DE AMERICA




Egidio Sterpa



Nel tardo pomeriggio di una calda giornata di fine giugno 1956 mi imbarcai, dal molo Beverello di Napoli, sul transatlantico "Giulio Cesare" per un viaggio alla scoperta dell'America. Giovanissimo redattore de Il Tempo di Roma, quel viaggio fu un premio offertomi dall'indimenticabile direttore-editore Renato Angiolillo, un uomo dotato di una sensibilità giornalistica straordinaria, che aveva fondato il quotidiano nel '44 disponendo di appena duemila lire e avendo provveduto ad approvvigionarsi di carta addirittura prima dell'arrivo degli Alleati a Roma. Quel giornale, mi raccontò una volta mostrandomi orgoglioso la rotativa "Man" che aveva fatto venire dalla Germania e montato nei sotterranei di Palazzo Wedekind in Piazza Colonna, lo aveva sognato sin da quando, neppure ventenne, cominciò a praticare giornalismo nel quotidiano napoletano nittiano diretto dal fratello maggiore Amedeo. Lucano di Ruoti, in provincia di Potenza, figlio di un avvocato, Angiolillo aveva fatto anche del cinema come autore e regista: un film famoso porta la sua firma, "Un garibaldino al convento", oggi soggetto da cineteca.
L'America, vista tante volte al cinema, aveva affascinato la mia adolescenza. Ma a farmene quasi un mito fu soprattutto il libro di Mario Soldati America primo amore rinvenuto su una bancarella che ancora negli anni CinquantaSessanta stazionava in Via del Corso, allora Corso Umberto, sul marciapiede dell'Hotel Plaza di Roma. Era la prima edizione Bemporad, che tuttora conservo tra le migliaia di volumi della biblioteca che occupa quasi tutte le pareti della mia casa milanese. Una frase di quel libro mi ha sempre accompagnato, nella memoria, durante gli innumerevoli viaggi negli Stati Uniti: "Qualunque europeo può, da un momento all'altro, ammalarsi d'America, ribellarsi all'Europa, e diventare americano".
Nella valigia, quando salii la scala d'imbarco del "Giulio Cesare", avevo due libri: quello di Soldati, appunto, letto e riletto chissà quante volte e Quarantaduesimo parallelo scritto negli anni Trenta da John Roderigo Dos Passos, che m'era stato consigliato da un anziano e coltissimo collega de Il Tempo, Carlo Belli, che proprio negli anni Trenta con un volume intitolato Kn di ispirazione futurista suscitò grandi speranze letterarie. (Il Tempo di allora, mi piace ricordarlo, ospitava molti talenti culturali: Adriano Grande, poeta ligure che da giovane non fu da meno di Montale; Enrico Falqui, critico letterario che fu secondo solo a Emilio Cecchi; Raffaello Brignetti, che scomparve troppo presto ma la cui stella brillò per diversi anni; Silvio D'Amico, principe dei critici drammatici, che ebbe come vice e poi successore Giorgio Prosperi; Guido Pannain, grande critico musicale; Gian Luigi Rondi, arcinoto critico cinematografico, e firme come Gianni Granzotto, Giovanni Artieri, Virgilio Lilli, Italo Zingarelli, Ugo D'Andrea, Ettore Della Giovanna, Mino Caudana, Igor Man, Piero Accolti e molti illustri collaboratori, fra cui Curzio Malaparte: un equipaggio di grande prestigio).
Di Dos Passos mi: colpì questa affermazione: "L'America darà tinta e direzione al Ventesimo Secolo". Ma che gli Stati Uniti potessero influenzare così totalmente il mondo, come sosteneva Dos Passos, a me, negli anni '50, pareva una sentenza sproporzionata. L'America, è vero, era stata decisiva per la fine della seconda guerra mondiale, aveva sconfitto Germania, Italia e Giappone, imponendosi come grande potenza da Oriente a Occidente, ma mi pareva ci fosse troppa retorica nazionalista nelle parole dello scrittore "yankee".
C'era in me, come in molti della mia generazione, e soprattutto nelle generazioni precedenti, la presunzione che sarebbe stata l'Europa, e non l'America, a continuare a dare "tinta e direzione", soprattutto culturale, al mondo. Che il primato del Vecchio continente, nel quale del resto erano le radici del "Nuovo mondo", potesse essere oscurato appariva francamente impossibile. Neppure il fascino che l'America suscitava su giovani come me poteva indurre a pensare che il futuro appartenesse a quel mondo nuovo, la cui cultura e storia consideravamo decisamente inferiori a quelle dell'Europa, culla e presidio della civiltà. Dove avrebbero potuto trovare gli americani un Omero, un Virgilio, un Dante, uno Shakespeare, un Voltaire, un Goethe?
Il mio primo viaggio americano mi portò tra l'altro a scoprire i versi dei poeti-pionieri del West. Di uno di questi, un ignoto, non ho mai dimenticato questi versi: "Alle spalle lasciammo cadaveri di re, / tombe indimenticabili, / di fronte a noi c'è l'erba". Com'era pensabile che da una storia sia pure tanto affascinante potesse venire il dominio - ripeto: soprattutto culturale - del mondo?
Sì, c'era indubbiamente in questa posizione, ch'era non solo mia, la convinzione prevenuta che l'Europa fosse per antonomasia l'Occidente e quindi la civiltà e la cultura, e che niente di veramente grande e predominante potesse venire da fuori d'Europa. Il nostro, il mio e di tanti europei, era allora un "europeismo" un po' fondamentalista, nutrito peraltro da una assai diffusa ignoranza di quelli ch'erano stati i progressi realizzati dalla civiltà e dalla cultura americana. Conoscevamo solo superficialmente l'America, che invece già negli anni '20-'30 era qualcosa di più, molto di più di quello che ci trasmettevano le immagini cinematografiche.
Prima ancora della lettura di Dos Passos m'aveva stupito, fino a provocare uno scetticismo istintivo, quasi viscerale, la profezia venata di lirismo ottocentesco e provinciale di un politico americano, il senatore Beveridge, spesso citato nella storiografia statunitense. Dopo la conquista americana delle Filippine (1898) questo campione del nazionalismo "yankee" aveva declamato: "La legge americana, l'ordine americano, la civiltà americana si stabiliranno su molte rive". Del resto, a questo filone di idee si ispirarono prima Theodore Roosevelt, sostenitore della politica del "grosso bastone", e più tardi lo stesso Woodrow Wilson, che all'America assegnava addirittura una "leadership spirituale", un'idea alla quale la cultura europea guardò con grande sufficienza.
In quegli anni, e anche fino agli anni Cinquanta, diciamolo pure, l'ammirazione per l'America del Nord non era tale da portare fino ad espressioni tanto filoamericane (che oggi pienamente e coscientemente condivido) come quelle che m'è capitato di leggere su La Stampa di Torino a firma del bravissimo collega e amico Paolo Guzzanti: "[ ... ] questo miracolo unico nella storia dell'umanità, che sono gli Stati Uniti: il più straordinario e progressivo laboratorio della felicità e della dignità umana".
Oggi occorre riconoscere che gli ultimi cinquant'anni si sono incaricati di dar ragione a Dos Passos. Che l'America abbia dato "tinta e direzione" al Ventesimo Secolo non esistono più dubbi. La cultura americana ha influenzato il mondo, nel bene e nel male. Che la civiltà "yankee" ci abbia insegnato molte cose, che, per dirla con Wilson, sia stata per il mondo e anche per la stessa Europa una "guida spirituale" in materia di libertà, democrazia, garantismo, chi può negarlo?
Negli anni Sessanta apparve in Italia, per i tipi del Saggiatore di Alberto Mondadori, il volume L'impero americano di Claude Julien, autorevole firma di Le Monde. Ne fui presentatore a Milano insieme all'allora direttore dell'Unità Maurizio Ferrara. Naturalmente Maurizio Ferrara interpretò in senso negativo la definizione di "impero". Del resto, in quel libro c'erano un po' di sostenutezza e affettazione di superiorità tipicamente francese. Ricordo di aver contestato talune espressioni denigratorie, esprimendo il parere che fosse esagerato affibbiare al ruolo degli Stati Uniti la definizione di "impero". Oggi, comunque, va riconosciuto che in questa fine di secolo gli USA si configurano davvero come il più potente impero che il mondo abbia conosciuto. Neppure l'impero romano ebbe responsabilità in eguale misura.
Responsabilità enormi, non c'è dubbio, assunte più in forza di avvenimenti, che hanno investito e coinvolto la potenza americana, che per scelta.
Davvero straordinario questo destino di un popolo di emigranti. Non c'è esempio della storia di tutta l'umanità paragonabile alla formazione del popolo americano. Nel "Nuovo mondo" s'è realizzato un crogiolo di etnie, religioni, culture come mai avvenuto. Un fenomeno unico, quasi un prodigio, una civiltà che ha avuto come fattore fondamentale l'immigrazione, protagonisti popoli di tutta la Terra, amalgamatisi miracolosamente fino a identificarsi convintamente in una stessa patria e una stessa cultura.
Le cifre dell'immigrazione in America sono impressionanti; fra il 1820 e il 1860 giunsero sul territorio degli Stati Uniti 5 milioni di emigranti; fra il 1861 e il 1910 furono ben 23 milioni, di cui ben 9 milioni nel decennio 1901-1910 (fra questi ultimi, 2 milioni di italiani). A costoro vanno aggiunti ovviamente i nativi sottomessi (indiani e messicani) e gli schiavi importati dall'Africa. Un melting-pot universale. Sotto la bandiera a stelle e strisce si ritrovano oggi rappresentanze di ogni regione del mondo, proprio tutte. Un amico californiano venuto a trovarmi in Italia alcuni mesi fa, imbattutosi in una dimostrazione antiamericana sotto il Consolato statunitense di Milano, e avendo letto l'accusa di "imperialismo" su un cartello agitato da un giovanotto, mi si rivolse con una punta polemica: "Ma lo sa quel tuo compatriota che il cosiddetto imperialismo del mio Paese è quasi una missione obbligatoria impostaci, tra l'altro, dalla presenza nel nostro popolo di rappresentanze di tutto il pianeta?".
Ma sì, è una visione distorta e faziosa, retaggio purtroppo di una sinistra cresciuta all'ombra degli interessi del comunismo staliniano, quella che produce ancora un antiamericanismo di maniera, per nulla meditato. Così come è ormai una presunzione anacronistica continuare a considerare l'America un Paese di fanciulloni e ingenui. Bisogna prendere atto, bongré malgré, che parlare di "americanate" non ha più senso, e che comunque dietro quelle che noi pretendiamo di definire "americanate" c'è una cultura e c'è una civiltà che ci hanno influenzato fortemente in questi ultimi cinquant'anni e ci coinvolgeranno sempre più.
Lo sprezzo con cui parla dell'America certa sinistra e anche la sufficienza di una parte della destra, più formali che reali in verità, sono ridicoli oltre che un errore colossale. Ridicolo ècerto antiamericanismo economico nutrito di accuse alle multinazionali. Hanno finito per capirlo pure alcune frange della sinistra, magari solo per contingente convenienza. Ci sono uomini della vecchia sinistra che oggi si esibiscono persino in irrazionali manifestazioni di dipendenza psicologica, adottando per esempio il kennedismo o il clintonismo come modello politico e culturale. Che dire poi dei socialisti europei, tra i quali i nostri post-comunisti affiliatisi al PSE col simbolo della rosa, che nella ricerca di una soluzione per i problemi dell'occupazione, a cui è stato dedicato un congresso tenuto a Milano nel marzo scorso, non hanno potuto far altro che indicare il modello americano?
Nel mio primo viaggio americano ci fu posto per una visita a Giuseppe Prezzolini, che allora era un illustre collaboratore del giornale sul quale scrivevo. Prezzolini era un mito dei miei anni verdi e dovetti insistere molto perché qualcuno degli anziani e autorevoli colleghi che mi fecero da "chaperon" a New York (Gianni Granzotto, Ugo Stille, Renzo Missim, Nantas Salvalaggio, Giovanni Fontana, Bruno Romani) mi procurasse l'incontro, che fu fuggevole per la verità perché io ero solo un giovanissimo pivello del giornalismo italiano e Prezzolini uno scorbutico santone. Ma di quel colloquio - si fa per dire, perché parlò solo lui, il fondatore de La Voce - una frase rammento lucidamente: "La forza dell'America - disse - sta nel fatto che anche chi la maledice finisce per crederla capace di grandi cose. Il guaio è che spesso sono proprio gli americani a ignorare di saper fare grandi cose".
Sicuramente gli Stati Uniti hanno fatto grandi cose in questo secolo che si chiude. Anche grandi errori, Certamente. Ma nessuno può negare che il Ventesimo Secolo è stato il secolo degli Stati Uniti. Alla bandiera a stelle e strisce, non sempre e non da tutti amata, è toccato il ruolo che fu nell'Ottocento dell'Union Jack di Sua Maestà Britannica. La caduta rovinosa dell'URSS, dopo quasi ottant'anni di comunismo, l'incapacità dell'Europa di darsi un ruolo e l'inesistenza per ora di un organico modello asiatico hanno fatto dell'America una superpotenza unica e assoluta.
Resta da chiedersi come sarà il Ventunesimo Secolo. L'anno scorso, durante un mio ennesimo viaggio in America, che ormai considero una mia seconda patria (ho un fratello e una figlia, con relativi nipoti, cittadini americani), la mia attenzione fu attratta da un articolo sul Los Angeles Times a firma di uno studioso, Adrian Wooldridge, storico ed economista. Infuriavano polemiche e indiscrezioni sul "sexgate" e lo scrittore si chiedeva (era il titolo dell'articolo): "E' in declino l'impero americano?". Wooldridge faceva il paragone con il processo di decadenza dell'Inghilterra vittoriana e naturalmente non escludeva che prima o poi anche per gli Stati Uniti, come toccò a Roma, venisse il declino.
C'è però chi non ha dubbi che anche il Ventunesimo Secolo apparterrà all'America. Così la pensa, per esempio, Mortimer B. Zuchermann, editore e proprietario del prestigioso settimanale U.S. News and World Report. Ma non manca chi pronostica l'ascesa della Cina, per la quale però, non c'è dubbio, occorrerà almeno mezzo secolo prima di vederla crescere al livello di superpotenza.
Come che sia, ora come ora l'osservazione del quadro planetario porta a concludere che il primato americano, quello che si vuol chiamare impero, segni importanti di declino non ne mostra. Insomma, non si può dire che, come a suo tempo per l'URSS, l'America stia esaurendo la spinta propulsiva. (E per ora mi fermo qui, riproponendomi, se sarà il caso, di riprendere il discorso su questo straordinario laboratorio di civiltà che sono gli Stati Uniti).


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