E SE SI DESSE UN TAGLIO?




Flavio Albini



Era il 1980 quando il professor Arthur B. Laffer venne chiamato alla Casa Bianca da Ronald Reagan; e lì, in pochissimi mesi, divenne il più ascoltato consigliere del Presidente e il membro più influente dell'autorevole Economic Policy Advisory Board. Non fu difficile al brillante economista convincere Reagan ad attuare una radicale riforma fiscale che, facendo perno sulla celeberrima "curva di Laffer", e in sinergia con massicci tagli dei più costosi meccanismi assistenziali e una strategia di deregulation, continua ancora oggi a dare all'America di Bill Clinton invidiabili dividendi in termini di bilancio federale, investimenti fissi, livelli di occupazione e di consumi, crescita economica.
Proprio a questa "ricetta" e ai suoi dividendi si ricollegava il Governatore Fazio nelle sue "Considerazioni finali" dove, senza mezzi termini e dati alla mano, suggeriva al governo una significativa riduzione della pressione fiscale, una sollecita revisione dei sistemi pensionistici e sanitari (spese che crescono a ritmi superiori a quelli del Pil) e una maggiore flessibilità del sistema-Italia. In altre parole, l'adozione - sia pure adattata alla realtà italiana -della "curva di Laffer" e del modello econometrico articolato sull'offerta (il supply-side) che l'accompagnò. Ma che cosa dice la "curva" dell'economista americano? Essa parte dalla premessa che qualsiasi sistema economico reagisce all'intensità della pressione fiscale: tanto più esoso è il fisco, tanto minore la propensione ad investire, produrre, consumare, risparmiare e reinvestire. Nella sua "curva", Laffer indica i due tassi estremi d'imposta (zero e cento per cento) che non darebbero alcun gettito fiscale. E si intuisce facilmente perché. A tasso zero d'imposta, lo Stato non incasserebbe nulla: così come nel caso di un'aliquota del cento per cento, poiché nessuno sarebbe disposto a farsi confiscare il frutto del lavoro o dei rischi presi per assicurarsi un profitto o un reddito. Da qui, l'interesse di individuare quei livelli di aliquota o di pressione fiscale che incentivino capitale e lavoro. Senza preoccuparsi troppo degli effetti a breve, sul versante delle entrate, della riduzione delle aliquote vigenti: dato che a tale manovra corrisponde a termine un parallelo incremento del gettito fiscale indotto dalla maggiore produzione di ricchezza e dall'effetto moltiplicatore che ne consegue, quindi, anche per le casse dello Stato.
Naturalmente, la "curva di Laffer" non garantisce da sola (né potrebbe farlo) l'equilibrio dei conti pubblici o la soluzione di tutti i problemi socio-economici di un Paese: se non altro, perché non può influire sulle decisioni di governi e/o parlamenti in materia di spesa pubblica. Lo testimonia, del resto, l'involuzione del bilancio federale Usa quando, per fronteggiare le gravi tensioni con il Cremlino, il presidente Reagan lanciò un massiccio e costoso programma di riarmo (basti ricordare il fallimentare progetto di "guerre stellari"). Resta comunque che nei primi sette anni della sua attuazione la reaganomics (adottata, poi, nelle sue grandi linee, dal premier britannico Thatcher e dai suoi successori) diede i risultati che si attendevano.
Sul piano fiscale, e nonostante la forte riduzione delle aliquote, le entrate dello Stato aumentarono in media del 7 per cento l'anno: mentre la quota dei "ricchi" (il "top" uno per cento dei contribuenti), che pure avevano beneficiato dei tagli delle aliquote più alte, salì dal 18 al 27,6 per cento del gettito complessivo. Sul piano macro-economico, le cose andarono anche meglio: sei milioni di nuovi posti di lavoro, marcato incremento degli investimenti delle imprese e degli utili aziendali, accresciuta solidità del dollaro.
Superata la fase involutiva per il bilancio federale dovuta alle mutevoli vicende della "guerra fredda" e alle tante crisi militari (Libano, Iraq, Iran, Nicaragua, ecc.), la reaganomics è continuata anche sotto il proconsolato del democratico Clinton, che si è trovato a gestire l'eredità fallimentare del suo predecessore repubblicano Bush il quale, a causa anche dei costi di "Desert Storm", dovette abbandonare il piano di risanamento del macro-deficit federale (300 miliardi di dollari circa, alla fine del '92). Ma anche Clinton ha seguito la ricetta Laffer: riducendo ulteriormente le tasse e il peso dei programmi assistenziali, e accentuando la deregulation almeno fino a quando è esplosa la crisi dei Balcani.
Ed è stato così che, malgrado i consistenti tagli delle imposte, le entrate fiscali del Tesoro americano negli ultimi diciotto anni si sono pressoché triplicate (passando da 519 a 1.510 miliardi di dollari), mentre il deficit, sceso oggi a livelli marginali, si va trasformando in un attivo prevedibile nel prossimo esercizio.
Soltanto nell'ultimo quinquennio la dinamica annua degli investimenti fissi è stata mediamente superiore al 10 per cento (in termini reali), la creazione di nuovi posti di lavoro ha superato i nove milioni di unità, il tasso della disoccupazione è sceso a poco più del 4 per cento, mentre la crescita del Prodotto interno lordo ha avuto e continua ad avere ancora oggi ritmi sostenuti, attorno al 4 per cento.
Certo, si potrà obiettare che l'Italia non è l'America e che Clinton non subisce gli stessi condizionamenti del nostro Presidente del Consiglio né sul piano politico interno, né soprattutto su quello esterno (i precisi vincoli di Maastricht).
E' vero. Com'è vero anche che non è con una "limatura" del 2 per cento della pressione fiscale in quattro anni né con il rinvio al 2012 della riforma previdenziale che si rilancerà il delicato motore del sistema produttivo, si ripianeranno i conti dello Stato e si rispetteranno gli impegni euro. Come il modello statunitense chiaramente dimostra, si possono ridurre le tasse senza appesantire il bilancio pubblico: ma a condizione di avere il coraggio di dare maggiore flessibilità al sistema e di non rinviare alle calende greche quegli interventi chirurgici su certe voci di spesa che, oltre che dal Governatore Fazio, ci vengono "suggeriti" anche dalle attente e intransigenti vestali dell'euro, con in testa la Germania e l'Olanda.


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