Vietato lavorare




Innocenzo Cipolletta



Per creare il lavoro che manca in Italia occorre liberare il lavoro, e la libertà che serve non è tanto la libertà di licenziare, quanto quella di assumere. Può sembrare paradossale, ma nel nostro Paese, con un tasso di disoccupazione dichiarato essere al 12 per cento delle forze di lavoro, è spesso vietato assumere. Le condizioni legali per assumere nel nostro Paese sono state limitate per legge, con il risultato che si assume poco, si tentano vie strane per eludere le tante condizioni proibitive, si determina un vasto mercato sommerso.
Alcuni esempi sono sotto gli occhi di tutti. Il governo ha legalizzato circa 250 mila lavoratori immigrati clandestinamente. La legalizzazione è avvenuta sulla base di una dichiarazione di possesso di lavoro da legalizzare in tempi brevi: si tratta di 250 mila lavori creati negli anni passati al di fuori delle regole esistenti e che, con regole meno stringenti, avrebbero potuto essere regolarizzati prima, con un vantaggio per tutti, a cominciare dagli immigrati che non sarebbero più stati nelle condizioni di clandestinità.
Il lavoro a tempo determinato in Italia è ammesso soltanto come deroga al lavoro a tempo indeterminato. Esso deve rispettare certe condizioni che vanno verificate (un carico di lavoro non previsto, un'assenza specifica di un lavoratore, eccetera), non può superare certe percentuali definite contrattualmente, non può essere rinnovato, se non dopo un certo tempo.
Come risultato, le aziende italiane ricorrono poco al lavoro a tempo determinato, tanto che siamo al fondo della classifica dei Paesi industriali. Soltanto il primo ingresso al lavoro avviene nel nostro Paese a tempo determinato, ma ciò deriva dai nostri contratti di lavoro, che prevedono per i giovani il contratto di formazione-lavoro oppure l'apprendistato.
Sicché è vero che più dei due terzi dei nuovi assunti è a tempo determinato, ma per la maggior parte degli stessi si tratta solo di un periodo che si trasforma automaticamente in lavoro a tempo indeterminato. Eppure l'uso più libero dei contratti a tempo determinato consentirebbe a molte imprese di avventurarsi in nuovi settori e in nuove iniziative, senza dover temere di trovarsi con costi fissi elevati in caso di ridimensionamento dell'iniziativa. L'avvio del lavoro cosiddetto interinale a metà del 1998 ha colmato una lacuna, ma esso è ancora sottoposto a molte limitazioni e a costi eccessivi per potersi sviluppare come potrebbe. Inoltre, esso non corrisponde alle necessità di imprese nascenti, che dovrebbero poter assumere una larga parte del personale a tempo determinato, con la possibilità di prolungare i contratti di lavoro. Ciò è ancora vietato nel nostro Paese, il che corrisponde a vietare il lavoro in un Paese che dichiara di soffrire di disoccupazione.
Con l'ultima legge finanziaria è stato varato un provvedimento di "emersione" del lavoro: ossia, si sono concesse alcune deroghe e abbuoni ad imprese che fanno emergere lavoratori assunti senza l'applicazione integrale dei contratti di lavoro. Questo provvedimento, relativo alle sole aree del Mezzogiorno, parte dal presupposto che esista una vasta area di lavoro sommerso, ossia di lavoro effettuato al di fuori delle regole contrattuali, fiscali e contributive: per le altre regole relative alla sicurezza dei lavoratori ovviamente non si può derogare. Ne deriva che anche lo Stato ammette come sia difficile, specialmente in alcune aree del Paese, rispettare l'insieme di leggi, obblighi e condizioni che di fatto "vietano'' il lavoro nel nostro Paese.
L'emersione di questi lavori, sulla base dei provvedimenti citati, sarà molto limitata, perché se essi sono nascosti a causa dei costi imposti dal nostro sistema, la via per farli emergere non è solo quella di applicare gradualmente le regole esistenti, ma è quella di rivedere per tutti tali regole, in modo da far crescere la massa dell'occupazione.
Liberare il lavoro per farlo crescere in via legale appare essere la vera urgenza del nostro Paese. Un'urgenza che consentirebbe di aumentare l'occupazione e la base produttiva, di ridurre il lavoro nero e l'evasione che tanto male fa non soltanto alle casse dello Stato, ma anche alla leale concorrenza tra le imprese, di integrare un numero crescente di lavoratori immigrati, togliendoli dalla situazione di irregolarità che spesso li spinge nella spirale della criminalità.
Alcuni esponenti politici e qualche sindaco di grandi città hanno dichiarato che l'integrazione degli immigrati richiede una maggiore flessibilità del mercato del lavoro: come non dar loro ragione? Come non constatare che le attuali regole mettono fuori campo una larga parte di quel lavoro di cui si lamenta l'assenza?
Qui non si tratta di immaginare deroghe momentanee per far rientrare in una normalità impossibile chi ne è fuori. Tanto meno si tratta di creare due mercati del lavoro, per gli italiani e per gli immigrati: sarebbe immorale. Si tratta invece di abbassare le regole del mercato del lavoro per consentire a tutti di poter accedere al lavoro. Lo sviluppo che ne deriverà compenserà ampiamente tutti per la riduzione di protezioni che oggi ingessano il nostro mercato del lavoro.


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