Sono
oltre 300 mila le domande di regolarizzazione presentate da persone
immigrate alle questure italiane. Data la mole dei documenti, è
probabile che i controlli si fermeranno agli aspetti formali e superficiali,
come spesso accade nelle regolarizzazioni di massa. E' fuor di dubbio
che quest'ultima sanatoria non chiuderà il problema, ma avrà
almeno contribuito a mettere in luce le caratteristiche di intensità
e importanza del fenomeno immigratorio, che a questo punto dovrebbe
meritare qualcosa di più e di migliore della semplice "gestione
dell'emergenza".
Gli stranieri la cui presenza è ufficialmente registrata in Italia
arriveranno, dopo la "sanatoria Jervolino", alla cifra di
un milione e mezzo. Non si tratta ancora di numeri importanti, in percentuale
della popolazione residente, essendo la media italiana (2,5 per cento)
soltanto pari a metà di quella dell'Unione europea (5 per cento).
E' pur vero che a questi numeri si dovrebbero sommare gli irregolari,
che hanno scelto di restare comunque privi di una legittimazione formale
della loro presenza, ma il fenomeno di questa seconda categoria di immigrati,
spesso attiva nei circuiti dell'economia illegale, dovrebbe essere trattato
separatamente, e riguardare più la politica della sicurezza interna
che la regolamentazione e l'integrazione degli accessi.
Il legislatore ha incominciato ad occuparsi di questi fenomeni quando
hanno assunto dimensioni quantitativamente significative, vale a dire
dai primi anni Ottanta. Il primo tentativo fu quello della cosiddetta
legge Martelli, cui vennero nel seguito apportate numerose modifiche.
Infine, una nuova legge, un vero e proprio Testo Unico, venne varato
dal Parlamento nel marzo l998. L'ambizione del Testo Unico era di uscire
una volta per tutte dall'emergenza e di avviare una politica di regolazione
e di integrazione dell'immigrazione, ma la sanatoria dimostra che l'obiettivo
era stato mancato. C'è da chiedersi che cosa non funzioni, a
ben considerare i dati della nostra politica per gli immigrati: e non
è difficile trovare le risposte.
Che devono
fare l'Italia e l'Ue
Il primo difetto della politica immigratoria è la confusione
fra il controllo, l'identificazione, la punizione delle violazioni
alle leggi sull'ingresso nel Paese e la politica di regolazione generale
dei flussi migratori.
Ogni qualvolta si ha a che fare con fenomeni del primo tipo, ci si
aspetta che il legislatore rimedi legiferando sui flussi. Il fenomeno
dell'immigrazione clandestina non ha nulla a che vedere con i flussi
regolari, e deve essere contrastato con misure appropriate. Poiché
pare ormai evidente che, una volta che gli stranieri siano entrati,
molte forze spingono all'interno del nostro stesso Paese verso la
concessione delle sanatorie, occorre rendere più difficile
e soprattutto meno conveniente partire dai Paesi rivieraschi per violare
le nostre frontiere.
Per ottenere questo risultato è fondamentale avvalersi della
collaborazione dei governi dei Paesi rivieraschi. Questi ultimi, pur
agitando l'emigrazione di massa come una minaccia nei confronti dell'Europa
per ottenere finanziamenti e concessioni, sanno bene che l'emigrazione
rappresenta un dramma nazionale per le loro stesse economie: ad andarsene
sono normalmente le persone con maggiori capacità produttive
e con maggiore spirito d'iniziativa, il che riduce le possibilità
di crescita endogena delle economie emergenti di provenienza. Per
il momento, la nostra politica immigratoria utilizza lo strumento
dell'accordo bilaterale tra il nostro e ciascuno dei Paesi originanti
i flussi, ma l'efficacia di questi accordi è stata limitata.
Sarebbe piuttosto preferibile procedere a una celere comunitarizzazione
della materia, o, in altri termini, inserire il tema della prevenzione
dell'immigrazione clandestina tra quelli della nascente PESC (Politica
estera e di sicurezza comune) e della politica di cooperazione euro-mediterranea.
Tra il 1995 e il 1999 il montante annuo assegnato dall'Unione alla
cooperazione finanziaria con i Paesi mediterranei è di 937
milioni di euro (appena un quarantesimo del montante assegnato alla
politica agricola comunitaria, che riguarda il 2 per cento degli occupati
dell'Unione).I fondi euro-mediterranei, per di più, si distribuiscono
su una regione di circa 220 milioni di abitanti, che diverranno 300
milioni entro il 2010, con un reddito pro-capite medio inferiore ai
duemila euro.
L'impatto netto degli aiuti è di circa 800 mila lire per abitante
all'anno, insufficienti per allacciare qualsiasi collaborazione strutturata
con questi Paesi. Sarebbe bene che l'Unione si convincesse che diventare
un attore politico internazionale richiede di impegnare il bilancio
per finalità e in materie più serie della pura protezione
degli interessi di questa o di quella categoria di produttori interni.
Il bilancio dell'Unione dovrebbe permettere al nuovo soggetto politico,
appena nato, di presentarsi da protagonista sulla scena internazionale,
altrimenti continueremo soltanto a subire gli eventi che ci capitano
a poche centinaia di chilometri dai confini, siano essi guerre o guerriglie
o migrazioni. Su temi come questo dovremmo riflettere propositivamente,
ma sembra legittimo dubitare che ciò accada nello spazio di
un mattino.
Il secondo aspetto sul quale la politica immigratoria italiana risulta
criticabile è la determinazione dei flussi ammissibili di immigrati
regolari.
E' indubbio che, sotto il profilo demografico ed economico, per un
Paese al di sotto del tasso di ricambio della sua popolazione, l'immigrazione
possa costituire una risorsa. Ma non certo a qualsiasi condizione.
E le condizioni alle quali i flussi diventano più facilmente
risorse preziose non sono (solo) quantitative, bensì (soprattutto)
qualitative. Il legislatore, invece, ha assunto un indirizzo esattamente
opposto. Nessuna sostanziale indicazione di selettività dei
flussi (per età, titolo di studio, professione), e una bizantina,
lunga, contorta procedura per arrivare a limitazioni puramente quantitative.
Le quali ultime, peraltro, non servono del tutto, come dimostra la
sanatoria Jervolino.
Insomma, non si è accettato quel che c'è di prezioso
nelle legislazioni dei Paesi più attrattivi (Stati Uniti, Canada),
ossia l'indicazione che poiché l'accoglienza anno per anno
non può che essere limitata, tanto vale scegliere i soggetti
da integrare. Anche perché ogni immigrato che entra nel circuito
economico nazionale ha bisogno, nei primi anni, di essere seguito
con investimenti sociali, che è un peccato effettuare nel solo
settore delle cure di emergenza, lasciando così poco spazio
alle politiche di integrazione attraverso l'abitazione e gli altri
diritti di cittadinanza.
Solo in quest'ultimo modo i progetti individuali di immigrazione finiscono
col produrre nuovi cittadini, e questo dovrebbe essere il vero obiettivo
politico di lungo periodo, non certo quello di limitarsi a infinite
e costosissime procedure di rimpatrio, né a erogare (quand'anche
utile) pura spesa di solidarietà.
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