Da immigrati a cittadini




Mario Deaglio



Sono oltre 300 mila le domande di regolarizzazione presentate da persone immigrate alle questure italiane. Data la mole dei documenti, è probabile che i controlli si fermeranno agli aspetti formali e superficiali, come spesso accade nelle regolarizzazioni di massa. E' fuor di dubbio che quest'ultima sanatoria non chiuderà il problema, ma avrà almeno contribuito a mettere in luce le caratteristiche di intensità e importanza del fenomeno immigratorio, che a questo punto dovrebbe meritare qualcosa di più e di migliore della semplice "gestione dell'emergenza".
Gli stranieri la cui presenza è ufficialmente registrata in Italia arriveranno, dopo la "sanatoria Jervolino", alla cifra di un milione e mezzo. Non si tratta ancora di numeri importanti, in percentuale della popolazione residente, essendo la media italiana (2,5 per cento) soltanto pari a metà di quella dell'Unione europea (5 per cento). E' pur vero che a questi numeri si dovrebbero sommare gli irregolari, che hanno scelto di restare comunque privi di una legittimazione formale della loro presenza, ma il fenomeno di questa seconda categoria di immigrati, spesso attiva nei circuiti dell'economia illegale, dovrebbe essere trattato separatamente, e riguardare più la politica della sicurezza interna che la regolamentazione e l'integrazione degli accessi.
Il legislatore ha incominciato ad occuparsi di questi fenomeni quando hanno assunto dimensioni quantitativamente significative, vale a dire dai primi anni Ottanta. Il primo tentativo fu quello della cosiddetta legge Martelli, cui vennero nel seguito apportate numerose modifiche. Infine, una nuova legge, un vero e proprio Testo Unico, venne varato dal Parlamento nel marzo l998. L'ambizione del Testo Unico era di uscire una volta per tutte dall'emergenza e di avviare una politica di regolazione e di integrazione dell'immigrazione, ma la sanatoria dimostra che l'obiettivo era stato mancato. C'è da chiedersi che cosa non funzioni, a ben considerare i dati della nostra politica per gli immigrati: e non è difficile trovare le risposte.

Che devono fare l'Italia e l'Ue
Il primo difetto della politica immigratoria è la confusione fra il controllo, l'identificazione, la punizione delle violazioni alle leggi sull'ingresso nel Paese e la politica di regolazione generale dei flussi migratori.
Ogni qualvolta si ha a che fare con fenomeni del primo tipo, ci si aspetta che il legislatore rimedi legiferando sui flussi. Il fenomeno dell'immigrazione clandestina non ha nulla a che vedere con i flussi regolari, e deve essere contrastato con misure appropriate. Poiché pare ormai evidente che, una volta che gli stranieri siano entrati, molte forze spingono all'interno del nostro stesso Paese verso la concessione delle sanatorie, occorre rendere più difficile e soprattutto meno conveniente partire dai Paesi rivieraschi per violare le nostre frontiere.
Per ottenere questo risultato è fondamentale avvalersi della collaborazione dei governi dei Paesi rivieraschi. Questi ultimi, pur agitando l'emigrazione di massa come una minaccia nei confronti dell'Europa per ottenere finanziamenti e concessioni, sanno bene che l'emigrazione rappresenta un dramma nazionale per le loro stesse economie: ad andarsene sono normalmente le persone con maggiori capacità produttive e con maggiore spirito d'iniziativa, il che riduce le possibilità di crescita endogena delle economie emergenti di provenienza. Per il momento, la nostra politica immigratoria utilizza lo strumento dell'accordo bilaterale tra il nostro e ciascuno dei Paesi originanti i flussi, ma l'efficacia di questi accordi è stata limitata.
Sarebbe piuttosto preferibile procedere a una celere comunitarizzazione della materia, o, in altri termini, inserire il tema della prevenzione dell'immigrazione clandestina tra quelli della nascente PESC (Politica estera e di sicurezza comune) e della politica di cooperazione euro-mediterranea.
Tra il 1995 e il 1999 il montante annuo assegnato dall'Unione alla cooperazione finanziaria con i Paesi mediterranei è di 937 milioni di euro (appena un quarantesimo del montante assegnato alla politica agricola comunitaria, che riguarda il 2 per cento degli occupati dell'Unione).I fondi euro-mediterranei, per di più, si distribuiscono su una regione di circa 220 milioni di abitanti, che diverranno 300 milioni entro il 2010, con un reddito pro-capite medio inferiore ai duemila euro.
L'impatto netto degli aiuti è di circa 800 mila lire per abitante all'anno, insufficienti per allacciare qualsiasi collaborazione strutturata con questi Paesi. Sarebbe bene che l'Unione si convincesse che diventare un attore politico internazionale richiede di impegnare il bilancio per finalità e in materie più serie della pura protezione degli interessi di questa o di quella categoria di produttori interni. Il bilancio dell'Unione dovrebbe permettere al nuovo soggetto politico, appena nato, di presentarsi da protagonista sulla scena internazionale, altrimenti continueremo soltanto a subire gli eventi che ci capitano a poche centinaia di chilometri dai confini, siano essi guerre o guerriglie o migrazioni. Su temi come questo dovremmo riflettere propositivamente, ma sembra legittimo dubitare che ciò accada nello spazio di un mattino.
Il secondo aspetto sul quale la politica immigratoria italiana risulta criticabile è la determinazione dei flussi ammissibili di immigrati regolari.
E' indubbio che, sotto il profilo demografico ed economico, per un Paese al di sotto del tasso di ricambio della sua popolazione, l'immigrazione possa costituire una risorsa. Ma non certo a qualsiasi condizione. E le condizioni alle quali i flussi diventano più facilmente risorse preziose non sono (solo) quantitative, bensì (soprattutto) qualitative. Il legislatore, invece, ha assunto un indirizzo esattamente opposto. Nessuna sostanziale indicazione di selettività dei flussi (per età, titolo di studio, professione), e una bizantina, lunga, contorta procedura per arrivare a limitazioni puramente quantitative. Le quali ultime, peraltro, non servono del tutto, come dimostra la sanatoria Jervolino.
Insomma, non si è accettato quel che c'è di prezioso nelle legislazioni dei Paesi più attrattivi (Stati Uniti, Canada), ossia l'indicazione che poiché l'accoglienza anno per anno non può che essere limitata, tanto vale scegliere i soggetti da integrare. Anche perché ogni immigrato che entra nel circuito economico nazionale ha bisogno, nei primi anni, di essere seguito con investimenti sociali, che è un peccato effettuare nel solo settore delle cure di emergenza, lasciando così poco spazio alle politiche di integrazione attraverso l'abitazione e gli altri diritti di cittadinanza.
Solo in quest'ultimo modo i progetti individuali di immigrazione finiscono col produrre nuovi cittadini, e questo dovrebbe essere il vero obiettivo politico di lungo periodo, non certo quello di limitarsi a infinite e costosissime procedure di rimpatrio, né a erogare (quand'anche utile) pura spesa di solidarietà.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000