UN DOLLARO IN SALUTE




T.P.S.



Si dice che l'euro abbia perso peso. In realtà, sul cambio, che noi non sottovalutiamo, c'è anche troppa attenzione. I cambi sono fluttuanti per definizione, e il momento congiunturale è tutto a favore dell'economia americana e del dollaro. E' il dollaro ad essere forte e ad essersi rafforzato su tutte le valute. Dunque, non è l'euro ad essere debole.
Non dimentichiamo poi il cammino fatto partendo un anno fa a Bruxelles. Quando il Consiglio europeo si riuniva allora, non si sapeva con certezza quali Paesi sarebbero entrati, quali sarebbero stati i tassi di cambio definitivi tra le valute, chi sarebbe stato ai vertici della Banca centrale europea. Siamo usciti avendo superato il punto di non ritorno, di significato enorme particolarmente per noi italiani. L'Italia è entrata da subito nell'euro, e quando come nel caso attuale chi è dentro è dentro, e chi è fuori è fuori, per un po', si capisce che cosa questo voglia dire. La differenza è enorme: c'è un italiano nel Comitato esecutivo e c'è un italiano alla guida della Commissione. Un insuccesso, cioè un mancato ingresso, non l'avremmo recuperato tanto in fretta.
Fra l'altro, in un momento non facile, ai nostri esportatori la competitività dell'euro non ha dato fastidio. Ma vediamo che cosa è stato fatto in dodici mesi, prima di venire al cambio, importante ma non parametro-chiave della nostra politica monetaria. Il parametro-chiave è la stabilità dei prezzi. Sono state realizzate tre operazioni cruciali. Una logistico-organizzativa, che va dalla creazione della base statistica al sistema dei pagamenti e alla "messa su strada" di una vettura complessa che è partita senza sbandare ed è subito a buon regime di giri. Poi è stata messa a punto una politica monetaria nella sua strategia e nella sua applicazione, fino alla successiva riduzione del tasso. E infine è stato varato l'assetto istituzionale. Oggi la moneta unica è retta da un collegio dove, posso assicurare, nessuno è portatore di interessi nazionali, ma tutti i diciassette componenti del Consiglio direttivo parlano nell'interesse comune della moneta unica. Possono esservi diverse valutazioni di un dato o di una tendenza, ma sempre con una visione europea.
Escludo che ci sia stata una diversa valutazione sui rischi di un ulteriore indebolimento del cambio. Lo escludo, per quanto riguarda la sostanza. C'è stato semmai un problema di comunicazione nel rendere noto il nostro giudizio comune. La comunicazione non è semplice, prima di tutto perché si comunica a soggetti diversi, mercati, politici, opinione pubblica, e non sempre un messaggio mirato per uno di questi viene interpretato chiaramente da qualcuno degli altri soggetti. Poi c'è un problema di lingue. La Federal Reserve americana si esprime in inglese, attraverso membri del board tutti di madrelingua inglese, per un uditorio che parla inglese. In Europa invece abbiamo molte lingue, anche se quella utilizzata di fatto alla Bce è l'inglese. Infine, e soprattutto, ogni Paese ha il suo protocollo di comunicazione, per cui un concetto identico assume - cambiando lingua e protocollo - sfumature differenti.
Il mio pensiero, che è poi quello dell'intero Consiglio direttivo, l'ho già espresso a Washington. Primo, il cambio dipende essenzialmente da un dollaro forte, non da un euro debole. Secondo, l'equivalente euro negli ultimi 15-20 mesi è stato nettamente al di sotto del cambio 1, 17 con cui l'euro è partito, quindi semmai era quello d'inizio gennaio '99 il valore di cambio anomalo, nel ciclo attuale. Terzo, ritengo che gli sviluppi nel cambio siano importanti e devono essere seguiti con grande attenzione dall'Eurosistema, anche se la politica monetaria dell'euro non ha un obiettivo di cambio. Quarto, considerando che non ci sono nelle condizioni fondamentali dell'economia europea fattori che giustifichino una continuazione di questo declino, non possiamo da un lato escludere che possa continuare sui mercati, ma spingendo avanti lo sguardo vediamo più fattori di forza di quanti i mercati abbiano individuato recentemente. Mi conforta vedere già alcuni segnali positivi. In base alle indicazioni statistiche disponibili, il processo di indebolimento non è terminato. La produzione industriale era ancora in calo di recente, ed era ancora in calo la fiducia delle imprese. Ma, se invece di guardare indietro guardiamo avanti, la nostra valutazione è più ottimistica. Prima di tutto il livello molto basso dei tassi aiuta gli investimenti. Poi il clima complessivo, come abbiamo notato a Washington alla riunione del Fondo monetario internazionale, è decisamente migliore, con l'Asia e col Brasile assai meno preoccupanti. Salvo che in Germania e in Italia, che però rappresentano quasi metà dell'intera economia europea, la crescita è soddisfacente. Ovunque rimane alto il clima di fiducia dei consumatori. E anche se la disoccupazione continuasse a calare nei prossimi anni quanto è calata in un anno particolarmente favorevole come il 1998, cioè di 0,8 punti all'anno, ci vorrebbero ancora otto anni per raggiungere il livello che ha attualmente negli Stati Uniti d'America.
Un'espansione economica di questa durata sarebbe, in Europa, senza precedenti negli ultimi decenni. Ciò fa capire come soltanto con misure strutturali sia possibile rompere i freni ad una crescita significativa dell'occupazione. Alcuni Paesi, ad esempio l'Olanda e la Spagna, ci sono già riusciti. Ogni Paese ha, se vuole, gli strumenti per una politica dell'occupazione più efficace. E se c'è la convenienza, prima o poi le imprese investono.
Per quel che riguarda le fusioni e le acquisizioni, in campo bancario, si tratta di un fenomeno naturale, per il quale forse siamo solo agli inizi. L'Europa ha poche banche a dimensione euro. Le sinergie potrebbero avvenire presto non soltanto su linee nazionali, fra istituti dello stesso Paese, ma su linee europee. Negli ultimi mesi almeno dieci grandi banche europee tra le maggiori di diversi Paesi sono state interessate a fenomeni di concentrazione. In Scandinavia, nel Benelux, in Francia, in Spagna e in Italia. Nella maggior parte dei casi tutto avveniva entro i confini di un solo Paese. Le due eccezioni sono date dalla concentrazione svedese-finlandese e da quella in ambito Benelux. Che cosa sarebbe accaduto se fossero state tutte operazioni transnazionali? Le disposizioni del mercato unico e il buon funzionamento di un'area monetaria unificata, così come i principii dell'efficienza, e gli interessi della clientela bancaria dicono che in questo scenario ipotetico le cose avrebbero dovuto svolgersi esattamente come in quello reale, la transnazionalità cioè non avrebbe dovuto fare alcuna differenza. Ma siamo sicuri che sarebbe stato così? E che le regole e i comportamenti delle autorità pubbliche sarebbero stati gli stessi?
Quanto alla vigilanza bancaria, dovrà intensificare la collaborazione fino ad agire come un'unica entità quanto la necessità lo impone.
Quanto all'Eurosistema, le attività da svolgere non mi sembrano molto diverse da quelle che già oggi seguono in questo campo tutte quelle Banche centrali nazionali che non hanno il servizio della vigilanza. Non è che ignorino il problema, anche se non ne sono direttamente responsabili.
Comunque, ritornando alla vigilanza, le varie autorità nazionali hanno già un punto di raccordo europeo che è il Banking Supervision Committee, che non è esclusivamente un "nostro" organo e non è detto debba rapportare interamente a noi.
Certamente, il momento europeo, con l'euro, va accentuato, trovando politiche e procedure comuni, scambiando un maggior numero di informazioni. Questo Comitato dovrebbe avere una doppia vita: da un lato, tenere informato l'Eurosistema, coadiuvandolo, per tutte quelle situazioni che sono d'interesse dell'Eurosistema stesso, cioè della Banca centrale dell'euro; dall'altra, operare come organo autonomo. A noi la situazione delle banche interessa nella misura in cui interessa a tutte le Banche centrali, che ne abbiano diretta responsabilità o meno. In un'ottica davvero europea, si può immaginare che il Comitato discuta un giorno e raggiunga una posizione comune collegialmente su fusioni e acquisizioni a livello europeo. Se questo avvenisse, non deve essere frutto dell'esercizio del potere da parte dell'Eurosistema. Che la vigilanza rimanga nel mondo dell'autorità di vigilanza.
In fondo, quello del prestatore di ultima istanza è un problema più accademico che reale. Era vitale 120 anni fa, quando Bagehot scrisse il suo trattato. Oggi è teorico. Ci sono vari livelli di intervento in casi di crisi bancaria seria, e nessuno dei casi del genere In Europa negli ultimi decenni ha toccato direttamente la politica monetaria. Le casse pubbliche sì, ma questa è un'altra storia. E poi, in caso di vera emergenza, si possono fare molte cose, basta non avere impedimenti mentali, giuridici e organizzativi.


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