Le Giravolte




AA. VV.



Nummus Artifex

Cosa vale di più, l'oro o l'argento? La domanda sembra sciocca, eppure non lo è. Facciamo un esempio. Voi siete un nobile cavaliere medievale che cavalca da molte ore e avverte un principio di stanchezza, e anche un po' di appetito. Vi fermate in un piccolo villaggio anche perché son sorti problemi alle cinghie della sella. L'oste per una scodella di minestra e una pagnotta chiede pochissimi spiccioli; il sellaio altrettanto. Ma il cavaliere nella borsa ha solo monete d'oro, non esistono ancora sportelli bancari per cambiare la moneta e la gente del villaggio non ha mai visto, forse, una moneta d'oro. Una moneta d'oro pesa un'oncia (circa trenta grammi), un po' troppo per lasciare il resto come mancia, nè poveri diavoli come l'oste e il sellaio possono fare grazioso omaggio al cavaliere delle loro prestazioni. E' una situazione imbarazzante.
E non è la sola. Nelle compere quotidiane (quando non interviene lo scambio in natura) pochi spiccioli d'argento sono più che sufficienti; l'oro appare negli alti ranghi per comperare spezie, gioielli, stoffe, armi, ecc.
E qui ci accorgiamo che in alcuni secoli del medioevo (X-XIII) l'oro e l'argento erano distribuiti in modo diseguale sul territorio europeo, e non solo europeo. La sfera nord-europea aveva più argento, il Sud dell'Europa più oro. Nel mondo merovingio, in Gallia, l'oro si esauriva in acquisti di lusso, mentre le miniere di argento della Boemia, di Poitou, dei monti dell'Harz fornivano materia prima per una monetazione corrente.
Non basta. Se vogliamo porgere ascolto a quanto scrive Louis Charpentier in "I misteri dei Templari", edizione italiana Atanor, i Templari, con la flotta, che si muoveva nel porto di La Rochelle, raggiungevano l'America (già raggiunta, molto tempo prima da Vichinghi e Normanni partiti dalla Groenlandia) riportando carichi di argento. Questa tesi è sostenuta da Jean de La Varende nel libro "I Gentiluomini", ed entrambi gli autori portano numerosi argomenti a sostegno del loro assunto che, non possiamo negare, sono molto convincenti.
Per esempio: sei grandi strade partono dal porto di La Rochelle e si dirigono per tutta la Francia, tra cui una versola costa atlantica e la Bretagna, un'altra verso la regione parigina, un'altra ancora verso Ginevra e il Basso Poitou, ecc.. Si deve necessariamente concludere che il porto di La Rochelle avesse per i Templari una importanza tutta particolare.
Nè si può pensare che servisse per i rapporti con l'Inghilterra, perché a questo scopo c'erano i porti sulla costa fiamminga. Le relazioni con la Spagna e il portogallo erano assicurate più facilmente per terra che per mare; di qui il sospetto che i collegamenti fossero con l'America del Nord dove esistevano miniere d'argento. Mancano le prove, ma, d'altra parte, non vi sono mai prove quando si tratta di templari. Le piste sono sempre accuratamente cancellate. Resta certo che i Templari disponevano di una grande ricchezza che consentì loro straordinarie realizzazioni (non dimentichiamo i diecimila castelli in Europa). La Rochelle poteva rappresentare il grande polmone.
L'argento dunque abbondava nella Gallia merovingia.
Al contrario nel Sud d'Europa, e più esattamente nel mondo arabo-islamico, l'oro era di più facile reperibilità perché prodotto nell'Africa del nord. C'è da aggiungere una curiosità che troviamo nel libro "Carlo Magno e Harun al-Raschid" di Giosué Musca, ed. Dedalo, e cioè "nel secolo VIII "(siamo chiaramente in un'epoca notevolmente anteriore)" le riserve auree delle chiese e dei monasteri non erano commerciabili, almeno sino a quando non venivano depredate, e si verificò una concentrazione di oro nelle mani dei musulmani che mettevano in circolazione i tesori delle chiese siriache e delle tombe faraoniche di cui nel secolo IX iniziarono metodiche ricerche".
Nondimeno, lo scambio di questi metalli avveniva continuamente per mezzo dei pellegrini, dei mercenari, dei commercianti, ma in misura non sufficiente a sofddisfare le necessità. E dovevano avvenire veri e propri "accaparramenti" (da alimentare una specie di mercato nero), se consideriamo i seguenti episodi.
In una abbazia di Montescaglioso, in Lucania, è stato rinvenuto un tesoro, depositato verso la fine del XIII secolo, costituito soltanto di monete d'argento d'ogni tipo. Di contro, in Toscana, nel 1925, è stato trovato, presso Pisa, un tesoro costituito soltanto da monete d'oro d'ogni epoca e d'ogni tipo, quali soldi bizantini, tari siciliani, grossi d'oro di Lucca, fuorini, ecc. Si trattava chiaramente di accaparramenti che servivano alle due parti per effettuare degli scambi presentandosi la necessità.
Va detto, nondimeno, che lo squilibrio territoriale dei due metalli pregiati sia stato anche eccessivamente drammatizzato per motivi di mercato, come dire per rendere l'oro più accessibili e a minor costo. Comunque, le circostanze storiche ed economiche condussero gradualmente ad una rinascita dell'argento nell'Oriente islamico, con conseguente coniazione argentea in tutto il Mediterraneo. Le coniazioni auree, tuttavia, rimasero come un fatto di prestigio degli stati e dei monarchi, ed è il caso dell'Augustale di Federico II, moneta elegante (specie rispetto ai tari piuttosto grossolano) con il profilo dell'Imperatore, l'aquila imperiale, i suoi poco più di cinque grammi che le consentivano di svolgere la sua funzione di propaganda.
E questo è confermato dal fatto che l'Imperatore continuò ad autorizzare la produzione degli "augustales" anche durante le sue ben note difficoltà economiche e finanziarie più spiccate tra gli anni 1220 e 1240. Non dimentichiamo che, come scrive Arthur Haseloff in "Architettura sveva nell'Italia meridionale", Federico, negli anni 1239-40, al fine di ridurre le spese, si vide costretto a ritirare le sue guarnigioni da numerosi castelli, a sospendere le costruzioni in corso, a confiscare tutti i tesori della Chiesa. Ma l'oro oer coniare gli "augustales" doveva esserci sempre.
Non che l'oro dovesse rappresentare soltanto un mezzo di pagamento, ma si trattava di un attributo reale, di una credenziale, di una etichetta imperiale, tanto più che quel secolo vide una ascesa delle monete d'argento verso una posizione più importante nella vita economica nella sfera meridionale. Così l'argento nell'Italia meridionale e in Sicilia determinò l'inizio di una nuova era per le monete di queste regioni. Anche in questo caso Federico - che accettò la svolta - si dimostrò monarca illuminato, perché le monete d'argento migliorarono la reputazione internazionale delle monete dell'Italia meridionale, trovando favorevoli anche i successori degli Svevi, ossia Carlo d'Angiò II e Roberto il Saggio.
Appare chiaro che la teoria della relatività è una costante della nostra vita, per cui se l'oro vale di più dell'argento come metallo, nella vita pratica, quella quotidiana che vivono milioni e milioni di uomini, l'argento può avere una funzione preminente e lasciare all'oro - sempre in senso relativo - la funzione di rappresentanza.

Pubblicità
La pubblicità ha origini remote. Non dobbiamo credere che il martellamento cui ci sottopone la televisione sia l'invenzione di solerti e creativi pubblicitari che posseggono le chiavi della persuasione occulta e manifesta. Essi hanno soltanto aggiornato i loro metodi.
Quando non c'erano giornali, libri, manifesti murali, a circolare erano soltanto le monete ed era sulle monete che si scriveva ciò che il regnante di turno voleva che il popolo s'imprimesse bene nella testa. Naturalmente si trattava di brevissime frasi elogiative del monarca come "padre della vittoria" oppure "padre della benignità" (vedremo in seguito nel dettaglio come, dove e quando avveniva la coniazione di tali monete).
Sempre restando nella più remota antichità i nomi delle persone avevano significato, ma, col tempo e con la mescolanza dei vari popoli, si finì per perdere la traccia di questa primitiva usanza. Ciò non avvenne nella lingua araba, ancor prima dell'islamismo, per cui troviamo nomi che suonano; "servo del sole", "servo di Dio", "servo del misericordioso iddio" e, se il padre era ignoto, con molto spirito dicevano "figlio di suo padre". Ma la strada era aperta ai soprannomi e di conseguienza ai titoli onorifici, tanto che nella sfera araba i Califfi introdussero l'uso di date tali soprannomi a titolo di onorificenza a uomini illustri e benemeriti, nonché a quei Principi che riconoscevano il loro dominio.
Qui ci viene spontanea una malignità, (peraltro, non è il solo caso nella storia). E' verosimile pensare che tali titoli fossero elargiti anche in cambio di denaro e comunque di favori. Qualcosa come i titoli nobiliari elargiti dagli spagnoli a Napoli durante la loro dominazione che vide accrescersi il numero di baroni e nel contempo le riserve monetarie della corona. Quindi nel mondo arabo i Principi amici si videro definiti "sostenitore della religione di dio", "contenuto di dio" e gli uomini illustri "spada dell'impero", "sostenitore del mondo e della religione".
Ma nulla vi è di più umano della vanità, del piacere di essere ammirati, lusingati, riveriti, omaggiati, ecc. Per cui anche i principi Tartari e Mongoli seguirono la stessa usanza. Così il sultano di Romania, che in turco si chiamava "Leone Nero", divenne in arabo "forza del modo e della religione".
L'usanza prese a dilagare e i principi cristiani di georgia e di Sicilia cominciarono spesso a coniare monete con i soprannomi elogiativi. I re di Georgia prendevano il soprannome di "splendore del monddo e della religione" e quelli di Sicilia di "vittorioso" o di "sostegno dei cristiani"; il Gran Khan dei Mongoli divenne "imperatore del mondo" o "imperatore della faccia della terra".
Qui ci si deve consentire una divagazione - anacronistica, ma pertinente - che vuol ancora una volta sottolineare, oltre la vanità degli uomini, la necessità della pubblicità. Il papa Clemente XI, (1700-1721, siamo quindi in tempi relativamente recenti), forse per compensare alcuni suoi errori diplomatici, compì, con i suoi fondi, grandi opere di abbellimento di Roma e gran parte di esse le ricorda nella sua monetazione. Il nuovo portico con statue di S. Maria in Trastevere lo ricordò in una piastra del 1702; i lavori all'obelisco e alla piazza del Pantheon li legò a mezza piastra del 1711 e a due piastre del 1713; i restauri alla chiesa di S. Teodoro al palatino sono ricordati da una piastra del 1703; il porto di Ripetta sul Tevere da una mezza piastra del 1706; il ponte di Civitacastellana da una piastra del 1711 e le numerose opere pubbliche effettuate nella sua città natale, Urbino, il Papa le legò a un testone del 1705 e ad una mezza piatra dello stesso anno. Va detto, a onor del vero, che prima di lui, il suo predecessore, Clemente X, aveva fatto coniare una piastra per ricordare i lavori al Porto di Civitavecchia.
In parole povere il buon Clemente XI diceva ai suoi fedeli: Vedete come sono bravo? E lo diceva con le monete.
Ma attenzione, il vizietto della vanità è antico, lo abbiamo già detto e qui non si vuol dare addosso ai papi perché va ricordato quante e quante volte gli imperatori romani, sempre sulle monete, si definivano "invictus", "optimus" e "pater patriae.
Non basta, perché anche loro ricordavano le imprese eccellenti, non soltanto militari, come Domiziano, che su un sesterzio fece scrivere che era stato l'autore dei giuochi secolari (Ludos saeculares fecit) e lo stesso nerone che su un altro sesterzio scrisse: "Pace populi romani terra marique porta Ianum clusit" per ricordare la dichiarazione della pace universale dell'anno 66, in occasione della quale la cerimonia comportava la chiusura delle porte del tempio di Giano che restavano aperte in tempo di guerra. E, per la parte scenografica, la moneta reca, sul rovescio, l'immagine del tempio del dio bifronte.
Entriamo ora nel vivo di una questione che ci sta più a cuore, perché riguarda l'Italia, dominata - specie nel meridione - da vari popoli tra cui, il modo più massiccio, nei secoli che c'interessano, dai Normanni e dagli Svevi. Qui bisogna subito dire, senza scendere in dettagli che richiederebbero pagine e pagine, che i Normanni nella gestione dello Stato avevano risentito molto dell'influsso arabo sia nella organizzazione della corte, sia nei titoli, nel cerimoniale, nella cancelleria e, infine, nella coniazione delle monete, sulle quali non disdegnavano sovente di autodefinirsi Emir, alla maniera araba, pur essendo principi, conti o governatori cristiani. E cominciamo col dire, parlando per ora dei normanni, che i tre personaggi di maggiore spicco, Ruggero, Guglielmo I e Guglielmo II ebbero, accanto al nome occidentale, un titolo arabo al pari dei Califfi.
Ruggero era "L'esaltato per grazia di dio": Guglielmo I "Quei che guida secondo l'ordine di dio"; Guglielmo II "Quei che cerca la sua esaltazione in dio".
E tutto questo era scritto sulle monete. Una bella pibblicità.
Non si vuole peccare di irriverenza nei confronti di questi grandi personaggi della storia, ma come non sorridere dinnanzi a quella moneta chiamata dirhem coniata a Palermo nel 1197 cui si legge, scritto in cufico, "Il re - Federico - il potente? A quella data Federico II di Svevia aveva tre anni e quindi, verosimilmente, quel "potere" poteva intendersi che era un fanciullino vivace che faceva disperare la baby-sitter.
Ancora nel 1198 - Federico sempre in tenera età - troviamo un denaro brindisino che definisce, in latino e in cufico, Federico re di Sicilia".

Il Cufico
Abbiamo visto che, nei secoli che ci interessano, le monete, anche quelle ricadenti fuori dalla sfera musulmana, recavano iscrizioni in cufico. Ma cos'è questo cufico? Nient'altro che arabo, che invece di presentarsi con una grafia ad andamento rotondo, diciamo corsivo, si presenta ad andamento angolare. pensate a una nostra vocale "a" scritta in corsivo e scritta in maiuscolo a stampa e noterete la grande differenza. Non è qui il caso di ricordare che la parola cufico discenderebbe dalla città di Kufa in Iraq, anche perché pare che tale modo di scrivere fosse anteriore alla fondazione di quella città avvenuta nel 636 dell'E.V.
Ciò che più incuriosisce è perché una così vasta diffusione del cufico (ossia della scrittura araba) fuori della sfera musulmana.
Abbiamo già detto che era un modo dei regnanti di farsi pubblicità, di dire al popolo quanto fossero bravi, belli e buoni, amati da dio e amanti di dio, potenti e vittoriosi e, come Tancredi, "vittorioso per grazia di dio", "riverito e onorato", ma questa spiegazione non basta. Perché avevano quasi tutti scelto di farsi questa propaganda in arabo in maniera massiccia, con pochi spiragli aperti al greco e al latino?
Prima di dare una risposta dobbiamo aprire una parentesi storica. Era la seconda metà del X secolo (952-975) e il califfo Moez coniava una moneta d'oro (il moezzino) che godeva alta stima per la purezza del metallo ed era preferita ad ogni altra anche negli scambi diciamo "internazionali". Ciò comportò, come sempre, un espediente truffaldino da parte di Gisulfo I, principe di Salerno, che fece contraffare i moezzini. Fu l'inizio di una lunga serie di imitazioni più o meno impegnate formalmente, quasi sempre meno nella purezza del metallo. Ma lo scopo era un altro: una maggiore penetrazione.
Quando l'Occidente fu investito dalla civiltà araba, si ritrovò dinnanzi, oltre una nuova religione, una nuova filosofia che, in parte, aveva riesumato quella classica ossidatasi sotto interessi confessionistici. Chi di noi non cuistodisce nelle reminescenze scolastiche quell' "Averrois che il gran commento feo", quell'Averroè che col suo commeno alle opere di Aristotele, tradotto in ebraico e in latino, esercitò grande influenza sul pensiero medievale? E nella memoria ci è rimasto Avicenna, che come filosofo segue la dottrina di Al Farabi, un aristotelismo, anche qui, con influenze neoplatoniche. E con la filosofia giunse una matematica più snella, più pratica, più accessibile con quei numeri indo-arabi portati in occidente, per primo, da Gerberto d'Aurillac (divenuto poi papa Silvestro II) che, nondimeno, li rinchiuse nelle biblioteche dei monasteri, non vedendone l'uso pratico. Ma la praticità di quei numeri fu vista dal figlio di un commerciante, introdotto alle matematiche da arabi del Nord Africa, dove seguiva il padre nei suoi viaggi d'affari. Si tratta niente meno che di Leonardo Fibonacci da Pisa, il grande matematico, figlio di Bonaccio, mercante pisano.
E con la matematica, resa più accessibile con i numeri arabi, giunse una astronomia complemente rivisitata, perfezionata, approfondita (ho un elenco di trenta astronomi arabi che vanno da una dei primi, Almamun (786-833)b ad uno degli ultimi, El Magrebi, morto nel 1285). E giunsero la poesia araba ed una valutazione della donna che capovolse la sua collocazione nella società e schiuse quella visione della femminilità che ispirò l'amor cortese che, per la prima volta, poneva la donna su un piedistallo, adorandola come una dea. Va ricordato che la mistica sufica include l'amor terreno idealizzato quale mezzo per conseguire la perfezione spirituale, e la contemplazione di Dio nella donna è la più perfetta. E il cammino continua con i poeti del dolce stil nuovo. E, sovrana, giunse l'architettura. Ancora oggi, ad oltre mille anni di distanza, basta andare in Sicilia o in Spagna per restare incantati dinnanzi all'eleganza di quelle forme che racchiudono inequivocabilmente una grande spiritualità.
Fu quella spiritualit࣠della civiltà araba che suggestionò, soggiogò, catturò ipnotizzandoli gli uomini dell'Occidente. La civiltà araba conquistò l'Europa ed i suoi regnanti che, istintivamente, cercarono una identificazione per spartirne il prestigio, non trascurando un tentativo di surretizia penetrazione.
Questo spiega la diffusione dei caratteri arabi e più precisamente del cufico, che in sé, non ha nulla di magico, ma è simbolo di quel vento d'Oriente che porta con sè spiritualità, classe, eleganza e quindi inevitabile dominio.
aldo tavolaro

 

Il giovane Kircher

Ultimo di nove figli, Athanasius Kircher nacque alle tre del mattino del 2 maggio 1602 a Geisa, un villaggio vicino Fulda. Suo padre Johann, strana figura di laico professore di teologia, aveva addirittura insegnato in un monastero benedettino dalle parti di Heiligenstadt ed era riuscito a collezionare, nel corso degli anni, una ricca biblioteca che sarebbe andata perduta durante la Guerra dei trent'anni. Venuto al mondo sotto il segno del toro, il più piccolo dei Kircher apparve ai suoi genitori - ed in seguito a se stesso - contrassegnato da benefici influssi astrali: mite, paziente e, tuttavia, abbastanza avventata di temperamento; il cognome già collaudato nella carriera paterna che gli avrebbe, senza dubbio riservato uin destino d'uomo di chiesa; la scelta di battezzarlo come il santo del giorno di nascita a garanzia di longevità e buona sorte nei pericoli; tutto costituiva un fortunato e benaugurante tema natale, quasi i termini di un progetismo biografico scandito da vicende davvero eccezionali.
Fu senza intenzioni, la sua, una via cattolica e tutta personale a testimoniare la ricaduta della grazia divina sull'uomo, una versione anticalvinista e antiweberiana della fortuna, un riscontro continuo e persuasivo che la Provvidenza esiste, eccome. Quella della sua giovinezza era forse una Germania vitalissima anche se tempestosa, costellata - come vedremo - di violenza ma anche di incredibili episodi di umanità; un mondo in cui un giovane scolaro del collegio di Fulda, precoce e brillante come lui, poteva essere mandato a lezioni di ebraico presso un rabbino del luogo per rinforzare il proprio curriculum studiorum. Una Germania che ormai non c'è più e che nel racconto del vecchio gesuita ci suona cara e familiare.
Da bambino Athanasius sfuggì alla morte almeno in quattro occasioni, e tutte le volte in circostanze spettacolari e prodigiose. In realtà tutta la sua infanzia fu tempestata di fatti e coincidenze che egli avrebbe riportato nelle sue memorie illuminandoli di un travolgente, tenero, a tratti ingenuo alone aneddotico che rivelano ancor oggi il temperamento sanguigno del protagonista.
Un giorno afoso d'estate, nuotando nella vasca di un mulino ad acqua, fu rapito dalla corrente e trascinato, sotto gli occhi terrorizzati dei compagni di gioco impotenti a trarlo in salvo, fin dentro le pale della ruota. Ma quando ormai gli altri si aspettavano di vederlo rimergere dall'altra parte della roggia maciullato dagli ingranaggi, egli apparve fra la schiuma senza alcun danno se non un brutto spavento.
Qualche settimana dopo, in paese si stava svolgendo una corsa di cavalli. Il piccolo Athanasius, sfuggito al controllo della madre, andò a godersi la gara proprio in prima fila lungo il percorso, facendosi largo fra la ressa dei curiosi e degli scommettitori. All'improvviso fu spinto dalla folla in mezzo alla pista proprio mentre i palafreni scattavano al segnale del mossiere. Molti, mordendosi le mani per il raccapriccio, lo videro rotolarsi in una nube di polvere sotto gli zoccoli mortali; ma il ragazzino si rialzò incolume subito dopo, anche se un po' stordito.
La terza volte che la fece franca fu al ritorno da una delle sue frequenti fughe dal collegio, allorché come Pinocchio aveva marinato le lezioni per assistere ad una rappresentazione di attori girovaghi in una cittadina a due giorni di cammino da Magonza, dove nel frattempo era passato a frequentare il locale collegio dei gesuiti. Perdutori di notte nella foresta, per paura degli orsi, dei cinghiali e dei briganti non trovò di meglio che arrampicarsi su un albero e lì aspettare l'alba in un dormiveglia guardingo.
Evidentemente lo spirito di erlebniss fu in lui prepotente e irrefrenabile se in un rigido giorno d'inverno del 1617 uscì dal suo studiolo e andò a pattinare su uno stagno ghiacciato: ne trasse un bel principio di congelamento ai piedi che fece temere gli si dovessero amputare gli arti. Stette a letto per parecchi mesi tra la vita e la morte, anche perché un'ernia addominale si aggiunse alla cancrena e fece disperare per la sua salvezza i maestri e gli altri scolari. Ma una notte si destò di soprassalto e, stringendo fra le mani il rosario, pregò trepidante la Santa Vergine che gli venne in soccorso misericordiosa, perché ebbe inizio una benefica crisi di sudorazione seguita da un sonno profondissimo. Il mattino seguente l'ernia si era riassorbita e le piaghe e il turgore dei piedi miracolosamente dissolti. Kircher avrebbe sempre ricordato nelle sue memorie questi eventi come qualcosa di prodigioso che, inaspettatamente ma provvidenzialmente, lo avevano fatto sentire sotto l'ala protettrice del Signore nei momenti più critici della sua esistenza.
Terminati gli studi a Magonza, nel 1618 Athanasius si trasferì a Paderborn, ove fu accolto come novizio dalla Compagnia di Gesù. Furono due anni che sopportò a stento come una tappa necessaria alla propria formazione, durante i quali si accorse del divario culturale che si andava allargando tra la propria intelligenza e la mediocrità dei compagni. per non parlare delle incomprensioni con i docenti che lo consideravano testardo e scavezzacollo. A quel loro allievo dallo spirito libero, i cattedratici pedanti non perdonavano la curiositas che pure la regola dell'ordine riconosceva a ciascun gesuita purché subordinata al rispetto per la gerarchia. E per quanto anarcoide e bislacco, il giovane Kircher si risolse sempre all'obbedianza, anche quando questa consegna appariva assurda e mortificante.
Poi, finalmente, nel 1620 prese gli ordini religiosi ed iniziò gli studi di filosofia che dovette, però, ben presto interrompere bruscamente per lo scoppio della Geurra dei trent'anni. Alla fine del 1621, infatti, il Duca Cristiano di brunswick aveva cinto d'assedio e bombardato Paderbon: non c'era, per i seminaristi, nulla di buono da sperare da questo principe luterano che si era proclamato nemico giurato dei cattolici e particolarmente dei seguaci di Ignazio di loyola. E così, dopo aver provato la fame e il terrore per la soldataglia protestante, nel gennaio del 1622 Athanasius convinse altri due confratelli che non era il caso di attendere l'irruzione dei lanzichenecchi. I tre si travestirono da laici, scivolarono di notte oltre i bastioni con delle funi ed iniziarono un'avventurosa fuga per le campagne, appena in tempo per non farsi sgozzare insieme agli altri gesuiti nelle sale del collegio. Febbricitanti e senza un pfenning per sfamarsi in qualche locanda, i fuggitivi vagarono per altrettanti giorni per i boschi e i campi, con la neve fino alla cintola, pietendo circospetti l'elemosina per borghi e cascinali più poveri di loro, finché, quando ormai tutto sembrava perduto, furono ospitati e rifocillati nel castello di un nobile cattolico. Muniti di salvacondotti per attraversare le linee di guerra, giunsero dopo una settimana a Munster. Da lì i partigiani cattolici che li presero in consegna, dopo il solito ristoro precipitoso, consigliarono Kircher e compagni di prendere alla svelta la via di Colonia.
Allora toccò loro fungersi nuovamente viandanti; traversarono Düsseldorf e marciando a tappe forzate verso occidente arrivarono sulle rive del Reno ghiacciato, incerti se dirigersi verso un vicino ponte col rischio di essere identificati dai luterani, oppure azzardare la traversata a piedi sul ghiaccio. Non fu una decisione facile: alla fine diedero rettaa dei contadini che avevano loro assicurato non esserci alcun pericolo. Ma mentre erano a mezza via, accadde ciò che si era temuto: la crosta si spaccò e Athanasius cadde nell'acqua gelida mentre gli altri due chiamavano aiuto a squarciagola e già piangevano dando per spacciato l'amico. Si ripeté, invece, il miracolo del mulino, e Kircher riemerse sbuffando dalle acque del fiume, cerò più volte di aggrapparsi al banco di ghiaccio e, all'ennesimo tentativo ebbe partita vinta sul Vater Rhein.
Per tre ore arrancò intirizzito fra canneti aguzzi come lance e interminabili ghiaioni, lottando contro l'assideramento, infine trascinato dai compagni: poi, anche questa brutta avventura ebbe il suo lieto fine e i fuggiaschi varcarono il portone della domus professa di neuss, ove li accolsero l'affetto dei confratelli, il fuoco scoppiettante di un grande camino e un pasto caldo dopo giorni di inedia e peripezie. Neuss era un primo porto sicuro sulla rotta per Colonia, ma ancora troppo esposto alle pattuglie del brunswick che incrociavano a cavallo lungo gli argini di quel gelido confine d'acqua fra due mondi sempre più lontani. perciò, tre giorni dopo, lasciati i suoi compagni di fuga in quell'avamposto cattolico, Athanasius riprese il cammino per Colonia dove avrebbe ripreso gli studi laureandosi in filosofia.
L'anno seguente fu trasferito a Coblenza per proseguire la formazione umanistica; e in quella città avrebbe iniziato pure il suo magistero nella locale scuola gesuita. Qui finalmente poté dissimulare l'habitus di aurea mediocritas, che si era fino ad allora imposto, mostrandosi in tutta la propria statura intellettuale. Ma i suoi meriti gli attirarono presto le invidie dei colleghi che riuscironoa trasferirlo nuovamente nella città ove aveva insegnato tanti anni prima il padre Johann: Heiligenstadt.
Il viaggio in territorio protestante si annunciava davvero pericoloso, ma Kircher non aveva alcuna intenzione di rinunciare all'uniforme della Compagnia di gesù: disse agli ipocriti superiori di Coblenza che avrebbe preferito morire piuttosto che attraversare indisturbato le linee piene di incognite in abiti laici: una bella risposta a chi gli stava dando il benservito spedendolo a nuova destinazione per la porta dell'inferno.
Neanche a farla apposta, dopo poche miglia che ebbe percorso nella valle della Mosella, fu intercettato da una pattuglia di luteranio che lo malmenarono, lo rapinarono e, per dileggio, lo spogliarono dell'abito alare. Fu un pomeriggio da incubo in balia di quella teppaglia che si passava la botticella di vin bianco rubata in qualche fattoria dei dintorni; e più aumentava l'ubriachezza di quegli scalmanati, più forti e frequenti erano le bastonate che davano al prete. Alla fine della giornata Athanasius, più morto che vivo, udì incredulo la sentenza che lo condannava all'impiccagione, intercalata da rutti e bestemmie da colui che sembrava il presidente di quella improvvisata corte di giustizia sommaria. Fu tirato su dagli sgherri che gli misero il cappio al collo. Athanasius, allora, fece appello all'ultimo coraggio che gli restava e iniziò a pregare cantando ad alta voce il Salva Regina. E mentre due soldati stavano per dare lo strattone fatale alla corda, un altro commilitone intervenne urlando e chiedendo di sospendere l'esecuzione, forse commosso da quella figura di giovane novizio che affrontava con calma e dignità la morte. Non solo gli fu risparmiata la vita, ma gli furono restituiti anche gli abiti e i libri prima sottrattigli. E quando ormai il drappello ondeggiante sembrava essersi allontanato nel bosco, il soldato pietoso che lo aveva salvato persuadendo i compagni tornò indietro, gli lasciò del denaro e si dileguò unendosi agli altri.
Heiligenstadt fu raggiunta senza ulteriori incidenti. Qui Kircher tornò a fare il professore insegnando matematica, ebraico e siriano. Aveva solo ventitre anni, ma già appariva presso i superiori come uno straordinario umanista. Un giorno capitò in visita al collegio l'Arcivescovo Elettore di Magonza ed in suo onore Kircher allestì un mirabile spettacolo di fuochi pirotecnici e macchine semoventi frutto dei suoi studi di meccanica. La prima impressione della curia itinerante fu di trovarsi di fronte ad uno straordinario eppure seducente malefico di magia nera, finché il giovane gesuita non spiegò il funzionamentop di quell'incredibile apparato, cosa che gli valse l'ingaggio immediato da parte del presule che lo portò con sè nel suo castello di Aschaffenburg. L'Arcivescovo, infatti, cercava da tempo qualcuno che mettesse a punto delle kuriositatem per la sua corte e compilasse una relazione descrittiva del principato, lavoro che Kircher completò in soli tre mesi. Fu in quest'ambiente tranquillo, ove non gli mancarono finanziamenti alle proprie ricerche sul magnetismo, che fu redatto il manoscritto di quella che sarebbe stata la sua prima opera a stampa, l'Ars Magnesia (1631), teoria di una visione della natura che gli avrebbe applicato al fenomeno del tarantismo nel Magnes sive de arte magnetica (1641) contenente altresìle partiture della iatromusica trascritte dai suoi corrispondenti salentini, i padri Nicolello e Galimberto.
Poi, alla morte dell'Elettore porporato, tornò a magonza, ufficialmente per continuare gli studi di teologia, in realtà intento a studiare le macchie solari con un telescopio che si era procurato sin dal 1625. Nel 1628 fu ordinato sacerdote ed entrò nel suo terziariato a Spira. Fino a questo momento i suoi interessi precipui erano stati di carattere scientifico, ma all'improvviso un nuovo mondo di studi filologici gli si spalancò davanti quando, in un libro sull'obelisco Sistino, egli si imbattè per la prima volta nelle immagini dei geroglifici. Questa lettura pose in lui le basi per quella che sarebbe stata una passione costante della sua vita: il mondo dell'entico Egitto. Queste ricerche avrebbero dato forma ad una monumentale serie di scritti sull'argomento: Prodromus coptus sive Aegyptiacus (1636), Lingua Aegyptiaca restituta (1643), Rituale ecclesiae Aegyptiacae sive cophitarum (1647), Obeliscus Pamphilius (1650), Oedipus Aegyptiacus (1652-1654) in tre volumi, Obeliscus aegyptiacus (1666), Sphinx mystagoga (1676).
Tuttavia, presto dovette lasciare Spira e recarsi a Würzburg. Indubbiamente frustrato dalla sua carriera di clericus vagons, tentò una svolta alla propria vita ed un diversivo allo spettro della nuova destinazione chiedendo di poter partire come missionario in Cina, ma la sua istanza fu rigettata e dovette accontentarsi di allestire una collezione per i reperti artistici ed etnografici che gli venivano spediti da altri gesuiti recatisi in quel lontano paese. Nel frattempo gli eventi interni della germania precipitavano con l'invasione dell'armata svedese. Proprio in questi giorni Athanasius ebbe un sogno premonitore: si svegliò di soprassalto e, affacciatosi alla finestra, vide il cortile del collegio occupato da una folla di soldati. Destò gli altri confratelli ma questi, seccati, tornarono a dormire perché dabbasso non c'era nessuno. Kircher si convinse di aver avuto un'allucinazione, ma si sbagliava perché in quelle stesse ore l'esercito di re Gustavo Adolfo aveva fatto ingresso in territorio tedesco. Di li a pochi giorni gli eventi precipitarono: il collegio fu occupato e messo a soqquadro dagli scandinavi e Kircher fu costretto a fuggire con il suo fedelissimo segretario Caspar Schott lasciandosi dietro tutti i propri manoscritti. Entrambi trovarono rifugio ancora una volta a Magonza e, fortunatamente per il futuro di Kircher, i superiori lo lasciarono partire per la Francia, paese che percorse passando per Lione stabilendosi finalmente ad Avignone dove tenne lezioni di matematica, filosofia e lingue orientali. Proclive, come suo solito, alle disavventure, Athanasius per poco non morì fra le stesse mura del collegio gesuita risucchiato da un vortice d'acqua che la sua morbosa curiosità per le scienze naturali lo aveva portato a studiare troppo da vicino.
Ad Avignone fece ingresso nel mondo cosmopolita degli uomini di cultura del tempo grazie all'incontro con Nicolas Claude Fabri de Peiresc, un ricco mecenate che aveva già sentito parlare di lui e della sua bravura nelle lingue antiche. Peiresc, che possedeva dei papiri, invitò Kircher ad aiutarlo nella loro decifrazione; a tal uopo gli procurò dei libri ed una copia della Tavoletta Bembina di Iside; in cambio il tedesco gli prestò dei vari volumi della biblioteca del collegio di Spira.
La loro ricerca in tandem era a buon punto quando, nel 1633, Kircher ricevette l'onore poco gradito di un incarico di docenza a Vienna per succedere al ruolo di matematico di corte lasciato vacante da Giovanni Keplero, morto due anni prima. Mentre Athanasius faceva i bagagli per il viaggio alla reggia degli Asburgo, Peiresc scrisse vibranti lettere di protesta al papa Urbano VIII e al cardinale Barberini, ma l'amico dovette partire; e poichè la Germania era ancora malsicura per un gesuita, Kircher decise di viaggiare attraverso l'Italia settentrionale. Si imbarcò, quindi con alcuni confratelli alla volta di Marsiglia, ma durante la navigazione tutti i religiosi si amalarono, evento che spinse il comandante del battello a far sosta su un'isoletta con la scusa di qualche ora di riposo, a scaricare gesuiti e a ripartire con tutti i loro averi facendo perdere le sue tracce. Furono salvati da una barca da pesca che li portò fino a Marsiglia, molo da cui partirono per Genova su una nave comandata questa volta da un galantuomo.
Ma ripresero le peripezie alle quali Kircher era da sempre abituato: una tempesta li trattenne per tre giorni in una caletta riparata; poi il mare si calmò e salparono nuovamente, ma una seconda burrasca li rigettò sulla costa dove il capitano evitò per un pelo di sfracellarsi sugli scogli pilotando con perizia la nave dentro un'angusta caverna. Finalmente raggiunsero Genova: lì Kircher si trattenne per due settimane, senza alcuna fretta di raggiungere l'Austria. Si imbarcò, anzi, per Livorno e puntualmente, in pieno Tirreno, scoppiò un altro fortunale che sospinse il veliero fino in Corsica.
Provvidenzialmente - si fa per dire - il vento girò da maestrale con una forza incredibile e riportò l'avventuroso gesuita presso le coste italiane. Non a Livorno, però, ma in vista del porto di Civitavecchia dove la nave trovò scampo al rischio di un naufragio. Allora Athanasius pensò bene di rinviare la partenza per vienna e farsi una gitarella a Roma.
Era il 1635, ed entrando nella Città Eterna scoprì con sorpresa che lì era atteso da molte settimane: la supplica di Peiresc aveva avuto successo, ma non per farlo tornare in Provenza, bensì per assegnarlo al Collegio Romano, il sancta sanctorum della Compagnia di gesù, con l'incarico particolare di studiare i geroglifici. Roma sarebbe stata la sua dimora fino alla morte, avvenuta all'età di 78 anni il 27 novembre 1680.
gino l. de mitri


LE PRINCIPALI BIBLIOGRAFIE DI A. KIRCHER
- G. J. Rosenkranz, Aus dem Leben des Jesuiten Athanasius Kircher 1602-1680, in "Zeitschrift für vaterländische Geschichte un Alterthumskunde", vol. 13, n. 9, 1852, pp. 11-58.
- N. Seno, Selbstbiographie des P. Athanasius Kircher aus der Gesellschaft Jesun Fulda 1901 (traduziuone dal latino).
- G. Richter, Athanasius Kircher und seine Vaterstadt Geisa, in "Fuldaer Geschichtsblätter", vol. 2, 1927, pp. 49-59.
- R. Major, Athanasius Kircher, in "Annals of Medical History", vol. 1, 1939, pp. 105-120.
-J. Godwin, Athanasius Kircher, A. Renaissance Man and the Quest for Lost Knowledge, Londra 1979.

 

L'epopea protestante

La rilettura degli autori Giorgio Tourn e Giorgio Bouchard sugli avvenimenti che hanno costellato la storia del pensiero umano e che hanno portato all'evoluzione del giudizio filosofico del concetto di religione ci pone nella sofferta considerazione del tempo da noi perduto nei confronti dei grandi movimenti di opinione che hanno soltanto sfiorato la nostra nazione, soprattutto a causa della nostra impalcatura politica a partire dalla fine del secolo XII.
La rilettura dei temi dibattuti da uomini che malgrado tutto avevano rivendicato la libertà di revisione di alcuni dogmi, dicevamo, ci rimanda al vero precursore di quella svolta storica che va sotto il nome di "riforma protestante".
Infatti, nell'anno 1173 un cittadino di Lione, di nome Valdesio, usuraio di professione, misto alla folla che in quel momento stava ascoltando un trovatore, improvvisamente convinto dalle sue parole lo invitò a casa per ascoltarle più attentamente. Impressionato dai concetti di quel girovago, l'indomani Valdesio si portò alla scuola di teologia per chiedere consiglio sulla salvezza della sua anima. Il maestro teologo glielo diede citando una frase del Signore: "Se vuoi essere perfetto vai e vendi tutto ciò che hai ... ".
Abbiamo raccontato il fatto come introduzione al tema sui movimenti protestanti ricavato dalla nutrita bibliografia del teologo Giorgio Tourn e in particolare dal libro I Valdesi, la singolare vicenda di un popolo Chiesa.
L'aneddoto storico può indicare in Valdesio da Lione l'antesignano dei movimenti protestanti d'Europa. Un popolo Chiesa, ossia l'inizio di quella linea di pensiero che determinò lo sviluppo di una generale scuola filosofica la cui portata fu determinante per l'identità nazionale dei popoli di Francia, Germania e Inghilterra. Anche in Italia, sia pure lentamente, sorsero comunità cristiane riformiste: ricordiamo le Comunità valdesi in Piemonte e nella Savoia oltre che in Calabria e nel Lazio. Tutti movimenti che subirono la reazione spesso violenta della Chiesa di Roma. Riferimenti e documenti storici parlano di repressione cruenta con massacri indiscriminati.
La predicazione dei Valdesi, durata tre secoli, è la testimonianza di una latente crisi spirituale nel cuore di quella civiltà potente e organizzata che è l'Europa cattolica dinanzi alla quale le vecchie civiltà dovranno "inchinarsi".
La scoperta dell'America ad opera di Cristoforo Colombo segnò la fine di un millennio occidentale. Quella data, 1492, segnò l'inizio dell'era moderna dando luogo ai grandi movimenti riformatori. Da più parti l'interpretazione dei vangeli viene messa in discussione.
Le avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto si ebbero quando la Santa Inquisizione riuscì metodicamente a emarginare la protesta valdese contro papa Silvestro I che, accettando "la donazione di Costantino", trasformò la Chiesa in uno dei tanti poteri temporali dell'epoca. Registrata l'emarginazione dei Valdesi, sorse nel cuore dell'Europa cattolica, 67 anni prima dell'era colombiana, un movimento di protesta sostenuto dalla predicazione del boemo Jan Hus sulla scia di un inglese, John Wyclif, ma appoggiata da un movimento popolare: e allorquando Hus viene condannato, il movimento diventa rivoluzione. Questo moto rivoluzionario fu represso e il suo animatore portato sul rogo. Il moto di Hus però fu solo il preludio di quello che avvenne con la fine del Medio antico, suggellato dalla scoperta del Nuovo Continente.
La svolta epocale si chiamò Erasmus da Rotterdam, seguito dalla tempesta chiamata Lutero. Seguì poi Giovanni Calvino che, riassumendo le idee generali della riforma, scrive un libro che si chiamerà L'istituzione della religione cristiana.
Calvino, a differenza di Lutero, monaco, è un laico uscito dall'università. Uomo moderno, compreso di cultura umanista e quindi profondamente protestante.
A differenza di Lutero, che rivendica la libertà generica del cristiano, il fondamento filosofico di Calvino è nella razionalità della disciplina, senza la quale non vi può essere vera vita cristiana. Abbiamo omesso altri protagonisti che nel comune intento di riformare la Chiesa hanno suggellato la nascita di una nuova società più libera nella propria coscienza religiosa.
Nel frattempo, in Italia, dopo il Concilio di Trento, si continuò a reprimere ogni anelito di riscatto, ristabilendo l'egemonia imperante della Chiesa cattolica, che divenne virtualmente religione di Stato. Tutto ciò fu confermato politicamente nel XX secolo con il Concordato del 1929. Una timida apertura alle altre confessioni cristiane fu sancita dalla Costituzione repubblicana, completata con il secondo concordato stipulato con Craxi, presidente del Consiglio. Resta comunque un fatto: la Chiesa di Roma con il suo integralismo ha impedito che l'Italia partecipasse a quell'evento riformatore mercé il quale sorsero le democrazie operanti con i propri popoli, che divennero padroni del proprio destino con quel pensiero laico, unico a sviluppare nelle coscienze individuali e collettive un ampio respiro di una sempre più vasta cultura.
A noi tutto questo è mancato, ritardando il nostro sviluppo sociale per oltre due secoli con le conseguenze politiche e culturali che sono sotto gli occhi di tutti coloro che anelano, forse ormai inutilmente, alla liberazione delle coscienze verso una cultura genuinamente laica.
fulvio summaria

 

Holding mafia

La stima di Newsweek Report valuta il business complessivo delle mafie di tutto il mondo in un milione di miliardi di dollari. Il crimine organizzato è l'attività economica predominante nel mondo. I traffici di droga e di armi occupano rispettivamente il primo e il secondo posto tra le fonti di reddito, superando perfino l'industria petrolifera.
Il Fondo monetario internazionale ha stimato che circa 700-1.000 miliardi di dollari sono sottratti alle finanze mondiali. Il narcotraffico era stimato pochissimi anni fa in 310 miliardi di dollari; nello stesso periodo di tempo il giro d'affari delle tre principali società americane, la Esso, la Ford e la General Motors, era di circa 330 miliardi di dollari.
Non è una singola organizzazione criminale ad essere responsabile dell'ammontare di questo giro d'affari illegale. C'è una quantità di grandi associazioni a delinquere, quali la "Hong Kong-based Triads", il "Call cartel" della Colombia, la "Mafia" italiana, la giapponese "Yakuza", la russa "Vorl v. Zakonye", e gli affiliati neo-venuti e rapidamente impiegati gruppi criminali west-africani. Comunque, è largamente riconosciuto che questi gruppi criminali si sono accordati per massimizzare le loro operazioni.
Mentre la maggior parte degli Stati nazionali è impreparata di fronte ai cartelli internazionali del crimine, l'economia mondiale è diventata globale e più liberale. Migliaia di miliardi di dollari, di marchi, di yen sono giornalmente scambiati con transazioni elettroniche. Le organizzazioni criminali hanno immense risorse a loro disposizione, e ciò le mette in grado di fare uso di moderne e sofisticate tecnologie, nelle loro operazioni che includono traffici di droga, di armi e di organi umani, furto internazionale d'auto, contrabbando di immigrati, crimini ambientali, lavaggio e riciclaggio di black money, traffico illegale di opere d'arte. Le somme di denaro guadagnate sono tali che i cartelli criminali transnazionali sono diventati il fattore predominante della finanza mondiale. Sono stati persino capaci di influire sui destini di alcuni Paesi, portando a livelli critici il loro sviluppo economico e sociale.
La risposta delle nostre società democratiche a questa minaccia illegale deve: 1) combattere la flessibilità, l'inventiva e il potere dei cartelli del crimine; 2) migliorare la legislazione nazionale. Fra l'altro, l'analisi scientifica del fenomeno mafia è molto esigua. La maggior parte dei Paesi si limita alla registrazione delle azioni criminali e non analizza sistematicamente le organizzazioni che stanno dietro. Il miglior modo di combattere le mafie è quello di combattere le organizzazioni stesse, e non i singoli delitti, che spesso sono commessi da criminali di rango inferiore. Qualche successo è stato ad esempio raggiunto analizzando i flussi dei trasferimenti di denaro effettuati dalle mafie e intercettandoli. Dunque, ciò che occorre è una "mappa" del crimine organizzato, basata su una banca dati computerizzata dove vengano registrati tutti i dati che emergono da un'analisi scientifica del fenomeno.
Le mafie internazionali possono essere combattute con successo solo se gli organi di sicurezza sono disponibili alla cooperazione mondiale. Pertanto, sono necessari nuovi trattati e accordi internazionali che coinvolgano tutte le comunità, e accordi bilaterali di reciproca assistenza in campo giudiziario. Ad esempio, la validità dell'azione di task force bilaterali e reciproche è stata testimoniata dall'Operazione Green Ice,nel 1992, quando le forze di polizia appartenenti a sette Paesi di tre continenti effettuarono oltre 200 arresti, dopo avere individuato i piani di un'alleanza tra Cosa Nostra Siciliana e Call Cartel colombiana.
La cooperazione pratica deve comprendere: lo scambio di manuali che illustrino le procedure nazionali; la designazione di "Autorità centrali per la mutua assistenza giudiziaria"; la formazione di task force congiunte; l'identificazione dei tecnici più qualificati per lo svolgimento delle procedure d'indagine; l'impegno di avanzate tecnologie investigative.
Industrie, compagnie di assicurazione, banche, liberi professionisti (avvocati e commercialisti) e governi, devono tutti lavorare insieme per far rispettare l'etica degli affari e impedire che il crimine penetri nelle operazioni d'affari legittime. Al tempo stesso, i governi devono imprimere nella mente dei cittadini il principio che la legge deve essere rispettata. A New York il sindaco è stato capace di abbassare considerevolmente il tasso della criminalità, affidandosi fra l'altro alla teoria del "vetro infranto": se la città lasciasse che il vetro infranto della finestra di un edificio non venisse riparato e omettesse di punire i colpevoli del danno, dopo breve tempo tutte le finestre di quell'edificio sarebbero infrante. Se invece la città non trascura nessuna finestra rotta, si crea un clima in cui i cittadini sono portati ad osservare la legge e ad esercitare al massimo livello quel controllo sociale che previene il verificarsi di crimini più gravi.
Nel 1994 l'Onu organizzò a Napoli una Conferenza mondiale sulla criminalità transnazionale organizzata, che si concluse con una Dichiarazione politica e un Piano d'Azione Globale, poi adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel 1997 si discusse la bozza di convenzione a Vienna. Prevedeva queste misure:
- confisca dei proventi derivanti dal crimine organizzato (art. 2);
- criminalizzazione delle compagnie che traggono profitto dal crimine organizzato (art. 3);
- incaricare gli Stati di creare una legislazione sui crimini presenti nel loro territorio (art. 5);
- incaricare gli Stati di estradare i propri cittadini, qualora sia richiesta l'estradizione per reati di criminalità mafiosa (art. 7);
- rimuovere il segreto bancario (art. 10);
- finanziare l'addestramento degli investigatori (art. 11);
- creare un'apposita banca dati mondiale (art. 12).
I risultati della collaborazione tra gli Stati membri dell'Unione europea sono stati finora assai modesti. E' stata istituita l'Unità Europea Droga (Ued) e una sola Convenzione, quella di Dublino. Il Trattato di Maastricht prevede il coordinamento nel settore della Giustizia e degli Affari Interni (il cosiddetto "Terzo Pilastro"). E' stato inoltre istituito un comitato di funzionari di alto livello (High Level Group), con un ruolo di coordinamento, consultazione e preparazione, nei confronti del Consiglio Europeo, e che può svolgere questo ruolo di propria iniziativa. Il Parlamento Europeo non ha ruolo nel Terzo Pilastro, ha solo il diritto di essere informato. La Corte Europea di Giustizia non ha alcuna competenza. Aree di coordinamento: tossicodipendenza, immigrazione clandestina, riciclaggio di denaro sporco, furto d'auto internazionale e frode internazionale.
Nello sviluppo di un piano d'azione contro la criminalità transnazionale, i diritti fondamentali svolgono un ruolo esiguo ma al tempo stesso importante. Un ruolo esiguo perché il piano d'azione si limita a migliorare la collaborazione tra Stati sovrani. Non è compito del piano fornire un sistema legislativo internazionale o europeo, sviluppare una legislazione penale internazionale o europea, perseguire azioni criminali o adire la Corte di Giustizia internazionale o europea. D'altra parte, la storia controversa della nascita di questa collaborazione tra Stati sovrani e dell'adozione di convenzioni contro le mafie mostra che la segretezza nel processo decisionale e un mancato rispetto dei diritti fondamentali, come ad esempio il controllo parlamentare e giudiziario, sono non solo antidemocratici, ma anche impraticabili. In definitiva, il mancato rispetto dei diritti fondamentali serve solo a ritardare considerevolmente il processo.
tom de waard
(Presidente dell'Ordine olandese degli Avvocati)


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