Il mito del Duce




Franco Barbieri



Per esaminare il rapporto tra il Duce e la sua immagine, alla luce dei documenti fotografici, occorre premettere alcune riflessioni più generali. L'argomento, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro dalle penne di storici e studiosi illustri, viene in queste note affrontato nella specifica prospettiva dell'immagine fotografica senza presumere di possedere alcuna pretesa storica; citazioni storiche si riveleranno utili e qualche volta necessarie per una migliore comprensione delle immagini qui scelte in numero limitato tra quelle disponibili.
L'esposizione, ancorché ridotta all'essenziale, ha richiesto la suddivisione in tre parti: la prima riguarderà il periodo sino alla presa del potere; la seconda l'affermarsi e il consolidarsi del consenso e l'ultima il declino e il crollo finale.
L'immagine fotografica quale documento storico registra istanti gestuali e comportamentali, momenti di autorappresentazione dei protagonisti; l'analisi storica senza pregiudizi resta ancorata all'esame dei documenti.
All'origine, la comunicazione ha avuto come protagonista il "gesto", cioè l'atteggiarsi del viso e le movenze di parti del corpo, soprattutto le mani. Era cosa nota sin dall'antichità - lo narra Erodoto nel V secolo a.C. del faraone Psammetico - che l'attività gestuale rappresentava un linguaggio completo e distinto rispetto a quello parlato e scritto.
Recentemente la rivista Nature ha riferito l'importante conclusione cui sono giunti i ricercatori del Dipartimento di Psicologia e del Dipartimento di Studi asiatici dell'Università di Chicago, Susan Goldin-Meadow e Carolin Mylander, riguardo allo sviluppo spontaneo di un linguaggio gestuale in bimbi sordomuti congeniti, figli di genitori udenti e parlanti. La novità più significativa dello studio dei ricercatori consiste nell'aver scelto due gruppi di bambini, di cui uno americano e l'altro cinese, cioè provenienti da culture e habitat molto diversi, e di aver acquisito il risultato che le proprietà strutturali dei rispettivi linguaggi gestuali rispondevano alle stesse "logiche" tanto da rendere possibile la comunicazione, maggiormente quella tra loro che quella con le rispettive madri.
Sulle proprietà e varietà della parola, per non dire poi dell'immagine, nella comunicazione sembra superfluo spendere in questa sede anche un solo momento. Infatti l'evidenza di ciò balza agli occhi, mentre è da sottolineare che le suggerite proprietà appaiono diverse da individuo a individuo, da mezzo a mezzo, da società a società. Tutto ciò consente di constatare che nella comunicazione si utilizzano i suddetti tre elementi: gesti, parole e immagini.
Ma per comunicare è sempre occorso, e occorre, autorappresentarsi. L'autorappresentazione consiste nel generare immagini mentali di sé cui conformare e adeguare la propria apparenza fisica e il proprio comportamento. Il processo vero e proprio del rappresentarsi è, quindi, preceduto da un passaggio costruttivo intimo al quale contribuiscono tutte, nessuna esclusa, le proprietà originarie e acquisite, consapevoli o meno, dell'individuo. Il confine, labile e spesso indefinibile, tra immagine eidetica e allucinazione definisce l'evento patologico, che si verifica quando l'immaginazione trascende nella alterazione.
Il confronto continuo con i dati della realtà esterna è la garanzia del controllo necessario perché non avvenga il superamento del limite fatale.


L'autorappresentazione, inoltre, è la condizione necessaria per svolgere il ruolo politico, poiché il fare politica richiede, tra le altre, l'attitudine e la capacità di comunicare, non solo in modo determinato, unico e rigido ma anche adatto all'interlocutore, individuo o folla, e, in più, di aver presente l'occasione e il momento nel quale avviene l'incontro. Questa elasticità, a sua volta, presuppone intuizione, sensibilità e ricchezza di linguaggio, caratteristiche necessarie a raggiungere la sintonia con l'interlocutore. Gesto, parola ed immagine concretizzano l'autorappresentazione di chi intende comunicare con altri soggetti. In tempi recenti è divenuto possibile imparare le tecniche che consentono di autorappresentarsi; queste tecniche, che all'inizio del secolo non erano ancora note e in uso, erano surrogate dall'educazione dell'ambiente, familiare o esterno, le cui norme comportamentali, indotte o imposte, quando si incontravano con la predisposizione naturale, offrivano il mezzo capace di costituire, anche se inconsapevolmente, una rappresentazione di sé adatta alle varie circostanze.
Infine è importante citare Giovanni Berlardelli che afferma che la storia non è, così come si è intesa anche nel recente passato, la pretesa di indicare il futuro e di imporre i suoi fini - cioè la storia dei "falsi ricordi" -, ma la riscoperta delle identità collettive quando essa può "aiutarci a chiamare le cose con i loro nomi, crimini i crimini, illusioni le illusioni", cosicché l'ingombrante fardello del passato non faccia velo al nostro sguardo del futuro; opportunamente l'articolo ha il titolo "Viva la Storia, quando non è politicamente corretta" (Corriere della Sera del 27 gennaio '98).


Queste brevi considerazioni introduttive - il significato nella comunicazione del gesto, della parola e dell'immagine, l'autorappresentazione nella comunicazione del politico e la ricerca storica tramite i documenti anche fotografici - come si è detto sono necessarie per tentare di comprendere il personaggio Mussolini e con lui il fascismo, ma risulta anche opportuno dare qualche cenno della sua biografia soprattutto sino alla presa del potere.
Le modeste origini familiari - il padre era fabbro, socialista, e la madre insegnante delle scuole elementari - fornirono a Benito Mussolini (1883-1945) quella sensibilità e attenzione che alimentano l'ambizione del piccolo borghese e la concretezza dell'artigiano. Fu educato dal 1892 al 1894 presso il collegio dei salesiani di Faenza, poi nel collegio laico Giosuè Carducci per diplomarsi, infine, maestro nel 1901. Già nel 1900 era iscritto al Partito socialista nel quale cercò l'equilibrio tra il suo carattere, impulsivo e violento, e il bisogno di protagonismo, tra il senso di ribellione verso la società e l'ideologia socialista mutuata dal padre.


Dopo un periodo anarchico, durante il quale collaborò alla rivista Giustizia di Prampolini, insegnò, da supplente, in una scuola rurale in provincia di Reggio Emilia, ma fu costretto nel 1902 a emigrare in Svizzera per sottrarsi alla leva militare, cosa che gli costò la condanna, non scontata, ad un anno di reclusione. Restò in Svizzera sino al 1905, insegnando e lavorando anche manualmente, finché ne fu espulso per propaganda rivoluzionaria e anticlericale. L'anno prima era stata concessa in Italia un'amnistia - era nato il principe Umberto - che gli consentì di tornare e, con una delle sue incomprensibili decisioni, di arruolarsi volontario nei bersaglieri, con i quali rimase sino al 1906, per poi dedicarsi nuovamente all'insegnamento e per incominciare ad esercitare l'attività di giornalista.
Nel 1908 per aver partecipato allo sciopero di braccianti nel suo paese natale, Predappio, fu arrestato e costretto in carcere per 15 giorni. Alla fine dello stesso anno fu chiamato a Trento, città ancora austro-ungarica, come segretario della camera del lavoro e quale direttore della rivista L'avvenire del lavoratore; collaborò, come redattore capo, al Popolo diretto da Cesare Battisti, per un solo mese, in quanto i toni fieramente nazionalistici di Battisti non coincidevano con la sua visione classista e pacifista. Venne espulso anche dal Trentino per i suoi attacchi anticlericali e antireligiosi particolarmente nei confronti del partito sociale cristiano e del giornale Il Trentino diretto da Alcide De Gasperi.


Nel 1909 tornò a Forlì, si unì a Rachele Guidi, che sposò civilmente nel 1915, e nel 1910 fu nominato segretario della sezione di Forlì del partito socialista di cui fondò e diresse l'organo di stampa La lotta di classe; fu alla guida delle manifestazioni contro la guerra italo-turca e ciò gli procurò la condanna a cinque mesi di prigione insieme a Pietro Nenni. Quale guida dell'ala intransigente del partito provocò , nel 1912, l'espulsione dei riformisti Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi e nel dicembre dello stesso anno fu nominato direttore dell'Avanti, per cui si trasferì a Milano, ove assunse rilevanza e influenza nell'azione del socialismo nazionale.


Continuò nella linea di intransigente lotta contro i propugnatori della guerra, il potere economico e il clero cosicché allo scoppiare della guerra la sua posizione era neutralista, ma, pochi mesi dopo, improvvisamente, nell'Avanti del 18 ottobre, si dichiarò favorevole all'intervento. Questa tesi non fu accolta dall'assemblea del partito, che il 24 novembre lo espulse. Ma il 15 novembre era già apparso il nuovo giornale di Mussolini, Il Popolo d'Italia, seguito, subito dopo, dalla nascita del movimento dei fasci d'azione rivoluzionaria, movimento che si schierò totalmente a favore della guerra contro gli imperi centrali. Nell'agosto 1915 Mussolini fu richiamato alle armi e assegnato al corpo dei bersaglieri; ferito in esercitazione, nel 1917, e congedato, riprese il suo posto a Il Popolo d'Italia, ricomparendo nella scena politica nel marzo del 1919 alla fondazione dei fasci italiani di combattimento avvenuta a piazza San Sepolcro, i cui caratteri si identificavano nell'esasperato nazionalismo, nell'appoggio all'impresa fiumana di D'Annunzio, nella violenza esercitata dalle squadre d'azione, nell'avversione allo stato democratico e alle istituzioni parlamentari, ma soprattutto nel seguire il capo spregiudicato e demagogo che venne chiamato "il Duce".
Questa rievocazione - che durante il ventennio "doveva" essere conosciuta da chiunque in Italia così come dopo la guerra è stata dalla massima parte degli italiani ignorata - è, invece, necessaria quale cornice all'analisi dei documenti fotografici. Il personaggio in questione appare, così, formato da elementi culturali e psicologici ambigui e contrastanti: tenacia e opportunismo, coraggio e prudenza, utopia e realismo, intuito e furbizia, gli consentirono sin dai suoi esordi di destreggiarsi nello sviluppo degli eventi di quei primi sconvolgenti venti anni del nostro secolo.

Nonostante ciò, le fotografie che ci vengono rimandate mostrano del nostro personaggio un aspetto generalmente costante, sia nell'abito sia nell'espressione; ciò si può vedere nell'attenta considerazione in cui egli teneva la propria immagine e del controllo della persona.
Traspare dai suoi atteggiamenti l'influenza di Nietzsche e di Sorel, i cui scritti lo avevano indirizzato alla speculazione dei problemi della gente, ma con la prerogativa dell'eletto e con i modi evocati e suggeriti, e poi imitati, dalla parola e dall'azione di D'Annunzio; anche di ciò ritroviamo tracce in alcune fotografie.
L'immagine che riassume e conclude la prima fase dell'avventura del personaggio (foto 1), non a caso, venne proposta ne Il Popolo d'Italia - il giornale da lui fondato nel 1914 - del 31 ottobre 1922. Emerge da essa l'estrema serietà e concentrazione del volto, l'abito borghese, e l'atteggiamento di chi scrive traducendo il pensiero in azione, sottolineando la differenza rispetto all'usato e abusato mezzo busto ufficiale mediante il quale venivano rappresentati nei giornali di allora gli uomini politici.
La stessa impressione suscita la fotografia dell'incontro con il Re (foto 2), dove, però, sorprende la rigidezza di Mussolini che sembra attendere, nel completo tre quarti scuro corredato di rispettabili "ghette", il sovrano, il quale è invece in atteggiamento di chi si fa cordialmente incontro. Il rapporto di Mussolini con le istituzioni, fino ai primi anni venti, di cui riconosceva il valore e l'importanza, fu sempre ambiguo e controverso, tanto che egli si mosse sempre al loro interno, persino in occasione della presa del potere seppure cogitasse la necessità di mutarle. Tale ambiguità lo portò ad essere, almeno formalmente, timido e ossequioso ma pure diffidente e sospettoso. Comunque, si conferma l'attenzione e la cura con le quali, sin dagli inizi, Mussolini curava la propria immagine, così come la parola e il gesto, ma con una strana incongruenza, manifestata e sviluppatasi ancor più nel seguito tra le prime, asciutte, semplici e dirette, e il gesto esagerato e italianamente abbondante.


Nella foto 3 presa ad un comizio a Roma nel giugno 1919 e nella foto 4 in occasione di una manifestazione di arditi e di fascisti tenutasi in quello stesso anno - ambedue riferentisi ad incontri con la folla, che potevano indurlo a far sfoggio delle sue capacità istrioniche - appare, invece, un Mussolini contenuto, serio e concentrato. E' da ritenere che poiché entrambe hanno avuto il suo placet e pertanto sono state da lui scelte le considerasse, ai suoi fini, maggiormente rappresentative.
Ma anche nella foto 5, da considerare meno controllabile data l'occasione - i funerali di Sidney Sonnino -, la sua figura si staglia e si evidenzia con la sua immota concentrazione, su tutte le altre preda dell'agitazione dell'evento. Si può dire che era per lui preminente apparire rispettabile, distante dalla violenza degli avvenimenti, quasi super partes, presentando di sé un'immagine che contribuì non poco a far accettare l'idea di una sua possibile partecipazione alla cosa pubblica, non rappresentando un vero pericolo per lo stato liberale e la monarchia, a differenza di quanto poteva apparire dalle azioni delle squadre fasciste, per esempio nei confronti degli avversari - nella foto 6 il deputato comunista Misiano trascinato per Torino con la testa rasata -.
Nel maggio del 1921, per contrastare i socialisti, che avevano ottenuto un discreto successo nelle elezioni comunali dell'ottobre dell'anno prima, Giolitti raccolse nelle liste del blocco nazionale i liberali, i democratici, i nazionalisti e i fascisti. Questi ultimi ottennero 35 seggi raggiungendo l'obiettivo sfuggito nel novembre 1919 quando si erano presentati a Milano con una propria lista - nella quale erano Mussolini, Marinetti e Arturo Toscanini - ottenendo solo 4.795 voti e nessun seggio. Seguirono mesi di scontri tra squadristi e antifascisti, e il 22 luglio, a seguito di una spedizione punitiva e dimostrativa dei secondi a Sarzana, i fascisti - come riporta Renzo De Felice - lamentarono decine di morti e operarono una rappresaglia mortale in quel di Roccastrada, Grosseto. Il 3 agosto fu firmato il "patto di pacificazione" tra fascisti - rappresentati dall'on. Acerbo - e socialisti, rappresentati dall'on. Zaniboni, che appaiono nella foto 7. Dal 7 al 10 novembre del 1921 fu convocato, su iniziativa di Dino Grandi, Italo Balbo e Roberto Farinacci, che intendevano rompere il patto di pacificazione, il congresso nazionale fascista a Roma, foto 8, che si concluse con la trasformazione del movimento in partito fascista. L'ascesa al trono di S. Pietro di Pio XI - papa Ratti - che a Milano non aveva nascosto la propria simpatia per i fascisti, lo sciopero "legalitario", comunque fallito, che aveva autorizzato l'ultimatum fascista al governo Facta, la caduta della pregiudiziale antimonarchica nel discorso di Mussolini a Udine, condussero alla marcia su Roma che si svolse tra il 27 e il 28 ottobre del 1922 (foto 9), e il 29 il Re affidò a Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo. Già il giorno dopo, il 30, il governo è formato foto 10.
Emilio Gentile in un suo saggio, Il mito di Mussolini, così si esprime: "Il mito di Mussolini non fu l'espressione emotiva di un popolo predisposto a subire il fascino di un dittatore. Il mito del duce appartiene a una situazione storica e a una tradizione culturale e politica che scorre lungo tutto il corso della storia europea dopo la rivoluzione francese. Le sue radici sono nel culto romantico del genio, ma il tronco è cresciuto e si è ramificato con lo sviluppo della società di massa. In principio, il mito mussoliniano fu un mito socialista, il mito del capo rivoluzionario venerato da tutti gli estremisti ma rispettato anche dai riformisti che lo combatterono. Tanto in questa fase che nella successiva, quando Mussolini divenne il campione del radicalismo interventista e antigiolittiano, il suo mito ebbe soprattutto una connotazione morale, in cui le doti di fede, di carattere e anche della sua ostentata cultura prevalevano sugli elementi propriamente politici".


Per poter comprendere la politica di massa del XX secolo e dei nostri giorni, il fenomeno fascismo - il primo movimento di massa che ha portato il mito al potere - deve essere attentamente studiato nell'esame del suo manifestarsi e nel suo contesto storico, ma soprattutto nell'esperienza compiuta e conclusa dello stesso fascismo. Dal dopoguerra, contemporaneamente agli eventi italiani, si andava sviluppando la comunicazione di massa, che alla tradizionale stampa affiancava la fotografia, il cinematografo e la radio, il cui bagaglio documentale non può essere trascurato. Pur tuttavia le nuove fonti della comunicazione, sia per motivi dovuti alla ancora non generalizzata conoscenza e diffusione dei mezzi tecnici sia per l'azione del protagonista, che era limitata entro ristretti ambiti territoriali ovvero tra i militanti di partito, non risultano abbondanti almeno sino all'ascesa del fascismo al potere, mentre lo divennero dopo durante l'evoluzione dei fatti, i quali insieme ai documenti iconografici seguirono una sorta di spirale ascendente. La radio e la fotografia - parola e immagine - registrarono pur sempre gli avvenimenti ma in più collaborarono al loro affermarsi indirizzandoli secondo linee desiderate e volute per poi sfociare nella propaganda.


Il mito di Mussolini consiste proprio nella coniugazione e congiunzione della sua autorappresentazione con quella della massima parte dei fascisti prima e degli italiani poi. Pur non essendovi, attualmente, il rischio di una sua ripresentazione, Luisa Passerini annota nel suo saggio L'immagine di Mussolini: specchio dell'immaginario e promessa di identità del 1985 che "i fenomeni degli anni '30 appaiono per molti versi l'inizio di processi di società massificata che il secondo dopoguerra ha portato avanti, nonostante che la forma di dominio sia stata democratica".
Nel 1926 Roberto Michels nel corso di lezioni di sociologia politica, che egli tenne all'Università di Roma, affrontò il tema "del sorgere del fattore massa nella vita politica" in un tempo in cui l'affermarsi del suffragio universale aveva trasferito il carattere sacro del diritto divino dal re alla moltitudine; divenne così possibile che proprio dalla democrazia fosse originata la dittatura in quanto "dato il risveglio delle folle operaie e contadinesche, non è possibile nell'era presente che l'élite possa affermarsi vittoriosa senza il continuo tacito consenso delle masse".
Quanto ciò sia vero lo constateremo nella seconda parte di queste note.

(1 - continua)


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