Chiavi di volte




Sergio Bello



Le note hanno due modi di uscir fuori registro: nelle cantilene immaginifiche dei venditori ambulanti, quelli di Palermo, di Napoli, di Bari, ma anche dei paesi di piccole e microscopiche dimensioni, dove al tramonto si vendono i (forse non più) poveri prodotti della terra e del mare, con i loro antichi profumi e sapori, così remoti da quelli degli intrugli chimico-plastificati dei fast foods; e nei silenzi assoluti che a volte sorprendono vie e piazze, o interi quartieri dei bianchi paesi del Sud, come se il tempo, fermandosi, volesse farci ascoltare il respiro profondo delle case, dei vichi, delle corti, prima di riprendere i suoi ritmi fatali.
Il primo fuori-registro fa parte della realtà quotidiana, ha una sua naturale vitalità, entra nel nostro apparato uditivo con la fresca semplicità delle cose buone. Il secondo ci avverte del mistero del mondo, dell'inesprimibile sentimento del tempo, delle arcane cesure che sospendono a tratti i battiti di un cuore cosmico, e, se colte nella loro intensità, ci rapportano allo smisurato concerto del creato.
E' tutto musica. Si debbono filtrare le modulazioni vocali delle "grida", come si deve introiettare la "voce del silenzio" per avere a disposizione uno spartito non scritto, uno spartito spesso inconsapevolmente atteso, e comunque vissuto. Sono le note che emergono dalle nostre medine, dalle terrazze delle nostre case abbracciate, dalle piccole piazze dominate talvolta da una palma eccentrica, e sempre ingentilite da ripide scale, bianche anch'esse, che fanno degli slarghi piccoli salotti, "interni" per le conversazioni serali delle donne e per lo scambio di elementari informazioni degli uomini.
Anche questo brusio, e meglio ancora, questo coro di brusii da corte a corte, tra piazzetta e piazzetta, da parapetto a parapetto: anche tutto questo è musica. Una musica a parte, che entra nel circolo delle nostre linfe vitali, e si fa anch'essa linfa vitale, medicamento naturale, soffio medianico. Energia. Armonia interiore.
Scriveva Raffaele Carrieri che sua madre, trasferitasi da Taranto a Milano, nella casa del poeta che sembrava un gran sommergibile, saturato di inestimabili opere d'arte, andava a cercare le voci della sua vita nel mercatino rionale, tra i venditori di cicoria catalogna, di muscari, di erbe, di grano saraceno. Andava alla ricerca della musica perduta, non potendola ritrovare tra le sculture e i quadri d'autore del sottomarino domestico di suo figlio. Aveva perso le voci di strada e i silenzi del crepuscolo. Aveva smarrito le coordinate antiche e sicure, gli approdi familiari alla memoria, gli echi della sua voce erano diventati un'altra cosa, ritorni incrinati, estranei. Tutto era diventato grigio, intorno e fuori, e spento, smorzato. Né c'era il conforto del mistero del silenzio improvviso, che non c'era - diceva - perché il cielo aveva il pallore degli anemici e cambiava pelle solo mettendosi in gramaglie.
Morì non molto tempo dopo, in quell'esilio opulento, portandosi sull'altra riva la nostalgia della sua vecchia casa con le stanze alla greca, infilate una dietro l'altra, fino al giardino in cui spiccava l'albero di limone e fiorivano vasi di gerani. Vuoi mettere le nostre pareti e le nostre volte? diceva al figlio, e il gran poeta, che la amava teneramente, annuiva. La grazia delle volte a stella, la decisione delle volte a botte, la regalità delle volte a doppia e a tripla vela... Da quella geometria esatta di pietra serena ammarava un'armonia musicale silente, di scale variabili, di timbri e toni magici.
Le pareti completavano il pentagramma, segnavano percorsi e rotte di generazioni. Il suo diapason albale, diceva Carrieri: la cucina. Spaziosa, centro del mondo, con i ciocchi d'ulivo accesi col sole a pelo d'orizzonte, col borbottio dell'acqua nel pentolone (a che serviva tutta quell'acqua messa a bollire solo Iddio poteva saperlo!), con le batterie di rame allineate negli stiponi, con le sedie impagliate attorno alla madia, con la porta spalancata sul fronte del muro, dove imperava il rosso di pomodori penduli e di diavolicchi a mazzetti.
Ci sarà pure una ragione se i nostri vecchi, eradicati, vestiti a nuovo e deportati in case cittadine anche nuove di zecca, con ambienti ben squadrati, pareti asettiche, volte basse inadatte ai mobili stile nonnina intagliati dai sapienti bulini dei maestri d'arte d'un tempo, poi si lasciano andare, rinunciano a vivere, non entrano in sintonia con quelle lussuose prigioni. Ci sarà pure una ragione se sognano le penombre delle antiche volte e le luminosità dei vecchi cortili. La musica lascia il posto alla malinconia, agli sguardi chiari succedono le occhiate brumose, indifferenti. Si spezza il filo, saltano le corde, svaniscono gli accordi. Tutto, intorno, sferraglia e stride. Tutto si scompone, si sfarina. Voci secche, gesti incomprensibili, vita veloce: e nessuno che, almeno una volta in un giro del sole, accenni ad ascoltare un suono che si irradia dallo zenith, che sale dal nadir. Lì davvero si vive per morire. Magari in un angolo di cottura, fiore all'occhiello di lager di quaranta metri quadrati, con uffici e ciminiere a vista.


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