Nummus
Artifex
Cosa vale di più,
l'oro o l'argento? La domanda sembra sciocca, eppure non lo è.
Facciamo un esempio. Voi siete un nobile cavaliere medievale che cavalca
da molte ore e avverte un principio di stanchezza, e anche un po'
di appetito. Vi fermate in un piccolo villaggio anche perché
son sorti problemi alle cinghie della sella. L'oste per una scodella
di minestra e una pagnotta chiede pochissimi spiccioli; il sellaio
altrettanto. Ma il cavaliere nella borsa ha solo monete d'oro, non
esistono ancora sportelli bancari per cambiare la moneta e la gente
del villaggio non ha mai visto, forse, una moneta d'oro. Una moneta
d'oro pesa un'oncia (circa trenta grammi), un po' troppo per lasciare
il resto come mancia, nè poveri diavoli come l'oste e il sellaio
possono fare grazioso omaggio al cavaliere delle loro prestazioni.
E' una situazione imbarazzante.
E non è la sola. Nelle compere quotidiane (quando non interviene
lo scambio in natura) pochi spiccioli d'argento sono più che
sufficienti; l'oro appare negli alti ranghi per comperare spezie,
gioielli, stoffe, armi, ecc.
E qui ci accorgiamo che in alcuni secoli del medioevo (X-XIII) l'oro
e l'argento erano distribuiti in modo diseguale sul territorio europeo,
e non solo europeo. La sfera nord-europea aveva più argento,
il Sud dell'Europa più oro. Nel mondo merovingio, in Gallia,
l'oro si esauriva in acquisti di lusso, mentre le miniere di argento
della Boemia, di Poitou, dei monti dell'Harz fornivano materia prima
per una monetazione corrente.
Non basta. Se vogliamo porgere ascolto a quanto scrive Louis Charpentier
in "I misteri dei Templari", edizione italiana Atanor, i
Templari, con la flotta, che si muoveva nel porto di La Rochelle,
raggiungevano l'America (già raggiunta, molto tempo prima da
Vichinghi e Normanni partiti dalla Groenlandia) riportando carichi
di argento. Questa tesi è sostenuta da Jean de La Varende nel
libro "I Gentiluomini", ed entrambi gli autori portano numerosi
argomenti a sostegno del loro assunto che, non possiamo negare, sono
molto convincenti.
Per esempio: sei grandi strade partono dal porto di La Rochelle e
si dirigono per tutta la Francia, tra cui una versola costa atlantica
e la Bretagna, un'altra verso la regione parigina, un'altra ancora
verso Ginevra e il Basso Poitou, ecc.. Si deve necessariamente concludere
che il porto di La Rochelle avesse per i Templari una importanza tutta
particolare.
Nè si può pensare che servisse per i rapporti con l'Inghilterra,
perché a questo scopo c'erano i porti sulla costa fiamminga.
Le relazioni con la Spagna e il portogallo erano assicurate più
facilmente per terra che per mare; di qui il sospetto che i collegamenti
fossero con l'America del Nord dove esistevano miniere d'argento.
Mancano le prove, ma, d'altra parte, non vi sono mai prove quando
si tratta di templari. Le piste sono sempre accuratamente cancellate.
Resta certo che i Templari disponevano di una grande ricchezza che
consentì loro straordinarie realizzazioni (non dimentichiamo
i diecimila castelli in Europa). La Rochelle poteva rappresentare
il grande polmone.
L'argento dunque abbondava nella Gallia merovingia.
Al contrario nel Sud d'Europa, e più esattamente nel mondo
arabo-islamico, l'oro era di più facile reperibilità
perché prodotto nell'Africa del nord. C'è da aggiungere
una curiosità che troviamo nel libro "Carlo Magno e Harun
al-Raschid" di Giosué Musca, ed. Dedalo, e cioè
"nel secolo VIII "(siamo chiaramente in un'epoca notevolmente
anteriore)" le riserve auree delle chiese e dei monasteri non
erano commerciabili, almeno sino a quando non venivano depredate,
e si verificò una concentrazione di oro nelle mani dei musulmani
che mettevano in circolazione i tesori delle chiese siriache e delle
tombe faraoniche di cui nel secolo IX iniziarono metodiche ricerche".
Nondimeno, lo scambio di questi metalli avveniva continuamente per
mezzo dei pellegrini, dei mercenari, dei commercianti, ma in misura
non sufficiente a sofddisfare le necessità. E dovevano avvenire
veri e propri "accaparramenti" (da alimentare una specie
di mercato nero), se consideriamo i seguenti episodi.
In una abbazia di Montescaglioso, in Lucania, è stato rinvenuto
un tesoro, depositato verso la fine del XIII secolo, costituito soltanto
di monete d'argento d'ogni tipo. Di contro, in Toscana, nel 1925,
è stato trovato, presso Pisa, un tesoro costituito soltanto
da monete d'oro d'ogni epoca e d'ogni tipo, quali soldi bizantini,
tari siciliani, grossi d'oro di Lucca, fuorini, ecc. Si trattava chiaramente
di accaparramenti che servivano alle due parti per effettuare degli
scambi presentandosi la necessità.
Va detto, nondimeno, che lo squilibrio territoriale dei due metalli
pregiati sia stato anche eccessivamente drammatizzato per motivi di
mercato, come dire per rendere l'oro più accessibili e a minor
costo. Comunque, le circostanze storiche ed economiche condussero
gradualmente ad una rinascita dell'argento nell'Oriente islamico,
con conseguente coniazione argentea in tutto il Mediterraneo. Le coniazioni
auree, tuttavia, rimasero come un fatto di prestigio degli stati e
dei monarchi, ed è il caso dell'Augustale di Federico II, moneta
elegante (specie rispetto ai tari piuttosto grossolano) con il profilo
dell'Imperatore, l'aquila imperiale, i suoi poco più di cinque
grammi che le consentivano di svolgere la sua funzione di propaganda.
E questo è confermato dal fatto che l'Imperatore continuò
ad autorizzare la produzione degli "augustales" anche durante
le sue ben note difficoltà economiche e finanziarie più
spiccate tra gli anni 1220 e 1240. Non dimentichiamo che, come scrive
Arthur Haseloff in "Architettura sveva nell'Italia meridionale",
Federico, negli anni 1239-40, al fine di ridurre le spese, si vide
costretto a ritirare le sue guarnigioni da numerosi castelli, a sospendere
le costruzioni in corso, a confiscare tutti i tesori della Chiesa.
Ma l'oro oer coniare gli "augustales" doveva esserci sempre.
Non che l'oro dovesse rappresentare soltanto un mezzo di pagamento,
ma si trattava di un attributo reale, di una credenziale, di una etichetta
imperiale, tanto più che quel secolo vide una ascesa delle
monete d'argento verso una posizione più importante nella vita
economica nella sfera meridionale. Così l'argento nell'Italia
meridionale e in Sicilia determinò l'inizio di una nuova era
per le monete di queste regioni. Anche in questo caso Federico - che
accettò la svolta - si dimostrò monarca illuminato,
perché le monete d'argento migliorarono la reputazione internazionale
delle monete dell'Italia meridionale, trovando favorevoli anche i
successori degli Svevi, ossia Carlo d'Angiò II e Roberto il
Saggio.
Appare chiaro che la teoria della relatività è una costante
della nostra vita, per cui se l'oro vale di più dell'argento
come metallo, nella vita pratica, quella quotidiana che vivono milioni
e milioni di uomini, l'argento può avere una funzione preminente
e lasciare all'oro - sempre in senso relativo - la funzione di rappresentanza.
Pubblicità
La pubblicità ha origini remote. Non dobbiamo credere che il
martellamento cui ci sottopone la televisione sia l'invenzione di
solerti e creativi pubblicitari che posseggono le chiavi della persuasione
occulta e manifesta. Essi hanno soltanto aggiornato i loro metodi.
Quando non c'erano giornali, libri, manifesti murali, a circolare
erano soltanto le monete ed era sulle monete che si scriveva ciò
che il regnante di turno voleva che il popolo s'imprimesse bene nella
testa. Naturalmente si trattava di brevissime frasi elogiative del
monarca come "padre della vittoria" oppure "padre della
benignità" (vedremo in seguito nel dettaglio come, dove
e quando avveniva la coniazione di tali monete).
Sempre restando nella più remota antichità i nomi delle
persone avevano significato, ma, col tempo e con la mescolanza dei
vari popoli, si finì per perdere la traccia di questa primitiva
usanza. Ciò non avvenne nella lingua araba, ancor prima dell'islamismo,
per cui troviamo nomi che suonano; "servo del sole", "servo
di Dio", "servo del misericordioso iddio" e, se il
padre era ignoto, con molto spirito dicevano "figlio di suo padre".
Ma la strada era aperta ai soprannomi e di conseguienza ai titoli
onorifici, tanto che nella sfera araba i Califfi introdussero l'uso
di date tali soprannomi a titolo di onorificenza a uomini illustri
e benemeriti, nonché a quei Principi che riconoscevano il loro
dominio.
Qui ci viene spontanea una malignità, (peraltro, non è
il solo caso nella storia). E' verosimile pensare che tali titoli
fossero elargiti anche in cambio di denaro e comunque di favori. Qualcosa
come i titoli nobiliari elargiti dagli spagnoli a Napoli durante la
loro dominazione che vide accrescersi il numero di baroni e nel contempo
le riserve monetarie della corona. Quindi nel mondo arabo i Principi
amici si videro definiti "sostenitore della religione di dio",
"contenuto di dio" e gli uomini illustri "spada dell'impero",
"sostenitore del mondo e della religione".
Ma nulla vi è di più umano della vanità, del
piacere di essere ammirati, lusingati, riveriti, omaggiati, ecc. Per
cui anche i principi Tartari e Mongoli seguirono la stessa usanza.
Così il sultano di Romania, che in turco si chiamava "Leone
Nero", divenne in arabo "forza del modo e della religione".
L'usanza prese a dilagare e i principi cristiani di georgia e di Sicilia
cominciarono spesso a coniare monete con i soprannomi elogiativi.
I re di Georgia prendevano il soprannome di "splendore del monddo
e della religione" e quelli di Sicilia di "vittorioso"
o di "sostegno dei cristiani"; il Gran Khan dei Mongoli
divenne "imperatore del mondo" o "imperatore della
faccia della terra".
Qui ci si deve consentire una divagazione - anacronistica, ma pertinente
- che vuol ancora una volta sottolineare, oltre la vanità degli
uomini, la necessità della pubblicità. Il papa Clemente
XI, (1700-1721, siamo quindi in tempi relativamente recenti), forse
per compensare alcuni suoi errori diplomatici, compì, con i
suoi fondi, grandi opere di abbellimento di Roma e gran parte di esse
le ricorda nella sua monetazione. Il nuovo portico con statue di S.
Maria in Trastevere lo ricordò in una piastra del 1702; i lavori
all'obelisco e alla piazza del Pantheon li legò a mezza piastra
del 1711 e a due piastre del 1713; i restauri alla chiesa di S. Teodoro
al palatino sono ricordati da una piastra del 1703; il porto di Ripetta
sul Tevere da una mezza piastra del 1706; il ponte di Civitacastellana
da una piastra del 1711 e le numerose opere pubbliche effettuate nella
sua città natale, Urbino, il Papa le legò a un testone
del 1705 e ad una mezza piatra dello stesso anno. Va detto, a onor
del vero, che prima di lui, il suo predecessore, Clemente X, aveva
fatto coniare una piastra per ricordare i lavori al Porto di Civitavecchia.
In parole povere il buon Clemente XI diceva ai suoi fedeli: Vedete
come sono bravo? E lo diceva con le monete.
Ma attenzione, il vizietto della vanità è antico, lo
abbiamo già detto e qui non si vuol dare addosso ai papi perché
va ricordato quante e quante volte gli imperatori romani, sempre sulle
monete, si definivano "invictus", "optimus" e
"pater patriae.
Non basta, perché anche loro ricordavano le imprese eccellenti,
non soltanto militari, come Domiziano, che su un sesterzio fece scrivere
che era stato l'autore dei giuochi secolari (Ludos saeculares fecit)
e lo stesso nerone che su un altro sesterzio scrisse: "Pace populi
romani terra marique porta Ianum clusit" per ricordare la dichiarazione
della pace universale dell'anno 66, in occasione della quale la cerimonia
comportava la chiusura delle porte del tempio di Giano che restavano
aperte in tempo di guerra. E, per la parte scenografica, la moneta
reca, sul rovescio, l'immagine del tempio del dio bifronte.
Entriamo ora nel vivo di una questione che ci sta più a cuore,
perché riguarda l'Italia, dominata - specie nel meridione -
da vari popoli tra cui, il modo più massiccio, nei secoli che
c'interessano, dai Normanni e dagli Svevi. Qui bisogna subito dire,
senza scendere in dettagli che richiederebbero pagine e pagine, che
i Normanni nella gestione dello Stato avevano risentito molto dell'influsso
arabo sia nella organizzazione della corte, sia nei titoli, nel cerimoniale,
nella cancelleria e, infine, nella coniazione delle monete, sulle
quali non disdegnavano sovente di autodefinirsi Emir, alla maniera
araba, pur essendo principi, conti o governatori cristiani. E cominciamo
col dire, parlando per ora dei normanni, che i tre personaggi di maggiore
spicco, Ruggero, Guglielmo I e Guglielmo II ebbero, accanto al nome
occidentale, un titolo arabo al pari dei Califfi.
Ruggero era "L'esaltato per grazia di dio": Guglielmo I
"Quei che guida secondo l'ordine di dio"; Guglielmo II "Quei
che cerca la sua esaltazione in dio".
E tutto questo era scritto sulle monete. Una bella pibblicità.
Non si vuole peccare di irriverenza nei confronti di questi grandi
personaggi della storia, ma come non sorridere dinnanzi a quella moneta
chiamata dirhem coniata a Palermo nel 1197 cui si legge, scritto in
cufico, "Il re - Federico - il potente? A quella data Federico
II di Svevia aveva tre anni e quindi, verosimilmente, quel "potere"
poteva intendersi che era un fanciullino vivace che faceva disperare
la baby-sitter.
Ancora nel 1198 - Federico sempre in tenera età - troviamo
un denaro brindisino che definisce, in latino e in cufico, Federico
re di Sicilia".
Il Cufico
Abbiamo visto che, nei secoli che ci interessano, le monete, anche
quelle ricadenti fuori dalla sfera musulmana, recavano iscrizioni
in cufico. Ma cos'è questo cufico? Nient'altro che arabo, che
invece di presentarsi con una grafia ad andamento rotondo, diciamo
corsivo, si presenta ad andamento angolare. pensate a una nostra vocale
"a" scritta in corsivo e scritta in maiuscolo a stampa e
noterete la grande differenza. Non è qui il caso di ricordare
che la parola cufico discenderebbe dalla città di Kufa in Iraq,
anche perché pare che tale modo di scrivere fosse anteriore
alla fondazione di quella città avvenuta nel 636 dell'E.V.
Ciò che più incuriosisce è perché una
così vasta diffusione del cufico (ossia della scrittura araba)
fuori della sfera musulmana.
Abbiamo già detto che era un modo dei regnanti di farsi pubblicità,
di dire al popolo quanto fossero bravi, belli e buoni, amati da dio
e amanti di dio, potenti e vittoriosi e, come Tancredi, "vittorioso
per grazia di dio", "riverito e onorato", ma questa
spiegazione non basta. Perché avevano quasi tutti scelto di
farsi questa propaganda in arabo in maniera massiccia, con pochi spiragli
aperti al greco e al latino?
Prima di dare una risposta dobbiamo aprire una parentesi storica.
Era la seconda metà del X secolo (952-975) e il califfo Moez
coniava una moneta d'oro (il moezzino) che godeva alta stima per la
purezza del metallo ed era preferita ad ogni altra anche negli scambi
diciamo "internazionali". Ciò comportò, come
sempre, un espediente truffaldino da parte di Gisulfo I, principe
di Salerno, che fece contraffare i moezzini. Fu l'inizio di una lunga
serie di imitazioni più o meno impegnate formalmente, quasi
sempre meno nella purezza del metallo. Ma lo scopo era un altro: una
maggiore penetrazione.
Quando l'Occidente fu investito dalla civiltà araba, si ritrovò
dinnanzi, oltre una nuova religione, una nuova filosofia che, in parte,
aveva riesumato quella classica ossidatasi sotto interessi confessionistici.
Chi di noi non cuistodisce nelle reminescenze scolastiche quell' "Averrois
che il gran commento feo", quell'Averroè che col suo commeno
alle opere di Aristotele, tradotto in ebraico e in latino, esercitò
grande influenza sul pensiero medievale? E nella memoria ci è
rimasto Avicenna, che come filosofo segue la dottrina di Al Farabi,
un aristotelismo, anche qui, con influenze neoplatoniche. E con la
filosofia giunse una matematica più snella, più pratica,
più accessibile con quei numeri indo-arabi portati in occidente,
per primo, da Gerberto d'Aurillac (divenuto poi papa Silvestro II)
che, nondimeno, li rinchiuse nelle biblioteche dei monasteri, non
vedendone l'uso pratico. Ma la praticità di quei numeri fu
vista dal figlio di un commerciante, introdotto alle matematiche da
arabi del Nord Africa, dove seguiva il padre nei suoi viaggi d'affari.
Si tratta niente meno che di Leonardo Fibonacci da Pisa, il grande
matematico, figlio di Bonaccio, mercante pisano.
E con la matematica, resa più accessibile con i numeri arabi,
giunse una astronomia complemente rivisitata, perfezionata, approfondita
(ho un elenco di trenta astronomi arabi che vanno da una dei primi,
Almamun (786-833)b ad uno degli ultimi, El Magrebi, morto nel 1285).
E giunsero la poesia araba ed una valutazione della donna che capovolse
la sua collocazione nella società e schiuse quella visione
della femminilità che ispirò l'amor cortese che, per
la prima volta, poneva la donna su un piedistallo, adorandola come
una dea. Va ricordato che la mistica sufica include l'amor terreno
idealizzato quale mezzo per conseguire la perfezione spirituale, e
la contemplazione di Dio nella donna è la più perfetta.
E il cammino continua con i poeti del dolce stil nuovo. E, sovrana,
giunse l'architettura. Ancora oggi, ad oltre mille anni di distanza,
basta andare in Sicilia o in Spagna per restare incantati dinnanzi
all'eleganza di quelle forme che racchiudono inequivocabilmente una
grande spiritualità.
Fu quella spiritualit࣠della civiltà araba che
suggestionò, soggiogò, catturò ipnotizzandoli
gli uomini dell'Occidente. La civiltà araba conquistò
l'Europa ed i suoi regnanti che, istintivamente, cercarono una identificazione
per spartirne il prestigio, non trascurando un tentativo di surretizia
penetrazione.
Questo spiega la diffusione dei caratteri arabi e più precisamente
del cufico, che in sé, non ha nulla di magico, ma è
simbolo di quel vento d'Oriente che porta con sè spiritualità,
classe, eleganza e quindi inevitabile dominio.
aldo tavolaro
Il giovane
Kircher
Ultimo di nove
figli, Athanasius Kircher nacque alle tre del mattino del 2 maggio
1602 a Geisa, un villaggio vicino Fulda. Suo padre Johann, strana
figura di laico professore di teologia, aveva addirittura insegnato
in un monastero benedettino dalle parti di Heiligenstadt ed era riuscito
a collezionare, nel corso degli anni, una ricca biblioteca che sarebbe
andata perduta durante la Guerra dei trent'anni. Venuto al mondo sotto
il segno del toro, il più piccolo dei Kircher apparve ai suoi
genitori - ed in seguito a se stesso - contrassegnato da benefici
influssi astrali: mite, paziente e, tuttavia, abbastanza avventata
di temperamento; il cognome già collaudato nella carriera paterna
che gli avrebbe, senza dubbio riservato uin destino d'uomo di chiesa;
la scelta di battezzarlo come il santo del giorno di nascita a garanzia
di longevità e buona sorte nei pericoli; tutto costituiva un
fortunato e benaugurante tema natale, quasi i termini di un progetismo
biografico scandito da vicende davvero eccezionali.
Fu senza intenzioni, la sua, una via cattolica e tutta personale a
testimoniare la ricaduta della grazia divina sull'uomo, una versione
anticalvinista e antiweberiana della fortuna, un riscontro continuo
e persuasivo che la Provvidenza esiste, eccome. Quella della sua giovinezza
era forse una Germania vitalissima anche se tempestosa, costellata
- come vedremo - di violenza ma anche di incredibili episodi di umanità;
un mondo in cui un giovane scolaro del collegio di Fulda, precoce
e brillante come lui, poteva essere mandato a lezioni di ebraico presso
un rabbino del luogo per rinforzare il proprio curriculum studiorum.
Una Germania che ormai non c'è più e che nel racconto
del vecchio gesuita ci suona cara e familiare.
Da bambino Athanasius sfuggì alla morte almeno in quattro occasioni,
e tutte le volte in circostanze spettacolari e prodigiose. In realtà
tutta la sua infanzia fu tempestata di fatti e coincidenze che egli
avrebbe riportato nelle sue memorie illuminandoli di un travolgente,
tenero, a tratti ingenuo alone aneddotico che rivelano ancor oggi
il temperamento sanguigno del protagonista.
Un giorno afoso d'estate, nuotando nella vasca di un mulino ad acqua,
fu rapito dalla corrente e trascinato, sotto gli occhi terrorizzati
dei compagni di gioco impotenti a trarlo in salvo, fin dentro le pale
della ruota. Ma quando ormai gli altri si aspettavano di vederlo rimergere
dall'altra parte della roggia maciullato dagli ingranaggi, egli apparve
fra la schiuma senza alcun danno se non un brutto spavento.
Qualche settimana dopo, in paese si stava svolgendo una corsa di cavalli.
Il piccolo Athanasius, sfuggito al controllo della madre, andò
a godersi la gara proprio in prima fila lungo il percorso, facendosi
largo fra la ressa dei curiosi e degli scommettitori. All'improvviso
fu spinto dalla folla in mezzo alla pista proprio mentre i palafreni
scattavano al segnale del mossiere. Molti, mordendosi le mani per
il raccapriccio, lo videro rotolarsi in una nube di polvere sotto
gli zoccoli mortali; ma il ragazzino si rialzò incolume subito
dopo, anche se un po' stordito.
La terza volte che la fece franca fu al ritorno da una delle sue frequenti
fughe dal collegio, allorché come Pinocchio aveva marinato
le lezioni per assistere ad una rappresentazione di attori girovaghi
in una cittadina a due giorni di cammino da Magonza, dove nel frattempo
era passato a frequentare il locale collegio dei gesuiti. Perdutori
di notte nella foresta, per paura degli orsi, dei cinghiali e dei
briganti non trovò di meglio che arrampicarsi su un albero
e lì aspettare l'alba in un dormiveglia guardingo.
Evidentemente lo spirito di erlebniss fu in lui prepotente e irrefrenabile
se in un rigido giorno d'inverno del 1617 uscì dal suo studiolo
e andò a pattinare su uno stagno ghiacciato: ne trasse un bel
principio di congelamento ai piedi che fece temere gli si dovessero
amputare gli arti. Stette a letto per parecchi mesi tra la vita e
la morte, anche perché un'ernia addominale si aggiunse alla
cancrena e fece disperare per la sua salvezza i maestri e gli altri
scolari. Ma una notte si destò di soprassalto e, stringendo
fra le mani il rosario, pregò trepidante la Santa Vergine che
gli venne in soccorso misericordiosa, perché ebbe inizio una
benefica crisi di sudorazione seguita da un sonno profondissimo. Il
mattino seguente l'ernia si era riassorbita e le piaghe e il turgore
dei piedi miracolosamente dissolti. Kircher avrebbe sempre ricordato
nelle sue memorie questi eventi come qualcosa di prodigioso che, inaspettatamente
ma provvidenzialmente, lo avevano fatto sentire sotto l'ala protettrice
del Signore nei momenti più critici della sua esistenza.
Terminati gli studi a Magonza, nel 1618 Athanasius si trasferì
a Paderborn, ove fu accolto come novizio dalla Compagnia di Gesù.
Furono due anni che sopportò a stento come una tappa necessaria
alla propria formazione, durante i quali si accorse del divario culturale
che si andava allargando tra la propria intelligenza e la mediocrità
dei compagni. per non parlare delle incomprensioni con i docenti che
lo consideravano testardo e scavezzacollo. A quel loro allievo dallo
spirito libero, i cattedratici pedanti non perdonavano la curiositas
che pure la regola dell'ordine riconosceva a ciascun gesuita purché
subordinata al rispetto per la gerarchia. E per quanto anarcoide e
bislacco, il giovane Kircher si risolse sempre all'obbedianza, anche
quando questa consegna appariva assurda e mortificante.
Poi, finalmente, nel 1620 prese gli ordini religiosi ed iniziò
gli studi di filosofia che dovette, però, ben presto interrompere
bruscamente per lo scoppio della Geurra dei trent'anni. Alla fine
del 1621, infatti, il Duca Cristiano di brunswick aveva cinto d'assedio
e bombardato Paderbon: non c'era, per i seminaristi, nulla di buono
da sperare da questo principe luterano che si era proclamato nemico
giurato dei cattolici e particolarmente dei seguaci di Ignazio di
loyola. E così, dopo aver provato la fame e il terrore per
la soldataglia protestante, nel gennaio del 1622 Athanasius convinse
altri due confratelli che non era il caso di attendere l'irruzione
dei lanzichenecchi. I tre si travestirono da laici, scivolarono di
notte oltre i bastioni con delle funi ed iniziarono un'avventurosa
fuga per le campagne, appena in tempo per non farsi sgozzare insieme
agli altri gesuiti nelle sale del collegio. Febbricitanti e senza
un pfenning per sfamarsi in qualche locanda, i fuggitivi vagarono
per altrettanti giorni per i boschi e i campi, con la neve fino alla
cintola, pietendo circospetti l'elemosina per borghi e cascinali più
poveri di loro, finché, quando ormai tutto sembrava perduto,
furono ospitati e rifocillati nel castello di un nobile cattolico.
Muniti di salvacondotti per attraversare le linee di guerra, giunsero
dopo una settimana a Munster. Da lì i partigiani cattolici
che li presero in consegna, dopo il solito ristoro precipitoso, consigliarono
Kircher e compagni di prendere alla svelta la via di Colonia.
Allora toccò loro fungersi nuovamente viandanti; traversarono
Düsseldorf e marciando a tappe forzate verso occidente arrivarono
sulle rive del Reno ghiacciato, incerti se dirigersi verso un vicino
ponte col rischio di essere identificati dai luterani, oppure azzardare
la traversata a piedi sul ghiaccio. Non fu una decisione facile: alla
fine diedero rettaa dei contadini che avevano loro assicurato non
esserci alcun pericolo. Ma mentre erano a mezza via, accadde ciò
che si era temuto: la crosta si spaccò e Athanasius cadde nell'acqua
gelida mentre gli altri due chiamavano aiuto a squarciagola e già
piangevano dando per spacciato l'amico. Si ripeté, invece,
il miracolo del mulino, e Kircher riemerse sbuffando dalle acque del
fiume, cerò più volte di aggrapparsi al banco di ghiaccio
e, all'ennesimo tentativo ebbe partita vinta sul Vater Rhein.
Per tre ore arrancò intirizzito fra canneti aguzzi come lance
e interminabili ghiaioni, lottando contro l'assideramento, infine
trascinato dai compagni: poi, anche questa brutta avventura ebbe il
suo lieto fine e i fuggiaschi varcarono il portone della domus professa
di neuss, ove li accolsero l'affetto dei confratelli, il fuoco scoppiettante
di un grande camino e un pasto caldo dopo giorni di inedia e peripezie.
Neuss era un primo porto sicuro sulla rotta per Colonia, ma ancora
troppo esposto alle pattuglie del brunswick che incrociavano a cavallo
lungo gli argini di quel gelido confine d'acqua fra due mondi sempre
più lontani. perciò, tre giorni dopo, lasciati i suoi
compagni di fuga in quell'avamposto cattolico, Athanasius riprese
il cammino per Colonia dove avrebbe ripreso gli studi laureandosi
in filosofia.
L'anno seguente fu trasferito a Coblenza per proseguire la formazione
umanistica; e in quella città avrebbe iniziato pure il suo
magistero nella locale scuola gesuita. Qui finalmente poté
dissimulare l'habitus di aurea mediocritas, che si era fino ad allora
imposto, mostrandosi in tutta la propria statura intellettuale. Ma
i suoi meriti gli attirarono presto le invidie dei colleghi che riuscironoa
trasferirlo nuovamente nella città ove aveva insegnato tanti
anni prima il padre Johann: Heiligenstadt.
Il viaggio in territorio protestante si annunciava davvero pericoloso,
ma Kircher non aveva alcuna intenzione di rinunciare all'uniforme
della Compagnia di gesù: disse agli ipocriti superiori di Coblenza
che avrebbe preferito morire piuttosto che attraversare indisturbato
le linee piene di incognite in abiti laici: una bella risposta a chi
gli stava dando il benservito spedendolo a nuova destinazione per
la porta dell'inferno.
Neanche a farla apposta, dopo poche miglia che ebbe percorso nella
valle della Mosella, fu intercettato da una pattuglia di luteranio
che lo malmenarono, lo rapinarono e, per dileggio, lo spogliarono
dell'abito alare. Fu un pomeriggio da incubo in balia di quella teppaglia
che si passava la botticella di vin bianco rubata in qualche fattoria
dei dintorni; e più aumentava l'ubriachezza di quegli scalmanati,
più forti e frequenti erano le bastonate che davano al prete.
Alla fine della giornata Athanasius, più morto che vivo, udì
incredulo la sentenza che lo condannava all'impiccagione, intercalata
da rutti e bestemmie da colui che sembrava il presidente di quella
improvvisata corte di giustizia sommaria. Fu tirato su dagli sgherri
che gli misero il cappio al collo. Athanasius, allora, fece appello
all'ultimo coraggio che gli restava e iniziò a pregare cantando
ad alta voce il Salva Regina. E mentre due soldati stavano per dare
lo strattone fatale alla corda, un altro commilitone intervenne urlando
e chiedendo di sospendere l'esecuzione, forse commosso da quella figura
di giovane novizio che affrontava con calma e dignità la morte.
Non solo gli fu risparmiata la vita, ma gli furono restituiti anche
gli abiti e i libri prima sottrattigli. E quando ormai il drappello
ondeggiante sembrava essersi allontanato nel bosco, il soldato pietoso
che lo aveva salvato persuadendo i compagni tornò indietro,
gli lasciò del denaro e si dileguò unendosi agli altri.
Heiligenstadt fu raggiunta senza ulteriori incidenti. Qui Kircher
tornò a fare il professore insegnando matematica, ebraico e
siriano. Aveva solo ventitre anni, ma già appariva presso i
superiori come uno straordinario umanista. Un giorno capitò
in visita al collegio l'Arcivescovo Elettore di Magonza ed in suo
onore Kircher allestì un mirabile spettacolo di fuochi pirotecnici
e macchine semoventi frutto dei suoi studi di meccanica. La prima
impressione della curia itinerante fu di trovarsi di fronte ad uno
straordinario eppure seducente malefico di magia nera, finché
il giovane gesuita non spiegò il funzionamentop di quell'incredibile
apparato, cosa che gli valse l'ingaggio immediato da parte del presule
che lo portò con sè nel suo castello di Aschaffenburg.
L'Arcivescovo, infatti, cercava da tempo qualcuno che mettesse a punto
delle kuriositatem per la sua corte e compilasse una relazione descrittiva
del principato, lavoro che Kircher completò in soli tre mesi.
Fu in quest'ambiente tranquillo, ove non gli mancarono finanziamenti
alle proprie ricerche sul magnetismo, che fu redatto il manoscritto
di quella che sarebbe stata la sua prima opera a stampa, l'Ars Magnesia
(1631), teoria di una visione della natura che gli avrebbe applicato
al fenomeno del tarantismo nel Magnes sive de arte magnetica (1641)
contenente altresìle partiture della iatromusica trascritte
dai suoi corrispondenti salentini, i padri Nicolello e Galimberto.
Poi, alla morte dell'Elettore porporato, tornò a magonza, ufficialmente
per continuare gli studi di teologia, in realtà intento a studiare
le macchie solari con un telescopio che si era procurato sin dal 1625.
Nel 1628 fu ordinato sacerdote ed entrò nel suo terziariato
a Spira. Fino a questo momento i suoi interessi precipui erano stati
di carattere scientifico, ma all'improvviso un nuovo mondo di studi
filologici gli si spalancò davanti quando, in un libro sull'obelisco
Sistino, egli si imbattè per la prima volta nelle immagini
dei geroglifici. Questa lettura pose in lui le basi per quella che
sarebbe stata una passione costante della sua vita: il mondo dell'entico
Egitto. Queste ricerche avrebbero dato forma ad una monumentale serie
di scritti sull'argomento: Prodromus coptus sive Aegyptiacus (1636),
Lingua Aegyptiaca restituta (1643), Rituale ecclesiae Aegyptiacae
sive cophitarum (1647), Obeliscus Pamphilius (1650), Oedipus Aegyptiacus
(1652-1654) in tre volumi, Obeliscus aegyptiacus (1666), Sphinx mystagoga
(1676).
Tuttavia, presto dovette lasciare Spira e recarsi a Würzburg.
Indubbiamente frustrato dalla sua carriera di clericus vagons, tentò
una svolta alla propria vita ed un diversivo allo spettro della nuova
destinazione chiedendo di poter partire come missionario in Cina,
ma la sua istanza fu rigettata e dovette accontentarsi di allestire
una collezione per i reperti artistici ed etnografici che gli venivano
spediti da altri gesuiti recatisi in quel lontano paese. Nel frattempo
gli eventi interni della germania precipitavano con l'invasione dell'armata
svedese. Proprio in questi giorni Athanasius ebbe un sogno premonitore:
si svegliò di soprassalto e, affacciatosi alla finestra, vide
il cortile del collegio occupato da una folla di soldati. Destò
gli altri confratelli ma questi, seccati, tornarono a dormire perché
dabbasso non c'era nessuno. Kircher si convinse di aver avuto un'allucinazione,
ma si sbagliava perché in quelle stesse ore l'esercito di re
Gustavo Adolfo aveva fatto ingresso in territorio tedesco. Di li a
pochi giorni gli eventi precipitarono: il collegio fu occupato e messo
a soqquadro dagli scandinavi e Kircher fu costretto a fuggire con
il suo fedelissimo segretario Caspar Schott lasciandosi dietro tutti
i propri manoscritti. Entrambi trovarono rifugio ancora una volta
a Magonza e, fortunatamente per il futuro di Kircher, i superiori
lo lasciarono partire per la Francia, paese che percorse passando
per Lione stabilendosi finalmente ad Avignone dove tenne lezioni di
matematica, filosofia e lingue orientali. Proclive, come suo solito,
alle disavventure, Athanasius per poco non morì fra le stesse
mura del collegio gesuita risucchiato da un vortice d'acqua che la
sua morbosa curiosità per le scienze naturali lo aveva portato
a studiare troppo da vicino.
Ad Avignone fece ingresso nel mondo cosmopolita degli uomini di cultura
del tempo grazie all'incontro con Nicolas Claude Fabri de Peiresc,
un ricco mecenate che aveva già sentito parlare di lui e della
sua bravura nelle lingue antiche. Peiresc, che possedeva dei papiri,
invitò Kircher ad aiutarlo nella loro decifrazione; a tal uopo
gli procurò dei libri ed una copia della Tavoletta Bembina
di Iside; in cambio il tedesco gli prestò dei vari volumi della
biblioteca del collegio di Spira.
La loro ricerca in tandem era a buon punto quando, nel 1633, Kircher
ricevette l'onore poco gradito di un incarico di docenza a Vienna
per succedere al ruolo di matematico di corte lasciato vacante da
Giovanni Keplero, morto due anni prima. Mentre Athanasius faceva i
bagagli per il viaggio alla reggia degli Asburgo, Peiresc scrisse
vibranti lettere di protesta al papa Urbano VIII e al cardinale Barberini,
ma l'amico dovette partire; e poichè la Germania era ancora
malsicura per un gesuita, Kircher decise di viaggiare attraverso l'Italia
settentrionale. Si imbarcò, quindi con alcuni confratelli alla
volta di Marsiglia, ma durante la navigazione tutti i religiosi si
amalarono, evento che spinse il comandante del battello a far sosta
su un'isoletta con la scusa di qualche ora di riposo, a scaricare
gesuiti e a ripartire con tutti i loro averi facendo perdere le sue
tracce. Furono salvati da una barca da pesca che li portò fino
a Marsiglia, molo da cui partirono per Genova su una nave comandata
questa volta da un galantuomo.
Ma ripresero le peripezie alle quali Kircher era da sempre abituato:
una tempesta li trattenne per tre giorni in una caletta riparata;
poi il mare si calmò e salparono nuovamente, ma una seconda
burrasca li rigettò sulla costa dove il capitano evitò
per un pelo di sfracellarsi sugli scogli pilotando con perizia la
nave dentro un'angusta caverna. Finalmente raggiunsero Genova: lì
Kircher si trattenne per due settimane, senza alcuna fretta di raggiungere
l'Austria. Si imbarcò, anzi, per Livorno e puntualmente, in
pieno Tirreno, scoppiò un altro fortunale che sospinse il veliero
fino in Corsica.
Provvidenzialmente - si fa per dire - il vento girò da maestrale
con una forza incredibile e riportò l'avventuroso gesuita presso
le coste italiane. Non a Livorno, però, ma in vista del porto
di Civitavecchia dove la nave trovò scampo al rischio di un
naufragio. Allora Athanasius pensò bene di rinviare la partenza
per vienna e farsi una gitarella a Roma.
Era il 1635, ed entrando nella Città Eterna scoprì con
sorpresa che lì era atteso da molte settimane: la supplica
di Peiresc aveva avuto successo, ma non per farlo tornare in Provenza,
bensì per assegnarlo al Collegio Romano, il sancta sanctorum
della Compagnia di gesù, con l'incarico particolare di studiare
i geroglifici. Roma sarebbe stata la sua dimora fino alla morte, avvenuta
all'età di 78 anni il 27 novembre 1680.
gino l. de mitri
LE PRINCIPALI BIBLIOGRAFIE DI A. KIRCHER
- G. J. Rosenkranz, Aus dem Leben des Jesuiten Athanasius Kircher
1602-1680, in "Zeitschrift für vaterländische Geschichte
un Alterthumskunde", vol. 13, n. 9, 1852, pp. 11-58.
- N. Seno, Selbstbiographie des P. Athanasius Kircher aus der Gesellschaft
Jesun Fulda 1901 (traduziuone dal latino).
- G. Richter, Athanasius Kircher und seine Vaterstadt Geisa, in "Fuldaer
Geschichtsblätter", vol. 2, 1927, pp. 49-59.
- R. Major, Athanasius Kircher, in "Annals of Medical History",
vol. 1, 1939, pp. 105-120.
-J. Godwin, Athanasius Kircher, A. Renaissance Man and the Quest for
Lost Knowledge, Londra 1979.
L'epopea protestante
La rilettura degli
autori Giorgio Tourn e Giorgio Bouchard sugli avvenimenti che hanno
costellato la storia del pensiero umano e che hanno portato all'evoluzione
del giudizio filosofico del concetto di religione ci pone nella sofferta
considerazione del tempo da noi perduto nei confronti dei grandi movimenti
di opinione che hanno soltanto sfiorato la nostra nazione, soprattutto
a causa della nostra impalcatura politica a partire dalla fine del
secolo XII.
La rilettura dei temi dibattuti da uomini che malgrado tutto avevano
rivendicato la libertà di revisione di alcuni dogmi, dicevamo,
ci rimanda al vero precursore di quella svolta storica che va sotto
il nome di "riforma protestante".
Infatti, nell'anno 1173 un cittadino di Lione, di nome Valdesio, usuraio
di professione, misto alla folla che in quel momento stava ascoltando
un trovatore, improvvisamente convinto dalle sue parole lo invitò
a casa per ascoltarle più attentamente. Impressionato dai concetti
di quel girovago, l'indomani Valdesio si portò alla scuola
di teologia per chiedere consiglio sulla salvezza della sua anima.
Il maestro teologo glielo diede citando una frase del Signore: "Se
vuoi essere perfetto vai e vendi tutto ciò che hai ... ".
Abbiamo raccontato il fatto come introduzione al tema sui movimenti
protestanti ricavato dalla nutrita bibliografia del teologo Giorgio
Tourn e in particolare dal libro I Valdesi, la singolare vicenda di
un popolo Chiesa.
L'aneddoto storico può indicare in Valdesio da Lione l'antesignano
dei movimenti protestanti d'Europa. Un popolo Chiesa, ossia l'inizio
di quella linea di pensiero che determinò lo sviluppo di una
generale scuola filosofica la cui portata fu determinante per l'identità
nazionale dei popoli di Francia, Germania e Inghilterra. Anche in
Italia, sia pure lentamente, sorsero comunità cristiane riformiste:
ricordiamo le Comunità valdesi in Piemonte e nella Savoia oltre
che in Calabria e nel Lazio. Tutti movimenti che subirono la reazione
spesso violenta della Chiesa di Roma. Riferimenti e documenti storici
parlano di repressione cruenta con massacri indiscriminati.
La predicazione dei Valdesi, durata tre secoli, è la testimonianza
di una latente crisi spirituale nel cuore di quella civiltà
potente e organizzata che è l'Europa cattolica dinanzi alla
quale le vecchie civiltà dovranno "inchinarsi".
La scoperta dell'America ad opera di Cristoforo Colombo segnò
la fine di un millennio occidentale. Quella data, 1492, segnò
l'inizio dell'era moderna dando luogo ai grandi movimenti riformatori.
Da più parti l'interpretazione dei vangeli viene messa in discussione.
Le avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto si ebbero quando
la Santa Inquisizione riuscì metodicamente a emarginare la
protesta valdese contro papa Silvestro I che, accettando "la
donazione di Costantino", trasformò la Chiesa in uno dei
tanti poteri temporali dell'epoca. Registrata l'emarginazione dei
Valdesi, sorse nel cuore dell'Europa cattolica, 67 anni prima dell'era
colombiana, un movimento di protesta sostenuto dalla predicazione
del boemo Jan Hus sulla scia di un inglese, John Wyclif, ma appoggiata
da un movimento popolare: e allorquando Hus viene condannato, il movimento
diventa rivoluzione. Questo moto rivoluzionario fu represso e il suo
animatore portato sul rogo. Il moto di Hus però fu solo il
preludio di quello che avvenne con la fine del Medio antico, suggellato
dalla scoperta del Nuovo Continente.
La svolta epocale si chiamò Erasmus da Rotterdam, seguito dalla
tempesta chiamata Lutero. Seguì poi Giovanni Calvino che, riassumendo
le idee generali della riforma, scrive un libro che si chiamerà
L'istituzione della religione cristiana.
Calvino, a differenza di Lutero, monaco, è un laico uscito
dall'università. Uomo moderno, compreso di cultura umanista
e quindi profondamente protestante.
A differenza di Lutero, che rivendica la libertà generica del
cristiano, il fondamento filosofico di Calvino è nella razionalità
della disciplina, senza la quale non vi può essere vera vita
cristiana. Abbiamo omesso altri protagonisti che nel comune intento
di riformare la Chiesa hanno suggellato la nascita di una nuova società
più libera nella propria coscienza religiosa.
Nel frattempo, in Italia, dopo il Concilio di Trento, si continuò
a reprimere ogni anelito di riscatto, ristabilendo l'egemonia imperante
della Chiesa cattolica, che divenne virtualmente religione di Stato.
Tutto ciò fu confermato politicamente nel XX secolo con il
Concordato del 1929. Una timida apertura alle altre confessioni cristiane
fu sancita dalla Costituzione repubblicana, completata con il secondo
concordato stipulato con Craxi, presidente del Consiglio. Resta comunque
un fatto: la Chiesa di Roma con il suo integralismo ha impedito che
l'Italia partecipasse a quell'evento riformatore mercé il quale
sorsero le democrazie operanti con i propri popoli, che divennero
padroni del proprio destino con quel pensiero laico, unico a sviluppare
nelle coscienze individuali e collettive un ampio respiro di una sempre
più vasta cultura.
A noi tutto questo è mancato, ritardando il nostro sviluppo
sociale per oltre due secoli con le conseguenze politiche e culturali
che sono sotto gli occhi di tutti coloro che anelano, forse ormai
inutilmente, alla liberazione delle coscienze verso una cultura genuinamente
laica.
fulvio summaria
Holding mafia
La stima di Newsweek
Report valuta il business complessivo delle mafie di tutto il mondo
in un milione di miliardi di dollari. Il crimine organizzato è
l'attività economica predominante nel mondo. I traffici di
droga e di armi occupano rispettivamente il primo e il secondo posto
tra le fonti di reddito, superando perfino l'industria petrolifera.
Il Fondo monetario internazionale ha stimato che circa 700-1.000 miliardi
di dollari sono sottratti alle finanze mondiali. Il narcotraffico
era stimato pochissimi anni fa in 310 miliardi di dollari; nello stesso
periodo di tempo il giro d'affari delle tre principali società
americane, la Esso, la Ford e la General Motors, era di circa 330
miliardi di dollari.
Non è una singola organizzazione criminale ad essere responsabile
dell'ammontare di questo giro d'affari illegale. C'è una quantità
di grandi associazioni a delinquere, quali la "Hong Kong-based
Triads", il "Call cartel" della Colombia, la "Mafia"
italiana, la giapponese "Yakuza", la russa "Vorl v.
Zakonye", e gli affiliati neo-venuti e rapidamente impiegati
gruppi criminali west-africani. Comunque, è largamente riconosciuto
che questi gruppi criminali si sono accordati per massimizzare le
loro operazioni.
Mentre la maggior parte degli Stati nazionali è impreparata
di fronte ai cartelli internazionali del crimine, l'economia mondiale
è diventata globale e più liberale. Migliaia di miliardi
di dollari, di marchi, di yen sono giornalmente scambiati con transazioni
elettroniche. Le organizzazioni criminali hanno immense risorse a
loro disposizione, e ciò le mette in grado di fare uso di moderne
e sofisticate tecnologie, nelle loro operazioni che includono traffici
di droga, di armi e di organi umani, furto internazionale d'auto,
contrabbando di immigrati, crimini ambientali, lavaggio e riciclaggio
di black money, traffico illegale di opere d'arte. Le somme di denaro
guadagnate sono tali che i cartelli criminali transnazionali sono
diventati il fattore predominante della finanza mondiale. Sono stati
persino capaci di influire sui destini di alcuni Paesi, portando a
livelli critici il loro sviluppo economico e sociale.
La risposta delle nostre società democratiche a questa minaccia
illegale deve: 1) combattere la flessibilità, l'inventiva e
il potere dei cartelli del crimine; 2) migliorare la legislazione
nazionale. Fra l'altro, l'analisi scientifica del fenomeno mafia è
molto esigua. La maggior parte dei Paesi si limita alla registrazione
delle azioni criminali e non analizza sistematicamente le organizzazioni
che stanno dietro. Il miglior modo di combattere le mafie è
quello di combattere le organizzazioni stesse, e non i singoli delitti,
che spesso sono commessi da criminali di rango inferiore. Qualche
successo è stato ad esempio raggiunto analizzando i flussi
dei trasferimenti di denaro effettuati dalle mafie e intercettandoli.
Dunque, ciò che occorre è una "mappa" del
crimine organizzato, basata su una banca dati computerizzata dove
vengano registrati tutti i dati che emergono da un'analisi scientifica
del fenomeno.
Le mafie internazionali possono essere combattute con successo solo
se gli organi di sicurezza sono disponibili alla cooperazione mondiale.
Pertanto, sono necessari nuovi trattati e accordi internazionali che
coinvolgano tutte le comunità, e accordi bilaterali di reciproca
assistenza in campo giudiziario. Ad esempio, la validità dell'azione
di task force bilaterali e reciproche è stata testimoniata
dall'Operazione Green Ice,nel 1992, quando le forze di polizia appartenenti
a sette Paesi di tre continenti effettuarono oltre 200 arresti, dopo
avere individuato i piani di un'alleanza tra Cosa Nostra Siciliana
e Call Cartel colombiana.
La cooperazione pratica deve comprendere: lo scambio di manuali che
illustrino le procedure nazionali; la designazione di "Autorità
centrali per la mutua assistenza giudiziaria"; la formazione
di task force congiunte; l'identificazione dei tecnici più
qualificati per lo svolgimento delle procedure d'indagine; l'impegno
di avanzate tecnologie investigative.
Industrie, compagnie di assicurazione, banche, liberi professionisti
(avvocati e commercialisti) e governi, devono tutti lavorare insieme
per far rispettare l'etica degli affari e impedire che il crimine
penetri nelle operazioni d'affari legittime. Al tempo stesso, i governi
devono imprimere nella mente dei cittadini il principio che la legge
deve essere rispettata. A New York il sindaco è stato capace
di abbassare considerevolmente il tasso della criminalità,
affidandosi fra l'altro alla teoria del "vetro infranto":
se la città lasciasse che il vetro infranto della finestra
di un edificio non venisse riparato e omettesse di punire i colpevoli
del danno, dopo breve tempo tutte le finestre di quell'edificio sarebbero
infrante. Se invece la città non trascura nessuna finestra
rotta, si crea un clima in cui i cittadini sono portati ad osservare
la legge e ad esercitare al massimo livello quel controllo sociale
che previene il verificarsi di crimini più gravi.
Nel 1994 l'Onu organizzò a Napoli una Conferenza mondiale sulla
criminalità transnazionale organizzata, che si concluse con
una Dichiarazione politica e un Piano d'Azione Globale, poi adottato
dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel 1997 si discusse
la bozza di convenzione a Vienna. Prevedeva queste misure:
- confisca dei proventi derivanti dal crimine organizzato (art. 2);
- criminalizzazione delle compagnie che traggono profitto dal crimine
organizzato (art. 3);
- incaricare gli Stati di creare una legislazione sui crimini presenti
nel loro territorio (art. 5);
- incaricare gli Stati di estradare i propri cittadini, qualora sia
richiesta l'estradizione per reati di criminalità mafiosa (art.
7);
- rimuovere il segreto bancario (art. 10);
- finanziare l'addestramento degli investigatori (art. 11);
- creare un'apposita banca dati mondiale (art. 12).
I risultati della collaborazione tra gli Stati membri dell'Unione
europea sono stati finora assai modesti. E' stata istituita l'Unità
Europea Droga (Ued) e una sola Convenzione, quella di Dublino. Il
Trattato di Maastricht prevede il coordinamento nel settore della
Giustizia e degli Affari Interni (il cosiddetto "Terzo Pilastro").
E' stato inoltre istituito un comitato di funzionari di alto livello
(High Level Group), con un ruolo di coordinamento, consultazione e
preparazione, nei confronti del Consiglio Europeo, e che può
svolgere questo ruolo di propria iniziativa. Il Parlamento Europeo
non ha ruolo nel Terzo Pilastro, ha solo il diritto di essere informato.
La Corte Europea di Giustizia non ha alcuna competenza. Aree di coordinamento:
tossicodipendenza, immigrazione clandestina, riciclaggio di denaro
sporco, furto d'auto internazionale e frode internazionale.
Nello sviluppo di un piano d'azione contro la criminalità transnazionale,
i diritti fondamentali svolgono un ruolo esiguo ma al tempo stesso
importante. Un ruolo esiguo perché il piano d'azione si limita
a migliorare la collaborazione tra Stati sovrani. Non è compito
del piano fornire un sistema legislativo internazionale o europeo,
sviluppare una legislazione penale internazionale o europea, perseguire
azioni criminali o adire la Corte di Giustizia internazionale o europea.
D'altra parte, la storia controversa della nascita di questa collaborazione
tra Stati sovrani e dell'adozione di convenzioni contro le mafie mostra
che la segretezza nel processo decisionale e un mancato rispetto dei
diritti fondamentali, come ad esempio il controllo parlamentare e
giudiziario, sono non solo antidemocratici, ma anche impraticabili.
In definitiva, il mancato rispetto dei diritti fondamentali serve
solo a ritardare considerevolmente il processo.
tom de waard
(Presidente dell'Ordine olandese degli Avvocati)