone. Mancava la Sicilia, e in Sicilia c'erano le miniere di zolfio, minerale essenziale per le nuove navi a vapore. Di esso i Borbone erano stati praticamente monopolisti, finché non se ne impossessarono gli inglesi (finanziando anche la spedizione dei Mille), che così alimentarono senza spesa le navi di Sua Maestà.
Gli inglesi, appunto: quelli che avevano protetto il Reame contro le mire e le invasioni francesi e che avevano portato in salvo i Reali. Poi voltarono bandiera. Non sappiamo nulla della consistenza del loro intervento finanziario in favore di Garibaldi, perché il cassiere, Ippolito Nievo, finì misteriosamente in mare insieme con tutte le ricevute delle spese. Qualcosa di più possiamo sapere sugli interessi britannici per il "Marsala": furono loro i fondatori dell'industria del vino nell'isola.
Dopo il '48, dunque, Londra diventa antiborbonica, subito emulata dai liberali italiani, che dimenticarono immediatamente l'antica amicizia che aveva legato Inghilterra e Regno. Gabriele Rossetti e Luigi Settembrini insegnino. Strategica, la Sicilia, che non esitano a presidiare anche militarmente, ove se ne presentasse la necessità. Con un'altra componente, politicoreligiosa: l'antipapismo radicale degli anglicani. E' il caso di ricordare che il primo ad entrare dalla breccia di Porta Pia fu un carretto zeppo di Bibbie protestanti, generosamente fornite dalla Società Biblica Londinese. Il carretto era tirato da un cane, chiamato "Pionono". Sommiamo i finanziamenti, l'antiborbonismo per fini imperiali, la Sicilia, le lettere del Gladstone, e capiremo perché oltre Manica si parli ancora oggi del Risorgimento italiano come di "un episodio dell'imperialismo inglese"!


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