IL FEDERALISMO FISCALE




Fabio Corvino



Il federalismo fiscale è il fenomeno per cui le decisioni riguardanti le entrate e le spese dovrebbero essere prese non esclusivamente a livello di governo centrale. I rapporti tra finanza statale e finanza locale possono essere regolati secondo tre sistemi:
1. Il sistema dell'indipendenza della finanza locale dalla finanza statale, detto "federalismo duale". Questo schema, astratto, in cui le due sfere non interferiscono trova riscontro empirico nell'America dei primi Ottocento;
2. Il sistema del federalismo cooperativo, in cui una parte delle entrate locali rimane locale, una seconda parte va ad altri enti locali per soddisfare bisogni comuni e una terza parte va al governo centrale che la ridistribuirà secondo un criterio allocativo.
3. Il sistema del federalismo competitivo, secondo cui una parte delle risorse locali rimane locale e una seconda parte va al governo centrale per i bisogni di interesse comune.
Il terzo schema (attribuito a Brennan e Buchanan) potrebbe essere contraddittorio, in quanto la solidarietà tra gli enti mal funziona. Nessun governo locale imporrebbe imposte locali, mettendo in discussione il consenso catturato, per poi destinarle ad altri governi, magari ideologicamente opposti, che tranquillamente continuerebbero ad ottenere consensi.
Altrettanto inverosimile è l'ipotesi, propria di ogni tipo di federalismo, che il governo centrale si faccia finanziare dai governi locali, perdendo la propria sovranità nazionale nei confronti di bisogni fondamentali dello Stato. Nasce quindi una sorta di concorrenzialità tra Stato ed enti locali.
In Italia, per i comuni l'autonomia è nata solo dal percorso ascendente. Il percorso discendente si è concretizzato non in un potere politico di tassazione e di spesa ma in un potere gestionale di spesa. Addirittura con la riforma del '74 si ha una sospensione del potere fiscale locale.
Tale riforma riduceva enormemente la capacità impositiva degli enti locali e assegnava, ad esempio, ai comuni l'obbligo di fornire servizi sportivi e ricreativi ai cittadini, trasporti agli scolari, assistenza agli anziani, ecc.
Gli enti locali erogavano alcuni di tali servizi gratuitamente ed altri a prezzi politici. Ciò creava sempre maggiore squilibrio tra entrate ed uscite, obbligando lo Stato ad effettuare trasferimenti sempre maggiori agli enti locali e quindi a reperire nuove entrate. In questo scenario di finanziamento in disavanzo, secondo una visione keynesiana, il Cosciani individua quattro elementi di grave inefficienza del sistema tributario dando il proprio apporto con altrettanti criteri risolutivi.
1. Eccessiva pluralità di imposte e tasse che complicavano i rapporti tra fisco e cittadino.
Criterio risolutivo: riduzione del numero delle imposte e tasse e allargamento della base imponibile.
2. Ad un'"unica capacità contributiva" del cittadino vi era una pluralità di enti tassatari, quindi il contribuente risultava danneggiato dall'imposizione selvaggia di svariati enti pubblici.
Criterio risolutivo: creazione di un sistema fiscale nazionale unitario che preveda la separazione delle fonti nonché la loro ripartizione.
3. L'accertamento fiscale da parte delle amministrazioni comunali era precario e inefficiente sia perché la riscossione risultava costosa in riferimento al gettito, sia perché la dimensione territoriale del comune era inadeguata rispetto al territorio attraversato dalle attività economiche degli agenti economici.
Criterio risolutivo: l'accertamento e la riscossione dovevano essere accentrati nelle mani dello Stato.
4. La marcata differenza contributiva tra le regioni settentrionali e quelle meridionali generava differente sviluppo delle infrastrutture che facevano correre l'economia a due velocità.
Criterio risolutivo: tutti i poteri fiscali attribuiti allo Stato avrebbero permesso, con la spesa pubblica, una politica redistributiva di riequilibrio territoriale.
Dopo oltre 20 anni la struttura del pensiero di Cosciani può essere ritenuta attuale, con le dovute integrazioni.
Qualche considerazione, invece, deve essere spesa circa la pressione fiscale e la competizione tra gli enti, alla luce anche della riforma della fiscalità locale che dall'inizio del 1998 ha iniziato il suo cammino.
Le forti difficoltà a ridurre l'incidenza della spesa pubblica sul PIL, l'aspro dibattito sul Welfare State, la tendenza verso politiche secessionistiche hanno alimentato quel disagio sociale rafforzato da una notevole pressione fiscale, che soprattutto negli ultimi due anni ha raggiunto livelli (circa il 44%) eccessivi anche e soprattutto se si considera la necessità di allineamento dei conti pubblici ai parametri fissati da Maastricht.
Il fallimento della riforma tributaria è dovuto ad una centralizzazione del processo di attuazione in uno Stato in cui non è mai esistita l'alternanza di grandi formazioni politiche alla guida del governo e in cui l'art. 81 della Carta Costituzionale permette il finanziamento della spesa pubblica con mezzi "indefiniti". Soprattutto a livello locale vi era il dovere degli amministratori di spendere il più possibile, emblematici gli spropositati organici di alcuni comuni, salvo poi il ripiano degli stessi disavanzi d'amministrazione da parte del Governo centrale. Tutto ciò non faceva avvertire al cittadino la "pressione fiscale" che si andava a maturare. Per contrastare il fallimento di un tale disegno di finanza pubblica, non si può non sottolineare la necessità di una ridefinizione di soggetti responsabili sul prelievo e sulla spesa.
E' ancora utile rifarsi a Cosciani, il quale auspicava un sistema fiscale unitario, che avesse come unico interlocutore un'unica "tasca" del contribuente. Pluralismo dei sistemi fiscali vi può essere se si pone un limite ben definito al prelievo fiscale operato sui cittadini. Una volta stabilito il limite suddetto, dovrebbe spettare poi ai singoli enti giungere alla definizione della quota spettante a ciascuno di essi.
Sotto questo aspetto, la posizione concettuale del Cosciani può riguardare un punto di riferimento per una più corretta riforma in senso federale dell'imposizione tributaria.
A tutt'oggi, l'introduzione di un'imposta quale l'IRAP non può essere il punto di arrivo del progetto federalista, sia perché la stessa imposta è ancora congegnata come un classico tributo erariale sia perché manca di efficaci strumenti di perequazione, i soli che a lungo termine potrebbero consentire la contrazione degli attuali squilibri territoriali. Ciò trova conferma nelle proiezioni sulla distribuzione regionale IRAP elaborate dal ministero delle Finanze per le regioni a statuto ordinario.
La configurazione, come si diceva, di un tetto massimo d'imposizione invocata da Cosciani dovrebbe risultare ancora più rilevante a partire dall'anno 2001.
A decorrere da tale data, infatti, le regioni, soprattutto quelle, più ricche, al fine di dotarsi di maggiori risorse finanziarie, potrebbero sfruttare pienamente la facoltà di aumentare l'aliquota IRAP e l'addizionale IRPEF, andando ad accrescere in tal modo la pressione fiscale.
Da queste brevi considerazioni si evincono le difficoltà di giungere ad una riforma fiscale in senso federale.
Come evidenziato dalla Commissione dei Trenta, tale riforma ha pur segnato un passo avanti notevole sulla via del decentramento e dell'autonomia finanziaria e fiscale delle regioni ma ha lasciato notevoli perplessità in merito al fabbisogno finanziario di cui le stesse regioni avranno bisogno in seguito all'applicazione della "Bassanini uno".


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