I rischi del mercato globale




Alberto Fasan



Non è facile capire che cosa stia succedendo nel mondo, perché succede, e soprattutto quali eventi ci attendono nel corso di quest'ultimo anno del XX secolo. Ma forse, per cercare di capire un po', è necessario smentire proprio lo stesso dato cronologico: il 1999 non è l'ultimo anno del secolo. Infatti, nella realtà politica, economica e storica del pianeta, il ventesimo secolo è finito nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino. Da quasi dieci anni, quindi, siamo tutti nel XXI secolo. Ma non ce ne rendiamo esattamente conto. Purtroppo non sembrano rendersene conto neanche le classi dirigenti e politiche del mondo, specialmente di quei pochi Paesi ricchi del Nord industriale e sviluppato, che con circa il 10 per cento della popolazione detengono più del 70 per cento del reddito e della ricchezza mondiali.
Nello scorso secolo, infatti, (cioè fino a dieci anni fa), la contrapposizione ideologica, politica, militare ed economica tra capitalismo e marxismo aveva aperto una grande sfida storica, una grande gara a chi riusciva per primo a "quadrare il cerchio", cioè a risolvere il teorema su come rendere "equilatero" quel triangolo che da sempre sta davanti all'uomo: libertà, benessere, giustizia sociale. Ebbene, il capitalismo con la sua economia di mercato ha nettamente vinto perché ha realizzato più libertà, più benessere e più giustizia sociale. Sul grado di libertà e di benessere realizzati dai sistemi comunisti ad economia collettiva centralizzata non c'è infatti molto da dire. Sulla loro presunta uguaglianza sociale basti ricordare che essa si basava non sul rendere più ricchi i poveri, ma semplicemente sul rendere tutti uguali perché tutti più poveri, ad eccezione dei potenti del regime.
Ecco perché oggi il capitalismo, proprio perché ha vinto la gara del vecchio secolo, in questo nuovo secolo deve gareggiare con se stesso. Ma non pare rendersi ancora pienamente conto che anch'esso non ha costruito un "perfetto triangolo equilatero". Il "suo" triangolo, infatti, ha ancora i lati sproporzionati e diversi tra loro. Non a caso si è parlato dei "capitalismi", al plurale: quello asiatico, quello europeo, quello americano, ecc. E quasi come l'antica e ancora valida legge del contrappasso, chi vince la guerra ha la responsabilità di dover costruire "pace, giustizia e benessere", altrimenti rischia una nuova e più tragica guerra.
Ma che cosa centra tutto questo con tutto quanto stiamo vivendo in questi giorni: le crisi asiatiche, i bubboni che esplodono in Russia, le crisi nell'America del Sud e i rischi della loro estensione nelle aree locali vicine, piccole (Sudamerica) o grandi (Cina, India, Sudafrica...), la pericolosa bolla speculativa e le montagne russe dei listini sulle Borse di tutto il mondo, il dimezzamento della crescita mondiale, gli stop and go dell'economia americana, la ripresa a tartaruga dell'economia europea, ecc.?
C'entra. E per capire basta scendere più direttamente sul terreno dell'economia e della finanza internazionali.
Sul primo fronte, c'è un punto fondamentale da capire. Negli ultimi cinquant'anni, il mondo ha vissuto il suo più lungo e più sostenuto periodo di crescita e di benessere, soprattutto perché nuovi Paesi, nuove aree, pezzi interi di continenti sono entrati nel club dello sviluppo, e sono essi stessi diventati motori trainanti. Ecco allora la grande lezione: lo sviluppo, o si allarga e si estende anche agli "altri", oppure si rattrappisce e implode in se stesso. Da qui, i segnali di allarme accesi in questi ultimi anni. Nuovi motori non se ne vedono. Quelli che sembravano accendersi si stanno invece imballando, dal Sud-Est asiatico alla Comunità degli Stati indipendenti (Russia) e all'America Latina. Ma soprattutto due "grandi e ricchi" motori appaiono da troppo tempo quasi fermi. Il Giappone è bloccato dalla sua crisi strutturale. L'Europa, con alta disoccupazione e con bassa crescita, continua a crogiolarsi e a rispecchiarsi narcisisticamente nel suo stato sociale, al quale sembra sempre più aggrapparsi come ad una coperta di Linus, senza capire che il ventunesimo secolo è già cominciato da oltre dieci anni e questo la chiama ad assumere responsabilità storiche nuove e difficili, ma anche inevitabili e non rinunciabili. Ecco perché gli Stati Uniti sono rimasti "soli" in tutti questi anni Novanta.
Qui si collega e nasce il secondo fronte, quello della finanza mondiale e delle montagne russe delle Borse e delle monete. Certamente, tuttora gravi sono i rischi che ci derivano dalle tre crisi di area che abbiamo avuto a fine '98 e ai primi del '99, e non è certo evitato definitivamente il contagio verso altre aree e il resto del mondo. Non a caso l'Argentina ha cercato di giocare in contropiede, proponendosi di rinunciare al suo "peso" per adottare direttamente il dollaro americano e tagliare alla radice le aspettative speculative. Il vero big-bang, però, è collegato alla bolla speculativa che si è andata gonfiando sulla "Borsa di tutte le Borse", e cioè su Wall Street.
Già dalla scorsa estate, infatti, l'economia americana ha mostrato segni di rallentamento che hanno portato a ridimensionare le prospettive di profitto delle imprese. Nonostante questo, e nonostante gli effetti successivi delle tre crisi di area ricordate, l'indice Dow Jones ha continuato imperterrito a crescere. Ciò vuol dire che, anche se la macchina produttiva rallenta, i valori finanziari continuano a salire e si allontanano sempre più dai valori reali dati dalle prospettive produttive e di profitto. Questa è la pericolosa bolla speculativa della Borsa americana. E più va avanti, più grave potrebbe essere il botto.
D'altra parte, però, il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, si trova di fronte ad una difficilissima alternativa: se alza i tassi per sgonfiare la bolla speculativa sulla Borsa, frena bruscamente l'economia reale; se non alza i tassi per non frenare l'economia, corre il rischio di alimentare la bolla finanziaria speculativa. Finora, di fronte a questo dilemma, Greenspan ha cercato di inventare un nuovo strumento di politica economica, le sue "pubbliche esternazioni", sperando che possano consentirgli di calmare la Borsa senza dover ricorrere all'aumento dei tassi. Dovrebbe allora essere evidente che conviene a tutti non lasciare soli gli americani. E questo dovrebbe capirlo per prima l'Europa. Per noi, infatti, si tratta di rilanciare la nostra economia con serie riforme strutturali che pongano i Paesi dell'euro nella condizione di viaggiare con la stabilità monetaria, ma ad una velocità di crescita sostenuta, prendendo al più presto il testimone dello sviluppo dagli Stati Uniti. Questo 1999 è quel tratto di pista entro il quale "deve" avvenire il passaggio del testimone, altrimenti l'intera squadra perde la gara.
Purtroppo, invece, l'Europa crede ancora di poter far valere la sua "diversità": vuole tenersi stretto così com'è il suo stato sociale e le sue rigide regole sul lavoro e sull'occupazione (di chi ce l'ha), e sembra per questo accontentarsi di fatto di uno sviluppo lento e modesto. In realtà, non si accorge che rischia di non avere sviluppo e proprio per questo di autodistruggere esattamente il proprio stato sociale.
Ed anche qui si pone una legge del contrappasso. La sinistra europea che, spesso dall'opposizione, ha spinto meritoriamente per la costruzione dello stato sociale è chiamata oggi, in molti casi da posizioni di governo, a realizzare la sua profonda riforma. In sintesi: è preferibile procedere ad una riforma oggi, che assistere al crollo delle certezze sociali domani.
Ma allora tutto questo significa che nel mondo e in Europa sono troppo diffusi i miopi, che non riescono a vedere i rischi di queste situazioni? Certamente no. Il vero rischio, nel mondo, in Europa e in Italia, è che esistano troppi furbi che puntano, come sempre in passato, ad arricchirsi sulle disgrazie altrui. Non bisogna infatti dimenticare che ogni volta che si svaluta una moneta, ogni volta che cambiano i prezzi relativi tra materie prime e prodotti industriali, ogni volta che la Borsa va su, ma anche ogni volta che la Borsa va giù, ci sono sempre qualcuno che perde e qualcuno che guadagna. Ogni volta, cioè, si spostano fette importanti di potere e di ricchezza da un continente all'altro, da un gruppo sociale all'altro. E quando l'economia va bene, il potere e il reddito si diffondono, la democrazia e la libertà si consolidano. Quando va male, il potere si concentra, la libertà si restringe e la democrazia è sul filo del rasoio.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000