In
una nota introduttiva all'ultima ristampa dei Colloqui di Ludwig con
Mussolini, Arnoldo Mondadori accenna agli apporti che i posteri potranno
dare ad approfondimenti effettuati "sine ira et studio".
In questi miei scritti, che riflettono, anzi ripercorrono ricordi giornalistici
di quasi un secolo, ho cercato di attenermi sempre a siffatto vincolo,
tanto più che essi danno conto solo di incontri, spesso marginali
e occasionali, sintesi solo di segni di verità.
Ogni volta, anche allora, mi sono incontrato con "valori",
del resto sempre esistiti (anche se qualcuno ha creduto di enunciarli
solennemente oggi), e sempre annunciati come promessa di nuovo. Un nuovo
sempre estremamente faticoso, talvolta improbabile, e frequentemente
più dietro l'angolo che innanzi a noi. Questo forse può
essere un corso e ricorso della storia da non perdere d'occhio.
Secondo me, un Duemila come imperativo reale può presentarsi
non con la ricerca, ma con la pratica del nuovo. Le scienze lo realizzano,
la politica non vi è ancora riuscita, anche se adusa a far valere
sempre nuovi poteri e anche oneri tanto gravosi da renderli spesso solo
sterili e perciò pure di negativa comunicabilità.
E torniamo al ventennio. Ha avuto, com'è noto, un volto cosiddetto
unitario, ma anche tanti volti avversi al suo, nell'esilio o nell'opposta
militanza, nelle forme e nei tempi variamente esercitabili. E ne aveva
diversi pure nel volto unitario: nell'interpretazione, nell'attuazione,
nello stile, anche se per essi la divisa era la stessa. Di comune per
loro, in quanto ministri, c'era la lettera di dimissioni rilasciata
al capo all'atto dell'assegnazione dell'incarico, perché questi
potesse servirsene in vista di un cambio della guardia dal giudizio
e dalla prassi insindacabili.
Sì, pure di una prassi. L'annunzio veniva dato in questi casi
con l'ultimo notiziario radio della notte, quando l'insonne Capo non
solo dormiva, ma non doveva essere neppure svegliato. Lo era stato nel
primo decennio solo due volte: l'incendio delle poste di San Silvestro
e la morte della regina Margherita.
Una volta le indicazioni di Palazzo Venezia su di un ministro si riferivano
al solo cognome, ma il Parlamento ne indicava due. Si dovette in conseguenza
svegliare Mussolini e questi notevolmente disturbato si limitò
a far indicare dagli altri il prescelto. I bollettini radiofonici di
allora erano più rilevanti e decisivi delle norme e della ortodossia
dei loro percorsi.
Quattro ministri,
protagonisti "in bagnomaria"
Il ventennio ha avuto i suoi quadrunviri, i suoi segretari di partito,
i suoi presidenti dislocati nei vari organismi istituzionali, i suoi
ministri. Ma certamente gran parte di essi, e mi riferisco agli uomini
di vertice, avevano un'identità propria, che rendeva personale
parte almeno della loro esteriorità: di persona, di comportamento,
di fatti la constatava. Anche il Capo però l'interpretava a
modo suo, sbagliando o accorgendosi di sbagliare solo con molto ritardo.
Aveva a che fare con un personale politico che quando era senza incarico
o con incarico non soddisfacente attendeva e sollecitava quello nuovo.
Ce n'è stato uno che, combattente in Africa Orientale e già
con alta destinazione a Roma, ottenne anche la nomina a governatore
di Addis Abeba per 40 giorni.
Limito il mio discorso ai ministri, dai quali avendoli conosciuti
e solo di rado frequentati, perché ho avuto la ventura di essere
più osservatore che "cliente", ho potuto trarre indicazioni
significative sul modo di essere da uomini che non superano le dita
di una mano. Sono esattamente Grandi, Bottai, De Stefani, Federzoni.
E sono i quattro nomi che più degli altri hanno concorso a
determinare il 25 luglio.
Il primo ne è stato il promotore, con il suo ordine del giorno;
il secondo l'eloquente accusatore e sempre ritenutosi responsabile
verso la propria coscienza prima che verso gli altri; il terzo, sempre
indifferente e lieto di potersene liberare a missione compiuta (è
il terzo firmatario dell'ordine del giorno); il quarto, di nome era
fascista ma di spirito era solo nazionalista. Da giornalista ha stenografato
il corso della seduta, l'ultima, del Gran Consiglio e l'ha pubblicato
in un libro per l'Italia di domani.
I miei due primi incontri sono stati soltanto occasionali, ma ne ho
potuto intravvedere o vedere confermato il carattere.
Grandi l'ho incontrato negli anni Settanta ad un convegno da me indetto
alla Fondazione Cini, nell'isola di San Giorgio a Venezia, essendo
segretario generale del Circolo di Studi Diplomatici, che ha raccolto
i più grandi ambasciatori del secolo.
Al convegno intervenne anche Grandi, che sul finire della vita amava
ricordare soprattutto i suoi prestigiosi trascorsi di ambasciatore
per lunghi anni alla Corte di San Giacomo. Era stato l'ultimo ambasciatore
ad indossare i pantaloni a polpe sotto la ornatissima marsina. Era
stato avvocato, tramite fra Perugia, sede del quadrunvirato della
marcia su Roma, e la capitale per mediarne politicamente la soluzione,
ministro degli Esteri, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni,
volontario della guerra contro la Grecia, aspirante mediatore a Lisbona
per l'armistizio e la pace con gli anglosassoni, perché faceva
affidamento sulle sue amicizie di Londra, ansioso di perenni alti
incarichi. In quella sede di Venezia, nella quale gli fui presentato
da Pietro Marchi, egli stringendomi calorosamente la mano disse con
cordialità: "Ah, Pistolese!". Per lui un ambientale
illustrativo, per me il più elementare e rozzo interrogativo,
dato che non ci conoscevamo. Si dice che certe strette di mano sono
rivelatrici e consentano conclusioni di tanti fatti, pure lontani
e che ad un tratto ci si avvede di aver memorizzato. Ho avuto così
innanzi a me, più o meno improvvisamente, un mosaico di Grandi.
Un Grandi che voleva primeggiare tra i suoi pari, con il suo presenzialismo,
anche quando il pari, come nel mio caso, non c'era.
Il secondo personaggio è Bottai, del quale ho detto qualcosa
prima. L'ho conosciuto sulle scale dell'EIAR, presentatogli dal mio
presidente all'Artigianato, ex federale di Torino. Egli nel complimentarsi
per il nuovo incarico dato al mio presidente ebbe a dirgli che più
che l'incarico importava quanto ognuno sapeva riempirlo di contenuti.
Ed aggiunse: "Quando Mussolini mi ha dato l'incarico di ministro
dell'Educazione Nazionale ebbe a precisarmi che si trattava di fare
solo dell'ordinaria amministrazione. lo invece ho dato un'impronta
al ministero dalla quale è derivata la Carta della Scuola".
Va bene che Bottai aveva l'amore delle Carte, perché da lui
è nata la Carta del Lavoro, con la connessa nascita dell'ordinamento
corporativo, ma è chiaro che egli ha fatto sempre coincidere
la sua presenza politica con i fatti, con un attivismo organizzato,
puntualizzato, sostenuto dai fattori d'ordine tecnico indispensabili.
Egli poteva ancora ispirarsi ad un habitat passato, anteriore allo
stesso fascismo. E fra l'altro sapeva che doveva essere sempre pronto
a pagare di persona. Lo ha fatto quando, all'indomani del 25 luglio,
si è iscritto alla Legione Straniera, da semplice soldato.
Egli, che era stato ufficiale degli Arditi della prima guerra mondiale,
volontario delle guerre fasciste, promotore di un novecentismo culturale
non del tutto conforme e così via.
Quando era ministro dell'Educazione Nazionale, volle come sottosegretario
un uomo come lui, Riccardo Del Giudice, che ho avuto come presidente
della Confederazione dei Lavoratori del Commercio, per i tre anni
che io sono stato capo di quell'Ufficio Corporativo. Da quest'uomo
ho appreso anch'io moltissimo. Mi lusingo credere che talune radici
morali, culturali, di insegnamento anche per la politica non ideologizzata
si congiungano e ricompongano tra loro. Mi auguro anche che fruttifichino.
Ed eccomi al carissimo Alberto De Stefani, con il quale mi sono interamente
capito. Lo ammiravo quando io studente della facoltà di giurisprudenza
della Sapienza del 1927 egli era presidente della contigua facoltà
di Scienze Politiche, da poco creata e vicina alle aule che frequentavo.
L'ho ammirato quando ho letto di lui che era felice di chiamarsi con
lo stesso cognome, De Stefani, di un droghiere di piazza Sonnino in
Roma.
Lui si chiamava Alberto, l'altro Felice. Ma Alberto era felice, come
questi, perché proprio da mezz'ora prima non era più
ministro delle Finanze, avendo portato a pareggio il bilancio dello
Stato e potendo così ritornare ai suoi studi, e poco dopo divenire
consulente economico, sul posto, della Cina tutta.
Ma egli è anche l'uomo che ha presagito la prosperità
senza fiscalità, che ha scritto pagine indelebili sulla storia
economica del nostro Paese a rappresentazione dei primi cent'anni
della vita del primo giornale economico di Europa, Il Sole, che ho
diretto, e che è culminato nel '65 con la celebrazione del
centenario.
E vengo a Luigi Federzoni, la cui rilevanza nel fascismo è
dovuta alla sua origine nazionalista: era stato con Emilio Corradini
il fondatore del partito, poi il curatore della sua fusione con il
fascismo, digerita con difficoltà dalla base, ministro dell'Interno
subito dopo il delitto Matteotti, quale garante di una democraticità
che in quell'occasione la dittatura cercava di manifestare, e poi
ritornato a ministro delle Colonie e successivamente a presidente
di importanza più o meno declinante, fino all'ultima dell'Accademia
d'Italia: un'Accademia che realmente non ha mai decollato. Era questo
del resto il destino di varie istituzioni che il fascismo creava in
funzione di un'attualità immaginata in funzione di un nuovo
con cui si doveva realizzare la cosiddetta rivoluzione continua.
L'origine giornalistica di Mussolini riproponeva nella vita politica
immagine ed esigenze di un quotidiano, con la sua rinnovatasi giorno
per giorno successione dei fatti. Così istituti fondamentali
come le corporazioni ad un certo punto sono entrati in ombra, così
come sono succeduti e si sono alternati comitati per l'autarchia,
per i prezzi, per l'economia di guerra, per questa o quella battaglia
(una per il grano, ad esempio) o addirittura contro le mosche (di
queste si disse che la vinsero): tutti comitati e corporazioni più
o meno presieduti da Mussolini. Egli pretendeva soprattutto cifre,
che emblematizzava, credendo in esse o non credendovi affatto. Nacquero
così gli 8 milioni di baionette, che anche se fossero esistite
non sarebbero servite a niente.
Venivano inaugurati acquedotti, frutto di progetti esattamente quantificabili,
mancanti di acqua, fornita invece dai Vigili del fuoco con le loro
pompe in azione trasferite sul luogo nella giornata dell'inaugurazione.
L'inaugurazione di nuove strade della capitale, sempre accoppiate
a progetti, spesso comportava l'asportazione dei sanpietrini da una
strada contigua, ecc.
Le cifre invece erano tassative e reali principalmente se non unicamente
solo sugli orari ferroviari. Erano però richieste perentoriamente
da Mussolini, anche nei dettagli minori in tutte le riunioni. Così
che qualche dossier ha fatto la fortuna di certe carriere proiettate
ai vertici. Un presidente della Confindustria fascista, l'ultimo,
ne ha fatta la sua fortuna e anche la sua sfortuna, perché
- contumace però - fu condannato a morte al processo di Verona.
Ma ritorniamo a Federzoni: l'ho conosciuto e frequentato quando da
matricola alla Sapienza di Roma avevo promosso e diretto il primo
gruppo coloniale universitario, il primo in Italia. Per tutte le iniziative,
oltre che al mio rettore, il prof. Giorgio Del Vecchio, mi rivolgevo
a lui e si compiaceva di aiutarmi e di farmi aiutare. Aveva trovato
in me, come mi diceva talvolta, il suo "acino di pepe".
Il "largo ai giovani" di allora per lui e per me serviva
a qualcosa.
Dall'altro fondatore del nazionalismo, Enrico Corradini, che qualche
anno prima di morire era stato ibernato a Il Giornale d'Italia quale
presidente privo di ogni potere, assorbito e svolto da un amministratore
delegato esclusivista, mi venne una frase non compensativa della sua
impossibilità di fare qualcosa per me, facendomi entrare nel
giornale. Nientemeno sul finire dell'elusivo discorso quello che era
stato definito "profeta della patria" ebbe a dirmi: "Lei
farà carriera".
Una frase che allora non ridusse la mia delusione, e che poi la realtà
della mia esistenza ha certamente smentito. D'altronde, in tutte le
esistenze illusioni e delusioni si alternano ed è bene, se
ce ne accorgiamo.
Dai ministri
sempre con l'incognita del cambio della guardia
Fra gli altri ministri del ventennio da me conosciuti, fermo restando
il fatto che tutti hanno avuto a che fare con la mia cosiddetta carriera
giornalistica iniziata nel '29 con la vincita di un concorso giornalistico
coloniale della Fiera di Tripoli (700 lire) e formalizzata con la
mia iscrizione alla Stampa Romana il 17 dicembre 1930 (perciò
uno dei decani della stampa italiana), devo ricordare quelli che avevano
a che fare con le mie iniziative universitarie coloniali, quelli che
ho incontrato per il mio lavoro prima alla Confederazione dei Lavoratori
del Commercio e poi alla Confindustria (alla quale aderiva la Federazione
Artigiani, di cui ero capo dell'ufficio stampa e studi), quelli che
avevano funzioni direttive di periodici, di cui ero collaboratore.
E così ho conosciuto il quadrunviro Emilio De Bono, da poco
rientrato dalla Tripolitania, dove era stato inviato a seguito del
delitto Matteotti, essendo a quel momento al Viminale direttore generale
della Pubblica Sicurezza (così allora compensava nel suo governo
i cosiddetti capi della marcia su Roma). De Bono volle conoscere me
e tre altri miei colleghi, fra cui Vittorio Gorresio, che con me ha
iniziato la sua attività da colonialista aderente al mio gruppo
per sapere qualche cosa su quattro nostri articoli comparsi lo stesso
giorno su quattro diversi quotidiani di critica all'Istituto Coloniale
Fascista.
Chi aveva osato tanto da provocare le ire del presidente dell'istituto,
senatore, conte, milanese di vecchio stampo e presidente pure di quell'Umanitaria
che aveva per conto proprio organizzato un suo welfare ambrosiano?
Le nostre critiche partivano dall'accenno di Mussolini alle zone di
ombra che esistevano con quelle di luce dal suo esame del bilancio
dell'Istituto. Noi naturalmente documentammo le zone d'ombra, fra
cui era compresa la pretesa dell'Istituto di assumere la proprietà
di un giornale che stava per nascere dal titolo L'Azione Coloniale,
avendo come editore il padre di un aderente al gruppo universitario
coloniale, che proprio in quelle settimane aveva definito con il Monte
dei Paschi di Siena per otto milioni (di allora) una sua annosa vertenza
concernente una buona parte del vecchio Monte Mario di Roma. Il giornale
fu fatto, rimase privato, dette occasione all'esacerbato senatore
di fare ricorso all'Alta Corte di disciplina del partito, che ci inflisse
una deplorazione solenne, che non ebbe seguito pubblico e pratico,
perché eravamo solo giovani. Ma il partito a quei tempi non
aveva ancora il rigore staraciano. Poteva anche inviarci lettere firmate
dal vice segretario generale "Melchiori, segretario Augusto Turati"
nelle quali ci si scriveva: "Cari amici, non mettete il partito
di fronte al fatto compiuto". Fatto compiuto, nientemeno contro
il partito che aveva fatto la rivoluzione del secolo! Quante cose
strane dice il tempo, soprattutto sulle testimonianze personali e
umane che hanno un secolo su cui meditare e riferire. Dalle piccole
vicende si risale alle grandi e viceversa. Ma quanta storia è
fatta, può essere fatta, con bugie e verità che si alternano
cercando di trarne la verità. Che possono fare pertanto, che
fanno i posteri quando danno l'ardua sentenza?
E così torniamo all'uomo, che quando pensa a queste cose, ha
sempre un grande tema da svolgere per conto suo, quello di cui veniamo
parlando, quando esistono le tante storie universali da quando esiste
il mondo e oltre esisterà.
Anche De Bono avrà pensato a queste cose non allora, ma nelle
carceri di Verona, quando era all'immediata vigilia dell'esecuzione
mediante fucilazione decisa ed emessa dalla corte di Verona. Egli
esortava allora i suoi compagni di cella a perdonare.
Ma durante la nostra visita di tanti decenni prima era innanzi a noi
il generale in divisa coloniale, con una camicia di seta gialla, che
a noi pretenziosi e attenti al nostro abbigliamento faceva più
impressione della sua candida barba bianca. Egli era curioso solo
delle cose minori, di quelle che a noi non importava nulla. Ad esempio,
del comportamento delle dattilografe, nel caso neppure avvenenti,
eppure con noi egli si riferiva ad esse con un linguaggio che normalmente
si definiva da caserma. Ed invece si trattava di un generale e ministro,
che suscita in chi scrive solo il ricordo di una camicia e di un linguaggio
fuori ordinanza: diciamo così. Ma solo tanto tempo dopo c'è
questo riscatto di Verona. Devo ricordare che gli addendi in più
o in meno in un'esistenza sono tanti, ma la contabilità si
chiude solo alla fine. Fra questi addendi per la persona di cui veniamo
parlando ce n'è da aggiungere un altro, di qualche anno più
tardi. Dovevo commentare dalla tribuna stampa di Montecitorio per
un quotidiano il suo discorso di bilancio, ma nel ricordarlo, mi risuona
una sua frase: "Non è la prima volta che come ministro
ho sbagliato e certamente non sarà l'ultima".
La sincerità in politica. E' possibile, è reale, è
funzionale, è un alibi? E gli interrogativi possono durare
a lungo, perché in politica è impossibile ogni radiografia
e gli stessi sondaggi, tirature di copie, Auditel sono soltanto beni
strumentali, con istruzioni per l'uso o inesistenti o personalizzate
a proprio modo di intendere.
La sincerità l'ho potuta verificare in politica una sola volta,
ma ero un bambino che ascoltava nel suo paese natale del Sud un comiziante
costretto a salire su di un tavolino per esprimere il consenso della
classe lavoratrice al candidato, che nel caso era il mio concittadino
Francesco Saverio Nitti, a Melfi. Per prendere coraggio il comiziante
si era ubriacato, ma fu onestamente laconico. Poche parole: "Le
forze mi vengono meno. Mi manca l'intelligenza".
Di discorsi del genere, di riconoscimenti elettorali di questo genere
non ho mai più sentito parlare nell'intera mia vita. Perché
in tutti la presunzione di intelligenza - figuriamoci nei politici
- è nostro bene primario. E' un DNA che ci siamo applicati
addosso.
Ministri rigorosi
negli adempimenti formali, ma dal rinvio incorporato
Ma ecco altri ministri che con i miei amici dovemmo incontrare per
metterli al corrente delle nostre iniziative per l'affermazione del
nostro gruppo universitario coloniale. Incontrammo tra i primi il
ministro Giuseppe Belluzzo, che è stato al governo per ben
quattro anni: fatto insolito a quei tempi. Era negli anni fra il '25
e il '28 ministro dell'Economia, perché allora in lunga preparazione
era quello delle Corporazioni, che doveva essere instaurato in via
Veneto, in quella che ora è la sede del ministero dell'Industria,
del Commercio e dell'Artigianato, e per quest'ultimo termine intervenuto
qualche anno dopo della costituzione della Repubblica sono stato con
l'esponente della maggiore organizzazione artigiana quale suo consulente
un promotore. Ne interessammo un sottosegretario del tempo, Sullo,
largamente ignaro di queste cose, perché la tematica delle
piccole imprese era ancora politicamente debole.
Belluzzo, ingegnere, comprese i nostri problemi, ci piacque per la
sua concretezza, si riservò di farci sapere il suo pensiero
operativo, ma con lo sguardo al suo bilancio e alle conclusioni sempre
recalcitranti della burocrazia. Non ritenemmo di rivederlo quando
nel 1928-'29 fu assegnato al ministero della Pubblica Istruzione (essendo,
come detto, nel 1928-'29 la fantasia anche terminologica non era ancora
imperialistica), perché avevamo compreso che anche da quella
sede sarebbe derivato un nuovo nulla di fatto. Sull'ingegnere Belluzzo,
mio condomino in un palazzo in via Archimede, 148 per appartamenti
acquistati nello stesso periodo, il mio sovrastante al suo, c'è
qualche ricordo personale da aggiungere. Premesso che il palazzo dovuto
all'architetto Pizzinato è tra i più rappresentativi
dell'edilizia dello stesso, che è stata caratterizzante per
tutta la città in alternativa all'edilizia littoria, che ha
avuto numerosi esponenti noti e ignoti (oggi la scala da lui ideata
per questo immobile è meta delle visite degli studenti d'architettura),
si sa che esso ha accolto da clandestino, ospite del suo ufficiale
d'ordinanza, il generale Raffaele Cadorna, discendente dei Cadorna
che hanno suggellato tempi diversi e lontani della storia militare
italiana, quando fu nominato comandante generale del Corpo Volontario
della Libertà (1944) e in attesa di essere catapultato nel
Nord con il compito di garantire l'equilibrio tra le varie componenti
della Resistenza e l'adeguamento della lotta partigiana alla strategia
degli Alleati. Nel dopoguerra fu nominato Capo di Stato maggiore dell'Esercito.
Il condominio restò muto di fronte a siffatta clandestinità,
che mi sembra durò una quindicina di giorni, avendo un portiere
che sorvegliava, ma taceva.
Ma da questo condominio qualche altra cosa significativa è
nata dopo il 25 luglio, la prima notizia anche di stampa per la Svizzera,
e cioè la sintetica cronaca di quanto era avvenuto al Gran
Consiglio del 25 luglio. Le veline che furono messe in circolazione
in Italia riproducevano un servizio del corrispondente dell'Agenzia
Telegrafica svizzera, Scanziani, che incontravo nel condominio, e
con il quale ci scambiavamo le notizie che lui raccoglieva nell'ambito
dell'Associazione della Stampa Estera, di cui era presidente, ed io
avevo ricevuto da uno dei presenti al Gran Consiglio, Luciano Gottardi,
presidente della Confederazione dei Lavoratori dell'Industria e che
io avevo conosciuto alla Confederazione dei Lavoratori del Commercio,
quando egli rappresentava i dipendenti del commercio agricolo e io
dirigevo l'ufficio corporativo. Ne era derivata una collaborazione
e anche confidenziale amicizia. Egli è stato tra i cinque condannati
a morte a Verona, con Ciano, De Bono, Pareschi, Marinelli.
Ma sempre da questo condominio qualche altro ricordo devo trarre.
Il 27 luglio del '43 fui convocato dal commissariato di Pubblica Sicurezza
del quartiere, che allora era in via Flaminia. Tanti erano gli interrogativi,
anche angosciosi, che una tale convocazione in quei giorni poteva
comportare. Ed invece la tardiva ossequiosità per un ministro
che aveva protestato per la pipì di un mio carissimo schnauzer
aveva determinato un ufficiale richiamo, che invece più semplicemente
mi poteva essere fatto. Ultimo ricordo sempre riguardante Belluzzo
è la sua malinconica custodia in casa da parte di due ufficiali
americani, che lo circondavano anche quando si affacciava sul terrazzo
perché stavano inquisendo su suoi presunti studi e invenzioni
di carattere bellico. Egli invece, nel 1905, aveva solo costruito
in Italia la prima turbina a vapore.
E sempre di quei tempi, anteriori però di almeno tre lustri,
devo ricordare l'incontro con il ministro dell'Istruzione, Pietro
Fedele, del quale il tratto essenziale visivo era quello di indossare
una redingote, e non un tight come allora usavano i ministri, e di
completare il tutto con un vistoso paio di scarpe gialle. Era meridionale
ed evidentemente intendeva l'autonomia del Mezzogiorno a modo suo.
Conclusione per noi, zero più zero.
Ho conosciuto invece Giovanni Gentile, quando non era più ministro
dell'Istruzione, quando non faceva più paura con la sua riforma
(incubo della mia vita per l'esame di maturità su di un intero
triennio: preannunciatomi da chi prima l'aveva tentato come cosa terribile),
quando sorrideva, e io così non lo avevo immaginato. Doveva
solo appoggiarci, perché così mi suggeriva suo figlio
fiduciario dei miei gruppi coloniali al liceo Tasso, presso lo scrittore
Guelfo Civinini, poi console generale a Porto Said per una conferenza
da tenere nel corso di una settimana coloniale da me curata. Gentile
ha avuto il destino fatale che ha avuto: con un discorso sul Campidoglio
di invito alla suprema difesa della patria con l'alleato germanico
e con la sua uccisione a Firenze da parte di un partigiano perché
era divenuto presidente di un'Accademia d'Italia ricostituita per
la Repubblica di Salò. Di Gentile ricordo perciò l'incubo
che mi suscitava e mi risuscita la sua riforma, nell'applicazione
che ho dovuto affrontare, dovendo tuttavia riaffermare che la sua
riforma continua ad essere l'unica riforma valida intervenuta fin
qui per la scuola e ricordare il suo per me insospettato sorriso.
L'uomo era sempre lo stesso. Non altrettanto sono stato, forse dovevo
essere, io.
Un ministro delle Corporazioni, Ferruccio Lantini, l'ho conosciuto
quando era presidente dell'ICE, allorché nel '32 ebbi occasione
di presentargli uno dei primi numeri di un'agenzia giornalistica collegata
con la Rassegna Italiana e che si denominava L'Espansione Economica.
Mi promise un appoggio che non ci fu, forse perché aveva detto
che quei bollettini sì gli piacevano, ma non faceva per essi
"gli occhi di triglia". Questo richiamo al pesce aveva evidentemente
a che fare con la sua origine genovese. Lantini da ministro delle
Corporazioni fu invece investito nella sua competenza di mio presidente
della Confederazione dei Lavoratori del Commercio, per la protesta
che aveva suscitato in me la pretesa della presidenza della Corporazione
delle Professioni e delle Arti (io per delega vi rappresentavo i dipendenti
degli studi professionali, prevalentemente le dattilografe) di discutere
fra le varie il nuovo contratto, senza che l'ordine del giorno lo
annunciasse e senza che le istruzioni relative mi fossero state impartite.
Ne chiesi inutilmente e ripetutamente il rinvio, fui insolentito dal
presidente dei Professionisti, Alessandro Pavolini, poi ministro della
Cultura Popolare, segretario del partito repubblicano, a Salò,
l'uomo dell'ultima raffica. Ma ottenni il rinvio solo quando dissi
che sarebbe stata la prima volta che si sarebbe spezzata l'unanimità
delle decisioni corporative, perché io nel caso avrei votato
contro. Del Giudice e altri sodalizzarono con me, fui anzi nominato
poco dopo membro aggregato della Corporazione del Legno, ma a Pavolini
e a me resta la soddisfazione di essere stato chiamato ufficialmente
"ragazzaccio": però avevo 37 anni.
Altro ministro che ho frequentato è stato Edmondo Rossoni,
fondatore del sindacalismo fascista, direttore di una rivista, La
Stirpe, alla quale collaboravo e che aveva come redattore capo Alfredo
Signoretti, poi direttore de La Stampa e alla ripresa postfascista
e repubblicana direttore effettivo, ma non ufficiale di una rivista
che si denominava Libera Iniziativa. Rossoni mi disse che la rivoluzione
si faceva all'agricoltura e nell'agricoltura, o non si sarebbe fatta
mai. La rivoluzione continua cercava, come si vede, i suoi spazi e
ogni ministro riteneva che quello buono fosse il suo. E' stato insomma
un grosso tiro alla fune, perché la rivoluzione continua, con
tre guerre di mezzo, è stata sempre economia di guerra, con
le super drammatiche caratteristiche che si conoscono. Quanto a Signoretti,
mi piace ricordare che amava prepotentemente il sole, con il quale
cercava a denti stretti di conciliare il suo calendario di lavoro.
Amare tanto il sole da farsi ricordare così dagli altri.
Con un ultimo ministro, quello degli Scambi e Valute, Raffaello Riccardi,
del quale curavo una rivista, L'Economia Fascista, che l'interessava
più per fini pubblicitari che non per contenuti, ho avuto una
certa dimestichezza. Preparavo la sua rivista in collaborazione con
Santi Savarino, poi direttore de Il Giornale d'Italia e senatore democristiano.
Avevo visto uscire questo ministro non conoscendolo di persona dal
salone del Mappamondo con uno sguardo infuriato e un berretto calato
rabbiosamente in testa perché aveva certamente avuto un colloquio
tempestoso con Mussolini. Lo incontrai frequentemente dopo, con Roma
occupata dai tedeschi. Mi parlava ridicolizzando le presunte capacità
militari di Mussolini che con atlanti sul leggio imponente indicava
come le molte truppe discendendo dalle alture in Albania potessero
discendere facilmente a valle. Era un "gioco da ragazzi".
Ho avuto successive frequentazioni con vari dei personaggi ricordati.
Fra gli altri, particolarmente, con De Stefani e l'ambasciatore Bova
Scoppa che a Mussolini che lo voleva ministro degli Esteri a Salò
oppose al telefono un "Qui non si sente niente".
Tutti di Mussolini riconoscevano questa o quella capacità definita,
ma ne escludevano la complessiva. Non riconoscevano di aver sempre
sollecitato una continuità ad un miglioramento degli incarichi.
Dicevano di essersi trovati ad obbedire e disobbedire contemporaneamente.
Del credere, obbedire, combattere restavano gli errori, riconosciuti
spesso, da attribuire possibilmente agli altri. Il tutto prima del
tramonto, di cui alla testata da lettera usata da Alberto De Stefani,
di cui abbiamo parlato in altra occasione, per ognuno dei signori
ricordati, tutti attivisti di primo piano ai loro tempi, ha avuto
tanti significati e si deve concludere sostanzialmente non si sono
identificati completamente e continuamente né in un uomo, né
nella stessa ideologia.
E' del resto la politica stessa che è fatta così. E'
l'uomo stesso che per natura è avverso alle dittature e cerca
al meglio la sua democrazia. Nel nuovo naturalmente, che si spera,
come sempre, imminente. Talvolta il nuovo lo avvertiamo nelle cifre,
ma frequentemente -come ad esempio per il PIL, e lo sottolineamo da
tempo - sono un'opinione. Opinione e politica: quanti vuoti da colmare!
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