Etica del dialogo e diritti della ragione




Claudio Alemanno



Le rotte della disperazione non hanno mai avuto confini. La novità odierna è data dal ruolo di apripista che l'Italia va consolidando nel quadro dei nuovi flussi migratori che muovono verso l'Europa in senso Nord-Sud, Est-Ovest. Curioso destino per un Paese che ha fatto dell'emigrante il messaggero più autorevole dei vizi e delle virtù nazionali.
Un linguaggio sanguigno caratterizza il dibattito in corso dando più spazio alla protesta che alla proposta. Manifestazioni di vario segno affollano strade e piazze e in mezzo si registra la tensione di chi per ufficio deve controllare le coste, evitare naufragi e tragedie, amministrare i disagi e le difficoltà dei campi di accoglienza.
Non vogliamo sapere in questa sede perché albanesi, curdi, afgani, pachistani e kossoviani prediligono l'Italia come meta d'approdo quando sono più vicini alla Grecia e perché altrettanto fanno i marocchini quando sono più vicini alla Spagna. Probabilmente la risposta è nell'immagine-eldorado offerta dall'Italia come avamposto dell'Europa opulenta. Resta il massiccio fenomeno migratorio che da fatto episodico collegato a piccole attività illecite acquista ormai valori e significati biblici. A poco servono gli accordi bilaterali e gli impegni politici. L'immigrazione selvaggia porta alla fine dello Stato di diritto, continua a ripetere Bossi, e richiede forme di protezionismo che contengano il disordine economico prodotto dalla globalizzazione. Riaffiora il fantasma del protezionismo, per ora in forma isolata.
Indro Montanelli ha sollevato invece il tema delle leggi speciali. Riferendosi alla situazione lungo le coste adriatiche del Sud scrive: "Ciò che mi chiedo e - ne sono sicuro - si chiedono molti cittadini è se in uno stato di guerra come quella che imperversa laggiù contro una invasione in cui è impossibile scernere la gente dalla gentaglia, il buono dal cattivo, il perseguitato dallo spacciatore di droga e pappone di prostitute, ciò che mi chiedo è se, in una situazione del genere, sia giusto e salubre affrontarla secondo la legge odierna" (Corriere della Sera 25.11.98). Certamente lo stato delle cose non è da novella appena uscita dalla penna di Lewis Carrol. Ma Montanelli sa bene che la sua preoccupata descrizione è normale nell'eccezionalità dell'evento, è fotografabile in ogni ipotesi di emorragia migratoria i cui tratti convulsi e drammatici non permettono mai di distinguere l'oglio dal grano, i buoni dai cattivi. Il caos è la norma. Se a ciò si aggiunge una miope e distratta amministrazione del fenomeno (ordinaria o straordinaria poco importa, le leggi speciali non aiutano granché) si corre il rischio di avere una convivenza instabile ed insicura nelle nostre città (Torino e Genova già fanno testo), trasformando la tolleranza e la caritas cristiana in intolleranza, guerriglia e razzismo, promuovendo in sintesi una spirale di fanatismo integralista senza averne cultura e tradizione.
Se è vero, come appare probabile, che il fenomeno migratorio diventerà endemico, il suo controllo implica una valutazione integrata di aspetti etici, politici ed economici. C'è un'etica dei princìpi-doveri e un'etica delle responsabilità che devono amalgamarsi, secondo la suprema dottrina dell'euro, con la necessità dell'Italia e degli altri Paesi europei di trasformare le società statizzate in società di mercato. C'è quindi un ordine di priorità interne che finisce per porsi in modo conflittuale con le forti correnti d'immigrazione se non interviene un governo sagace dei due processi.
Attenzione va data all'etica dei princìpi-doveri (accoglienza e solidarietà nel rispetto dei diritti universali della persona) e all'etica delle responsabilità (rendere compatibili le ragioni della sicurezza interna con i doveri dell'accoglienza). Tuttavia, a seguito della crisi dello Stato-nazionale (gli effetti della globalizzazione e gli obblighi imposti dall'adesione all'euro ne danno quotidiana testimonianza), alcuni compiti di natura statuale vengono ormai trasferiti in altri fori. A noi pare che il tema dell'immigrazione contenga sufficienti cointeressenze di carattere europeo per porlo in modo rituale e solenne all'attenzione delle istituzioni comunitarie tecniche e politiche. La forte pressione multietnica dovrebbe accelerare il progetto di definizione della cittadinanza europea all'interno del quale andrebbero formulate le politiche atte a gestire la grande immigrazione extracomunitaria.
L'occasione per rendere testimonianza di spirito federalista e di primaria importanza. Una cittadinanza europea qualificante i diritti civili e politici definisce anche le procedure della sua acquisizione (si pensi alla trafila dell'immigrato negli Stati Uniti; da clandestino o con permesso di soggiorno ad alien, con diritti civili ma non politici, a cittadino americano con diritti civili e politici). Cesserebbe la corsa dei clandestini da un Paese all'altro (recentemente dalla Francia verso l'Italia) in cerca di un più facile riconoscimento di status e per la prima volta si darebbe vita ad un servizio "europeo" chiamato a gestire una normativa unitaria sottratta ai poteri statali. Si verrebbe in questo modo a configurare un primo pacchetto di norme "federali" su di un tema di assoluta rilevanza internazionale.
Se il problema resta affidato alla sola responsabilità statale fatalmente finisce per prevalere l'aspetto della sicurezza interna mentre una corretta estione del fenomeno porta ad assegnare priorità alla disciplina dell'accoglienza. I clandestini senza identità finiscono per essere una mina vagante per tutta l'Europa. Il Vecchio Continente non ha gli spazi enormi delle Americhe. Gli Stati Uniti, espressione riuscita di un modello di società multietnica, hanno una densità di popolazione pari a 28 abitanti per chilometro quadrato (18 il Brasile, 12 l'Argentina). In Italia, anche in presenza di una forte contrazione delle nascite, siamo a 190 abitanti per chilometro quadrato e situazioni più o meno analoghe hanno gli altri Paesi europei. Inoltre la cittadinanza d'oltreoceano ha caratura diversa rispetto alla cittadinanza europea. L'oceano divide ed esalta i valori del nuovo Continente (il mito americano!). Il Mediterraneo (Mare Nostrum) invece consente di mantenere inalterati i vincoli familiari, di costume, cultura e religione. Quindi un superaffollamento incontrollato è destinato a produrre in Europa tensioni e conflitti di vario segno anche in ragione della persistenza delle diverse identità etniche.
C'è poi lo spettro della disoccupazione che attraversa l'intera Europa attualmente i disoccupati sono venti milioni). Negli ultimi vent'anni gli Stati Uniti sono riusciti a creare 60 milioni di nuovi posti di lavoro mentre l'Europa ne ha creati solo 10 milioni. La differente capacità propulsiva dei due sistemi economici non è casuale. Negli Stati Uniti è prevalso e prevale l'interesse dei consumatori che dà impulso ad un costante processo dinamico definito da Schumpeter di "distruzione creativa". In Europa invece prevale l'interesse dei produttori che chiedono e ottengono dai governi nazionali continui regolamenti protetti (cioé spiega ad esempio il mancato decollo della Carta sociale europea).
Trovare in Europa spazi di lavoro legale per gli immigrati diventa più difficile. L'innovazione tecnologica tende a contrarre il numero degli occupati e richiede alta qualificazione (vede impegnati i cosiddetti investimenti capital intensive). Gli immigrati offrono invece prevalente lavoro manuale che può trovare impiego in agricoltura, pesca e trasporti pubblici e privati. Può inoltre trovare opportunità d'impiego nei lavori usuranti del comparto industriale e dei servizi concorrendo a determinare una sorta di calmiere sull'aumento del costo del lavoro.
Resta in ogni caso la necessità di potenziare i processi industriali ad alto assorbimento di manodopera (abbigliamento, calzaturiero e altri in cui vengono impiegati investimenti labour intensive). Occorre comunque valutare i costi sociali che possono sopportare le singole comunità (per la casa, la sanità, la scuola bilingue, ecc.) e stabilire se il lavoro degli immigrati offre un'adeguata compensazione tra ricchezza prodotta e ricchezza consumata. Occorre stilare in breve una tabella del dare e dell'avere che implica complesse valutazioni di equilibrio sociale.
Finora ci tocca registrare soltanto uno spericolato gusto del "pastiche", mentre occorre unità e umiltà avendo sempre aperte le porte della memoria per tutelare i valori della cultura europea. La politica, diceva Keynes, è appena un surrogato del bridge.


Nota bibliografica
Sulla crisi dello Stato-nazione e sui contenuti del nuovo universalismo etico si segnala un importante contributo del filosofo tedesco Jürgen Habermas L'inclusione dell'altro (Studi di teoria politica). Feltrinelli, Milano 1998


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