IO CANTO PER AMORE




Luca Isernia



Conosciamo e apprezziamo da anni gli studi compiuti, da molteplici prospettive, sull'opera artistica del torinese Carlo Levi, compresi quelli riguardanti la sua attività di pittore (1). Molto meno conosciuta e studiata è, invece, la sua produzione poetica, che, invero, è stata presentata al largo pubblico solo da qualche anno, per merito di un'edizione curata da Plinio Perilli per i tipi della Mancosu editore (2).
L'attività poetica di Carlo Levi è interessante non solo perché rappresenta l'ennesima manifestazione artistica di una natura poliedrica qual era, per l'appunto, quella del torinese, ma anche perché il lungo arco cronologico, ricoperto dalla poesia leviana, 1931-1973, permette di riconsiderare, anche da questo versante, alcuni aspetti della vita culturale italiana.
La produzione lirica leviana si divide in più momenti o cieli, i quali scandiscono l'evolversi dello stile poetico attraverso gli anni, nonché, ovviamente, i temi che la ispirano nella frequente corrispondenza con le opere in prosa.
Carlo Levi - e lo diciamo subito, per sgombrare il campo da possibili equivoci - non si sentiva affatto né si atteggiava a poeta. La poesia rimarrà per tutta la sua esistenza un fatto del tutto privato e personale, assolutamente intimo e sacralmente riservato, tant'è che, nonostante i ripetuti inviti fatti all'artista di dare alle stampe le poesie, egli non pubblicò mai i suoi componimenti. Le sue raccolte poetiche, quindi, si prestano ad essere lette come una sorta di diario esistenziale, cui affidare le proprie ansie, le aspettative, le gioie e le amarezze che lo accompagneranno per tutta l'esistenza. Per questo è vano presumere di ricondurre i versi di quest'artista ad una precisa corrente poetica o avvertirne forzatamente l'eco di questo o quell'altro poeta. Non si negherà, beninteso, il fatto che Levi potrebbe aver risentito, come cercheremo anche di dimostrare, degli atteggiamenti artistici e culturali contemporanei, ma non è proponibile un'esegesi della sua poesia vincolata a quest'ottica comparativa.
Ancora, del tutto improponibile mi pare sia la proposta avanzata da Valeria Barani (3) di privilegiare, in vista di un'eventuale edizione critica, le liriche del periodo 1934-'46, ancorché proprio le poesie di questo periodo fossero ritenute da Linuccia Saba (4) le più indicate per la stampa (5). Improponibile, dicevamo, in primo luogo perché si opererebbe un "taglio" di crociana memoria, del tutto ingiustificato sotto l'aspetto estetico; in secondo luogo, per il fatto che, al di là di una minore o maggiore resa artistica, ogni singola poesia ci dà ragione del faticoso cammino di maturazione non solo artistica, ma anche civile e, se vogliamo, politica, di Levi.
L'esordio poetico di Levi risale al 1931. I temi di questa prima raccolta sono, per un verso, l'amore e la passione per la donna amata, in ossequio al leitmotiv dominante nella poesia di ogni epoca e Paese; dall'altro quello della sua esistenza perennemente combattuta e, talvolta, fatta letteralmente ostaggio dagli uomini.
La prima raccolta reca in sé qualcosa di morbosamente voluttuoso, la quale sembra tradire in parte il retroterra culturale di tipo decadentistico, che era certamente parte della formazione artistica e, segnatamente, pittorica di Carlo Levi. Dieci poesie vanno a comporre questo primo momento della lirica leviana, posta sotto il simbolico titolo de Il carcer tetro. Cosa fu per Levi questo "carcer" è facilmente deducibile da una lettura globale delle poesie composte tra il 1932 e il 1934. Il "carcer tetro" è per Levi una dimensione insieme ideale e reale della sua esistenza. Le liriche che compongono questa prima raccolta possono rappresentare, sotto l'aspetto stilistico e formale, un'ingenua ricerca di quella che veniva configurandosi, in quegli anni, come "poesia pura", cioè poesia tesa alla riscoperta del valore primigenio ed evocativo della parola, non consunta dall'uso e dall'abuso che se n'era fatto sino ad allora; per intenderci era un tentativo di dimostrare che la poesia non significava qualcosa, ma viveva per sé e in sé. In ordine ad alcune liriche, inoltre, sono avvertibili addirittura lontani echi leopardiani e petrarcheschi. E' il caso della lirica che apre la raccolta, ove i "passi lenti e vani" del poeta torinese richiamano troppo da vicino quelli "tardi e lenti" dell'autore del Canzoniere. D'altronde, la cosa può avere un pur indiretto riferimento col fatto che, proprio in quel periodo, un poeta non certo ignoto e, quindi, sicuramente letto dal Levi, Giuseppe Ungaretti, pubblicava la raccolta Sentimento del tempo (Firenze, 1933), nella quale si ritornava, per i temi e, a suo modo, anche per la struttura metrico-ritmica, alla tradizione lirica italiana più nobile, quella appunto del Petrarca e di Leopardi. La su menzionata lirica del Levi recita:

Ritorno, cara, in questa terra. L'aria / incandescente svela / le cose fatte piccole. Ristanno / pochi per via (6), in un anno / poco è mutato, e neppure più si cela / la noia della vita solitaria (7). / Lunghe le strade senza gente, sole / ed ombre corte / e passi lenti e vani (8). Tutto è vuoto / e risaputo, e noto, / e calmo ed ordinato, d'una morte / che ha spento sulle labbra le parole. / Perché parlare se nessuno ascolta? / Non è più verde / il bosco, morti gli uomini oppure stanchi. / Ma pur se tu manchi (9) / vogliam provare, ed anche se si perde / la speranza, tentare un'altra volta.
(11 luglio 1933)

Si noti, inoltre, come l'uso insistito del polisindeto ([ ... ] ed ombre corte / e passi lenti e vani. Tutto è vuoto / e risaputo e noto / e calmo ed ordinato [ ... ]) sia di chiara ascendenza petrarchesca e leopardiana.
Fortemente simbolica è la poesia leviana di questo periodo. Quello del bosco, ad esempio, è un simbolo che costantemente compare nelle liriche ed assume, di volta in volta, diversi significati. Ora è luogo di libertà e di voluttà carnale, ove la peluria silvana è metafora di quella femminile, ora è il luogo dell'evasione, della solitudine o del contatto incontaminato con la natura, ora quello in cui si decidono i destini dell'uomo, con palese riferimento alla lotta partigiana.
Questa raccolta, dicevamo, abbraccia il periodo compreso tra il marzo 1934 e l'aprile dello stesso anno. Nel 1934, come si saprà, Carlo Levi, in seguito alla scoperta di un canale di diffusione di materiale propagandistico e sovversivo, che dalla Francia, attraverso la Svizzera, arrivava in Italia, fu arrestato dalle autorità fasciste, quale responsabile del movimento "Giustizia e Libertà" per il Piemonte. La detenzione fu durissima (10). Ai detenuti fu imposto l'isolamento e l'unica cosa che era loro permesso di leggere era la "Gazzetta dello Sport". Da questo duro periodo nasce una serie di liriche che sono specchio fedele dell'animo, dei pensieri e delle speranze del torinese. Quello delle carceri fasciste sarà insomma, fuor di metafora, il "carcer tetro" di Levi:

Solitudine
Prigione, sento camminare / sul mio capo qualcuno, / batter ferri, cigolare / porte ignote. / Ma tu non mi hai ancor preso: / mia vita sono le note / forme, e il cielo, sorpreso / di vedermi chiuso. / Ore passano, sono altrove / dove mi porta l'uso / degli effetti. Estranee (11) prove / fan gli uomini stanchi. / Acqua, sveglia, carta, pane, / polvere, muri bianchi: / l'oggi è l'ieri, e la dimane / arida solitudine.
(marzo 1934)

Ed ancora:

In questa fetta di melone / c'è un po' d'ombra e un po' di sole: / dall'alto del suo balcone / la bambinaia in divisa mi guarda. / Parla con voce sarda / tutelari parole: / non si fermi, se s'attarda / sarà messo in punizione. / Guardo l'erba, i muri di cemento / ed il cielo sopra le grate / non m'arresto un sol momento cammino avanti e indietro. / A questo ugual metro (12) / quasi quasi m'addormento. E' questo il carcer tetro? / Preciso come Kant.

Il pensiero del filosofo tedesco, citato da Levi in explicit, rigoroso ed inequivocabile, è paragonato alla prigionia di cui è vittima il poeta, anch'essa avvertita come condizione "assoluta", tanto dello spirito, quanto del corpo. Il riferimento a Kant e alla sua filosofia non è certamente casuale; proprio negli anni immediatamente a ridosso del 1934, infatti, Levi legge e medita sulla filosofia kantiana. A casa Gobetti, afferma lo stesso torinese, "si giocava, si scherzava, ma si leggeva Kant" (13). Le sedute platoniche di casa Gobetti, fucina d'idee e di riflessioni sulla cultura universale, saranno in seguito nostalgicamente rievocate anche da Ada Prospero, compagna e poi moglie del fondatore di "Energie Nuove" (14).
Non si può comprendere la poesia leviana di questo periodo senza fare continui riferimenti al periodo del sodalizio con Gobetti (15) e col gruppo che intorno ad esso soleva riunirsi (16).
Gruppo che, per le forze intellettuali chiamate a raccolta e per la determinazione con cui portava avanti la sua battaglia, diveniva vera e propria spina nel fianco del governo totalitario, salito al potere in Italia dal 1921. Successivamente, la persecuzione che Gobetti subì dal fascismo e la morte del giovane piemontese furono avvertite da Levi come il punto di partenza di un processo innescato dal fascismo per eliminare, sistematicamente, qualunque opposizione "concreta" al regime. Paradigmatica è in tal senso la poesia che il torinese compone nel gennaio del 1934, nella quale possiamo cogliere un implicito riferimento ai tentativi di l'eliminazione" che, da quello a Gobetti, a Gramsci, sino ai fratelli Rosselli, cercavano di far mancare alla base operativa dell'opposizione al regime, i cardinali punti di riferimento:

Ogni pensiero è ricoperto d'ombra: / come in un sonno pieno di sussulti / traggo la vita, compagno d'angoscia. / Sopra ogni istante piede, ventre, coscia / col peso stanno; e coi banali insulti / rendon la mente d'ogni bene sgombra. / Sta sopra me questa vendetta, immensa / ira senza ragione; altri colpisce / perch'io non possa armarmi alla difesa, / e senta alfine quanto è amaro e pesa / quello che è eterno, a chi libero ardisce / un mondo porre intero in quel che pensa. / Così conosco la divina sorte / e ferito mi giaccio sulla terra / della ferita per cui altri langue. / Tutto macchiato del tuo caldo sangue / non vinto, voglio seguitar la guerra. / Ma in fondo al mar non v'è più che morte.
(30 gennaio 1934)

Levi avverte che l'eredità di Gobetti non può andare perduta. Scrive a Natalino Sapegno nel febbraio 1927, un anno dopo la morte a Parigi del comune amico e maestro: "[...] Continuare dobbiamo, noi, poveri uomini, che non sappiamo neppure bene dove andiamo, che cosa ne sarà di noi. Continuare, se ne saremo capaci" (17).
La poesia del torinese di questo periodo, inoltre, è rivelatrice di molti aspetti dell'ideologia leviana. Se consideriamo, ad esempio, gli ultimi due versi della poesia intitolata "Solitudine" ("[ ... ] l'oggi è l'ieri, e la dimane / arida solitudine"), ci accorgiamo che essi anticipano, in nuce, un aspetto molto importante della tematica dell'opera leviana globalmente intesa; mi riferisco, come si sarà intuito, alla poetica della "compresenza dei tempi". Ad avallo della mia ipotesi va ricordato quanto Levi confidava a se stesso nel luglio del 1935, quando, per la seconda volta nel giro di pochissimo tempo, vive l'esperienza della segregazione dalla civiltà e dagli uomini. In tale condizione esistenziale, il tempo sembrava a Levi si frantumasse, perdendo il suo significato e i suoi cardinali riferimenti (giorno/notte, mattina/sera, oggi/ieri/domani), sconvolgendo così il senso delle cose, costringendolo a rifugiarsi nel passato (18), in immagini certamente più liete e apportatrici, dunque, di sicurezza. Riporto di seguito, perché si possano sinotticamente comparare i due scritti, la lettera dal carcere e un sonetto dell'aprile del 1934 che, come già "Solitudine", ribadisce il precedente assunto:

" 14 luglio 1935
Isolato dagli uomini, mi volgo alle immagini, richiamo i ricordi di un passato che pare pieno di luce come a trovarvi una prova della vita, una certezza oggettiva che nulla nel presente mi potrebbe fornire. Ma posso realmente parlare di un passato, di un presente, di un futuro? Tutto è qui ristretto in un punto: sono rotte le leggi e l'idea stessa del tempo. Nulla si svolge, un ripetersi identico ferma in se stesso il naturale fluire e passato e futuro sono ridotti a un attimo senza dimensione: perciò neppure il presente pare che esista, poiché non è dato un prima che lo preceda o un poi che ne nasca, e quello che avviene ha già, mentre avviene, il carattere fermo e vago della memoria. Tutto è in lei soltanto, e in lei identico (19) ".
"Scandisco ai passi il ritmo dei pensieri / quattro per due e tredici per tre / in questo andare l'oggi si fa ieri / s'unisce al tempo che già si perdé. // Se potessi fermarmi, volentieri / sosterei a guardarti, come se / fossi su un prato, e fiori ed erbe veri / sotto il tuo corpo fiorisser per me, // o tra le rocce stesa, al caldo sole / mostrassi il collo bianco, e al ventre amico / affidassi i capelli ed il respiro. // Ma informi nebbie son queste parole / che si sciolgon nell'aria, e quel che io dico / non ha più consistenza che un sospiro".
(aprile 1934)

Sostanzialmente borghese, inoltre, era l'estrazione sociale e culturale dei giovani che formavano l'entourage gobettiano, di cui faceva parte anche Levi. E, partendo da tale semplice constatazione, non possiamo dimenticare che alla borghesia torinese apparteneva Guido Gozzano (20), il quale era stato sicuramente soggetto di riflessione da parte di Gobetti circa gli orientamenti "poetici" della letteratura piemontese degli anni Venti (21). Vi sono, però, almeno due ordini di motivi i quali ci spingono a sostenere che Levi non poté subire pienamente l'influenza della poetica di Gozzano o di quella crepuscolare in genere. Il primo è di carattere cronologico. Guido Gozzano pubblicò la sua opera più matura già nel 1911, quando Levi aveva poco più che nove anni, e morì nel 1916, quando Levi invece di anni ne aveva quattordici. In secondo luogo il Levi che gravita intorno a Rivoluzione Liberale vive l'atmosfera di una Torino in cui la borghesia comincia a fare i conti con la classe operala e coi fermenti sindacali e culturali ad essa collegati (22). La Torino del Gozzano, invece, era quella ancora un po' salottiera e preindustriale di fine Ottocento. Così, mentre nelle poesie gozzaniane l'amore e il sesso, in un contesto sociale dominato dall'etica del guadagno e della rispettabilità esteriore, non potevano essere cantati che attraverso il filtro dell'ironia (23). in Levi, invece, in presenza di un diverso atteggiamento dei giovani intellettuali "borghesi", gli stessi temi assumevano il carattere della trasgressione. L'amore diventa speculare e, insieme, complementare al dolore, la vita alla morte e il sesso è tentativo d'annullamento delle barriere della fisicità:

Desiderio di molli / tenere cose colorate / senza forme determinate / ma come donne, sognate. / Boschi peluria sui colli / fantasie, ondulate / colline - anche voi ricordate / gli amplessi; anche / di donne, allungate / al sole, bianche - / ma le figure sdraiate / sul sepolcro, piegate / in piccole pieghe le vesti, abbracciati / in eterno, son boschi, fantasie, ondulate / colline.
(27 settembre 1931)

Come abbiamo potuto notare, sarebbe arduo collocare la poesia di questo primo periodo all'interno di una corrente letteraria ben definita. Spagnoletti (24) aveva sostenuto per primo che Levi sembrava, con le prime liriche, voler "gareggiare" con Saba. Ci sembra quanto meno azzardato parlare d'influenze o d'inserimenti di Levi in questa o quell'altra esperienza poetica. Questo sempre per il motivo anzidetto, ossia che Levi guardò alla poesia con riserbo, coltivandola in margine alla sua attività di scrittore e pittore. Prova ne è che la pubblicazione dei suoi versi era, a dieci anni dalla sua morte, ancora pressoché inedita.
La vicinanza tra Levi e il poeta triestino, per tornare alla proposta interpretativa di Spagnoletti, è da cogliere semmai, nel comune sostrato biografico e autonomo da cui nasce la poesia dei due.
Quello che potrebbe considerarsi il secondo periodo della lirica leviana comprende le poesie che il torinese andò componendo durante il confino.
Sono, queste, poesie sofferte, vive e palpitanti di un intimo travaglio. Ancora una volta, in esse ritroviamo il tema dell'amore, ma anche il senso di isolamento che attanaglia l'artista nei primi mesi del suo soggiorno obbligato in Lucania. Accanto a tali motivi si inserisce, per la prima volta nella lirica leviana, quello del Sud, considerato come entità umana e non geografica o economico-politica; in una parola, il Sud che abbiamo imparato a conoscere e amare dalle pagine dei suoi scritti in prosa, primo fra tutti, ovviamente, quello del Cristo si è fermato a Eboli. Ma, mentre il Cristo è il romanzo della memoria, essendo stato scritto, come si sa, a Firenze, in un rifugio segreto, solo otto anni dopo l'esperienza del confino, le poesie sono un'immediata risposta del cuore e dell'animo a quei paesaggi, a quella gente, a quelle usanze che Levi conosceva per la prima volta. Il periodo del confino segna per Levi un periodo di eccezionale crescita artistica, sottesa ad una crescita inarrestabile della sua umanità e della sua capacità di comprendere senza pregiudizi intellettualistici e, tanto meno, razzistici, il Meridione. Poesia come rivelazione delle cose e delle persone, epifanie visive che diventano canto poetico.
Inoltre, a leggere tutte le poesie di questo secondo periodo, si scopre che molte liriche ricalcano in maniera pressoché fedele pagine del suo romanzo più conosciuto, il Cristo si è fermato a Eboli. La prima a porre in rilievo queste singolari concordanze è stata Lorella Bernini (25). Ora, se si confrontano le poesie che Levi scrisse nel gennaio del 1936 con quanto scriverà otto anni dopo nel Cristo, si noteranno non solo consonanze tematiche stupefacenti, ma anche vere e proprie ripetizioni di medesimi concetti con medesime parole. Si noti: "Anno fastidioso pieno di noia legittima / cominci con l'eclissi / il corso disumano. / Ma a che volgi la mano dagli infantili abissi? / Il volto della vittima è quello del riposo" (gennaio 1936). E così nel Cristo (p. 182 dell'edizione Einaudi del 1992): "[ ... ] Così finì, in un momento indeterminato, l'anno 1935, quest'anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che son venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclissi di sole". In entrambi gli scritti, dunque, il 1935 era stato considerato un "anno fastidioso", pieno solo di "noia legittima" e l'eclissi del 1936 segna l'inizio di quello che, nuovamente con la medesima terminologia in entrambi gli scritti, è definito "il corso disumano".
Nelle poesie del confino, dunque, noi ritroviamo Gagliano con le case imbandierate a lutto, proprio come c'era stato descritto nel romanzo, il becchino dalla voce stridula, ed ancora l'esattore delle tasse, le donne nere come uccelli, ma soprattutto le atmosfere, gli ambienti, i paesaggi, filtrati attraverso il suo animo di artista.

Lucania
Grassano, desolazione / cui tutto manca, dolore e piacere, / abitata dai cafoni / gentili all'ospite e uomini, / Aliano (26), isola tra i burroni / dalle formali maniere / malarica tradizione / di piccoli galantuomini, // o Rocco o Luigi, o miei santi, / non siate severi ai briganti.
(settembre 1935)

A differenza della poesia esordiale, superato l'impatto traumatico con la realtà lucana, Levi cerca di venire fuori dalla sua solitudine e di incontrare gli uomini di quelle terre sconosciute. Il vero protagonista di queste liriche è ancora il simbolo, che Levi usa costantemente come metafora della vita, della morte, dell'amore. Il bosco è adesso metafora del rigoglio della vita, della natura, in aperta opposizione agli scenari lucani, fatti unicamente di nude argille, di terra povera e desolata; ma il bosco diviene anche simbolo d'evasione dal confino. In senso più strettamente politico si potrebbe pensare che Levi proiettasse già nelle sue liriche il desiderio della lotta, antifascista naturalmente, insieme ai compagni, la quale si svolse principalmente sulle montagne, tra i boschi. Si legga a tal proposito la lirica del luglio 1935:

"Scamperò da questa cella / rivedrò la prima stella / salirò sugli alti luoghi / degli antichi sacrifici / passerò senza la manna / i deserti dei mendici / lascerò qui quest'arsura / per un'altra, sull'altura".

Inoltre, come accadrà più tardi per la stesura del Cristo, Levi si affiderà per la composizione delle sue poesie ad una gamma cromatica piuttosto vasta per significare i vari aspetti della sua esistenza e della terra di Lucania. Il nero è il colore degli occhi delle donne e di quelli bassi dei contadini, come anche dei veli che, ancora metaforicamente, sono simbolo di clausura, non solo per Levi, ma anche per l'intera civiltà meridionale (27). Ancora, le argille sono gialle, mentre le nubi sono rosa e il verde è "senza coscienza". Forse è stata questa sapiente opera di "colorazione", dote ereditata dalla sua natura di pittore, la quale ha fatto dire a Perilli che, leggendo le poesie di Levi, sembra ci si ritrovi dinanzi a delle "liriche pittoriche" o a delle "poesie dipinte" (28).

Rosa colore nuovo / tra questi visi affranti / pallide viole, eleganti / tra morti occhi neri, / - se l'altra vita gentile / come il profumo ritrovo / irriperibile ieri / fatto di amore e di grazia / civile; se in voi si riposa / felice lo sguardo e si sazia / dei sensi amorosi lei sola / lontana e primaverile / voi siete, o saffica viola, / o dolce femminea rosa.
(gennaio 1936)

Inutile dire che, dietro quasi tutte le liriche di questo periodo (1935-1936), vi è ancora, trasfigurata, l'immagine della donna amata, lontana da Levi ormai tre anni e dalla quale adesso egli avverte ancora più dolorosamente il distacco (29). In Nuvola serena, Levi compone la lirica giocando sugli effetti di mimetizzazione dell'uno e dell'altra dietro aspetti della natura, i quali sono anche i luoghi che ospitano rispettivamenti i due amanti, scandendo così la lontananza tra i due. La donna amata è"pianta dai rami aperti", "leggera, e fiorita", "bosco", "erba", "volante uccello", "acqua corrente", "nuvola serena". Mentre Levi, confinato in Lucania, si sente ed è, di contro, "sabbia del deserto, / arsa dai venti e rapita / lontano, ad un fosco / orizzonte, zimbello / dell'onde furiose, amara arena, / non giovane non vecchio [ ... ]
C'è da dire che quando la poesia non nasce dal dato biografico o paesaggistico (lo status di confinato, la lontananza dalla donna, la vista, in chiave pessimistica prima, solidale poi di quelle terre desolate, ecc.), Levi si concede troppo ad influenze che potrebbero apparire, ma che non sono, ermetiche. Certamente non deve essergli stata estranea la lettura e quindi la conoscenza di poesie "ermetiche" pubblicate in quegli anni. La sorella dell'artista torinese, recatasi a visitarlo nel suo paese di confino, non poté non portargli, se per caso non l'avesse già, le raccolte poetiche che andavano pubblicando Saba, Montale, Ungaretti, Quasimodo e gli ermetici stricto sensu sin dal 1932. Né poté non informarlo del dibattito che andavano favorendo riviste letterarie come "Il Bargello", "Il Frontespizio" e "Solaria". Si ricordi l'episodio narratoci da Levi nel Cristo, quando cioè riceve la menzionata visita della sorella, e che qui di seguito ripropongo:

"[ ... ] Dopo che ci fummo abbracciati, che mi ebbe portati i saluti di mia madre, di mio padre e dei fratelli, e ci trovammo soli, fuori dagli sguardi della gente, nella cucina della vedova, io cominciai a interrogarla con impazienza, e Luisa, mia sorella, mi raccontò i grandi e piccoli avvenimenti famigliari e privati e pubblici occorsi durante la mia assenza, e quello che facevano i miei amici e le persone a me care, e quello che si diceva in Italia, mi parlò dei quadri e dei libri, e dei pensieri della gente. I quattro giorni della sua permanenza passarono presto. Mi rimasero i libri, le medicine e i consigli, e mi servirono subito[ ... ]" (30).

Infine, ci sono le liriche più commosse, più vere; quelle in cui un Levi ormai libero da pregiudizi, abbandonato il pessimismo della prima ora, conosce, scopre e ama la terra che lo tiene prigioniero. E' questo un punto di svolta importante per capire tutto il resto della poesia leviana. D'ora in poi moltissime liriche avranno come tema centrale il suo amore per il Sud, l'instancabile impegno per esso. Questo, in coincidenza coi mutati atteggiamenti intellettuali e artistici italiani ed europei, segnerà l'inizio di quello che noi potremmo definire il terzo momento della poesia di Levi, di cui parleremo più avanti. Per ora ci basterà leggere una poesia del luglio 1936, quindi degli ultimi giorni del confino, per renderci più chiaramente conto di quanto diciamo:

M'avete fatto umano / baci dolenti, terre nascoste / dove un dolore antico era prima del mio arrivo. // Come un classico dio mendico / sono stato in mezzo al grano / povero e alle scomposte / colline del grigio ulivo; / secoli di pene imposte / e di desiderio vano / sul biondo tuo viso amico come / in quei monti scoprivo // che un egoismo lontano / arse paterno e passivo / spogliando d'erbe l'aprico / terreno e le tenere coste. Alle offerte senza risposte / so solo rispondere, e dico / parole che apran l'arcano / grembo del fonte vivo.

L'arco cronologico, che va dal marzo 1936 al febbraio 1946, rappresenta un periodo di ulteriore maturazione della lirica leviana. Tale decennio fu, oggettivamente, un periodo piuttosto travagliato per Levi, e non soltanto per Levi. Eventi come la seconda guerra mondiale, con i suoi morti e le sue sofferenze, la caduta del fascismo in Italia e del nazismo in Germania, la lotta partigiana, l'olocausto degli ebrei, le lotte e le speranze dei primissimi anni del dopoguerra, non poterono essere analizzati allora, e forse ancora neanche oggi, "con il comune metro del tempo", per dirla con le parole dello stesso Levi. Intensa era stata durante questo periodo la sua attività intellettuale e artistica. Sfuggito in Francia, scrive Paura della libertà, (1939), tornato in Italia (1941) scrive, nel rifugio di Firenze, Cristo si è fermato a Eboli, mentre continua la sua attività di oppositore del fascismo, che dal 1938 aveva emanato, in ossequio alle disposizioni hitleriane, le leggi razziste contro gli ebrei.
Al centro della poesia di questo periodo, dunque, non potevano non trovare spazio e influenze tutti questi eventi, vissuti con particolare animosità dal torinese, con sofferenza, con umana e spesso rassegnata partecipazione.
La guerra, i morti e le sofferenze che Levi vedeva dovunque intorno a sé contribuirono grandemente ad accelerare quel processo di commossa, solidale, umana partecipazione alle tristezze dell'uomo, che era cominciato, come si ricorderà, in Lucania e che troverà il suo compimento nell'immediato dopoguerra. Nell'ottobre del 1943 Levi compone la seguente poesia:

Tra i rami portano l'ore / un rombo di mine e di guerra / ma un muro di fronde chine / pel vento mi cela alla terra. / Celato rimango, come / un germoglio sotto la scorza / dell'albero, che una forza / oscura apre in silenzio.
(ottobre 1943)

L'interpretazione sul piano denotativo di questa poesia non può essere che quello testé accennato e che così potremmo sintetizzare: le ore sono quelle che Levi vive, con ansia e terrore, a Firenze e che recano al Nostro il rumore tremendo delle bombe che i tedeschi, occupanti il capoluogo toscano, fanno esplodere per far saltare ponti e case. Levi, nascosto per non essere braccato dai nazisti, si sente celato da un metaforico muro di fronde. Ma è momentanea questa sorta di sepoltura, come per il germoglio, che una forza oscura, la primavera, farà fiorire. La primavera dell'umanità, rinata dagli orrori della guerra, farà dischiudere Levi al mondo e all'uomo, traendolo dalla sua forzata segregazione e proiettandolo, ora e per tutto il resto della sua esistenza, nel vorticoso movimento della storia.
Nelle poesie di questo periodo più volte ricorre la parola "morte", uno stilema che Levi adopera con duplice valore semantico: quello della morte carduccianamente intesa come cessazione definitiva e irreversibile dell'essere, e quello della morte spirituale, dell'animo, delle idee e della civiltà, che per Levi solo l'arte, e quindi anche la poesia, potrà far rivivere (31).
Si giunge così al secondo dopoguerra. Le poesie che Levi compone dal 1946 in avanti non possono non inserirsi armonicamente in quell'atmosfera di impegno e costruttiva partecipazione che gli intellettuali e gli artisti sostenevano e alimentavano. Non potevano non essere, per dirla con una sola parola, vicini alla corrente artistica del Neorealismo.
Una nuova concezione di fare poesia tende a sostituirsi in questi anni a quella che vedeva nella "purezza", ossia nell'indipendenza da qualsiasi intento didascalico, sociale o politico, il fine ultimo della lirica. Concezione, quella della "poetica dell'impegno", che trova già nell'ultimo Quasimodo un validissimo interprete. Questi, nel 1946, affermava come tutto quanto era successo in Europa e nel mondo in quegli anni aveva finito col buttare il poeta "fuori dalla sua storia interna".
Levi, che pur si era abbandonato nelle prove dei primi anni a vagheggiamenti solipsistici, recepisce tali tendenze e le metabolizza interamente nella sua lirica. Parallelamente alla sua attività pubblica, che lo porterà a vestire, da indipendente, il laticlavio politico sotto le insegne del PCI, riversa nella poesia il suo incontenibile bisogno di denunciare miserie, di proporre soluzioni, di scandagliare (e scandagliarsi) realtà sommerse e dimenticate.
Quasi a segnare simbolicamente l'inizio di un nuovo corso per la sua poesia, Levi compone nel gennaio del 1951 una lirica che ci dà il senso e la portata dell'irrompere dell'arte leviana nella realtà. Si tratta di una lirica che ritrae, come in uno dei suoi quadri, volti, situazioni e atmosfere di un Sud travagliato da molteplici istanze di rinnovamento:

Guarda il ciclista (32) il muro, e fuma, i morti / sono elencati e numerati in calce / bianca: Melissa due, Montescaglioso / uno e feriti quindici, altri tre / Torremaggiore, e alla lista ne manca. // Bianca la calce e bianche l'ossa e bianca / l'argilla che le stringe in fosse avare. / Pesan quell'ossa sotto il piombo, oppure / leggere il vento le ammucchia e trascina / con quelle che ogni giorno, che ogni falce / fame, malaria, fatica perdé? // Fatto hanno case delle sepolture / che l'immobile tempo ha sfatto e roso / tra l'erba stenta nata sulle bare / fissa la capra l'occhio di requia. / All'eterna pazienza contadina / chi conta i morti, chi conta le sorti?
(24 gennaio 1951)

La poesia si rifà ai disordini che attraversarono la Sicilia e tutto il Meridione nel secondo dopoguerra. I moti contadini di quegli anni furono così intensi, per drammaticità e partecipazione di massa, che lo Stato non poté non prendere atto che urgeva nel Meridione d'Italia una riforma dell'assetto sociale ed economico che assecondasse le rivendicazioni contadine. Levi scrisse la lirica su riportata proprio in occasione dell'emanazione della nota Riforma agraria; ciò dimostra come, mutati i tempi, egli vada ora cercando nella quotidianità, nella realtà, i motivi ispiratori della sua lirica. Costanti rimangono ancora una volta le ricorrenti corrispondenze tra poesie e la contemporanea opera in prosa. Si legga quanto Levi scriverà di ritorno dal viaggio in Terra di Riforma: "[ ... ] A San Giovanni in Fiore eravamo stati alla sala dell'Opera, e avevamo parlato con assegnatari sparuti e reticenti; e alla Camera del lavoro, nel calore delle proteste e degli occhi vivi tra i mantelli neri, avevamo ascoltato le poesie contadine contro i metodi della Riforma: "Si si benutu cu la leggi a mmanu / u meritu e chi neri lu sapimu: / i muorti e li feriti re Melissa / e lutte camu fattu e chi facimu (33)" (Se sei venuto con in mano la legge di Riforma, sappiamo chi ne ha merito: sono i morti e i feriti di Melissa, le lotte che abbiamo fatto e che facciamo)".
Quello che abbiamo definito il nuovo corso della poesia leviana è segnato, quindi, da una radicale scelta del torinese di impegnarsi con e per gli uomini, lottare accanto ad essi. In questo periodo conosce personaggi come Rocco Scotellaro (34) suo amico e allievo, il quale lo accompagnò nel viaggio attraverso le terre di Riforma, o come il grande sindacalista foggiano Di Vittorio, figura carismatica stimata e ammirata da molti. Proprio a quest'ultimo si richiama una lirica che Levi compone nell'agosto del 1954, intitolata significativamente Noi esistiamo, ove il pronome è riferito, neanche a dirlo, al contadini; quindi, noi contadini, noi per tanto tempo reietti e dimenticati, ora, grazie alla nuova catechesi impartitaci da uomini dal cuore grande, "esistiamo".
Scrive ancora Levi in Le parole sono pietre: "La Sicilia, come tutto il Mezzogiorno, ma in modi propri e particolari, si muove; e le azioni, le parole, i sentimenti, le lotte, le attese, le morti di cui ho parlato qui, e tutte le altre infinite che avvengono ogni giorno nelle città delle coste e nei villaggi dell'interno, sono momenti del suo sviluppo.
Profondi problemi si pongono e cercano la loro soluzione, ogni giorno, attraverso la vita e il sangue degli uomini" (35). La tematica non è nuova, ed anzi vi è il sospetto che Levi abbia subito le influenze di quello che era stato, per altri versi, un suo allievo: Rocco Scotellaro. Mi riferisco, in particolare, alla lirica che il poeta di Tricarico scrisse in quegli anni, Pozzanghera nera il 18 aprile (36). In questa noi leggiamo: "[ ... ] Siamo entrati in gioco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo molto simile, nel concetto, alla poesia che Levi scriverà poco più tardi:

L'asino è grande come la porta / la casa è grande come una stalla / cinque bambini stanno su un letto / e se dio volle l'altra era morta, / dentro il lamione c'è la Madonna / l'incoronata nera di Foggia / ed il ritratto di Di Vittorio / per la famiglia, l'uomo e la donna, / è un dio del cielo che ci protegge / è una madonna di questo mondo / mettiamo insieme questi dei lari / se vogliamo farci la nostra legge. // Uomini siamo in questo inferno / d'arida terra e di calanchi / ed il lamione è il paradiso dove si muore senza governo. // Ci avete detto che son peccati / muovere i tempi, prender la terra / ma non possiamo ormai fermarci / perché siam nati, noi, e esistiamo. // Ci avete detto che non dobbiamo / muovere i tempi prender la terra / ma non temiamo più di morire / perché soffriamo che siamo nati.

E dal ricordo della visita a Bronte, in Sicilia, nasce la seguente lirica:

Tra glorie antiche e eterne onte / la fatica dei jurnatari (37) / su dal fango dei pagliari (38) / nera copre il feudo a Bronte. / Là la folgore dei mari (39) / in un albergo è sepolta: / qui ogni albero è una fonte / di speranza e di rivolta. / Ha il bracciante chi lo ascolta: / non è solo sopra al monte (40): / avvocati e feudatari / troveranno braccia pronte.
(27 maggio 1957)

La lirica di Levi passa quindi dall'individuo all'umanità, dal particolare all'universale, dall'io al noi. Anche i fatti di cronaca internazionale sono motivo d'ispirazione per la poesia leviana. Si legga ad esempio Viet Nam. Qui Levi tende idealmente la mano ad un paese che simboleggia la lotta di tutti gli sfruttati contro tutti gli sfruttatori, degli oppressi contro gli oppressori, che incarna le speranze di tutti i Sud del mondo (41).
Ma se vogliamo capire la vera essenza della poesia di Levi, ci basta leggere quella che è una sorta di poesia-manifesto-denuncia composta nel gennaio 1972. Chiara per impianto strutturale e per movenze liriche, la poesia, essendo stata scritta tre anni prima della sua morte, rappresenta una sorta di chiarimento programmatico dell'attività artistica, ma anche politica e civile, sino allora svolta dal torinese:

Io canto per amore / della vita, di te, di me stesso / ed il senso e il consenso / e la lotta e il compenso / ed il sesso e l'amplesso / ed i ricordi perduti / e la sorte la morte / e dei piccoli / sconosciuti / la volontà più forte, / la speranza dei delusi / la giustizia degli esclusi / ogni cosa reale, / io canto per amore. // Io canto per amore / ogni cosa che è nuova / e parlando si trova / e si conosce e sta / verde tra quel che muore. / Quello che è libertà / io canto per amore.
(29 gennaio 1972)

Il 1972 segna una fisiologica flessione della poesia leviana verso modi e temi più pacati. Meglio sarebbe affermare che, con l'incalzare della vecchiaia e della cecità, la poesia di Levi si fa malinconica e cupa.
Progressivamente isolato dal contesto culturale del suo tempo, sofferente per l'indifferenza che lo ha colpito in questi anni, l'artista si ripiega nuovamente su se stesso. Ma l'isolamento di questi ultimi anni della sua esistenza niente ha in comune con i malinconici soliloqui della giovinezza, impostigli dall'uomo e spesso ostentati.
Levi scrive e legge poco, le sue poesie non sono più datate; il tempo, infatti, ha perso per Levi la sua importanza, qualunque essa fosse.
In una delle ultime, scrive: "Le cose ingiuste, tu dici, / mi fanno incerto del mondo / e degli uomini fatti numeri / nella volgarità senza fondo / con questa offesa mi hanno mostrato / che non c'è nessun bene certo / e se ho lottato e sperato / per voi non ho che un deserto / in voi, ho trovato un deserto [ ... ]". La poesia è indirizzata ai "compagni", i quali, in un mondo che sta cambiando troppo in fretta e cui Levi non può né sa adattarsi, sono venuti meno ai loro ideali e hanno tradito la fiducia di un uomo, Levi, a cui non resta che piangere di malinconia su un passato / di fiducia e di sacrifici / solidali, di allegria / di compagni, e di rabbia e di sdegno per questo crescendo / trionfo dell'ipocrisia / nella viltà del concerto / dell'anonimo apparato.
Arriviamo, così, agli ultimi anni della sua vita. Ormai cieco, nel buio in cui è immerso, in un ideale stato prenatale, quello che più contano sono i ricordi, i profumi che lo inebriarono, le luci, i colori, le voci che lo ammaliarono e lo spinsero alla battaglia. La parola perde sensibilmente il suo potere evocatore. Ora la poesia è fatta di segni e simboli elementari: il fuoco, l'acqua, l'aria. Levi adesso brama unicamente di tornare a essere a non essere / a temere il sole d'estate / le forme del frutto che s'apre / nelle crepe della maturità / ritrovare le rocce atteggiate / come antichi grembi e dorsi / le conchiglie dischiuse, i simboli / della preistorica adolescenza / ritrovare il verde buio della foresta / i vaghi sentieri, l'incanto / del caldo animale della sera / della prova, dei segni dell'acqua.
L'ultima poesia è, idealmente, il sigillo di tutta la sua esistenza, e recita:

Qualche cosa è finita / che non tornerà più, mai: / del pianto si è inaridita / la fonte; ed i gesti gai / sembran d'un'altra vita, ove odorai.


NOTE
1) Cfr. M. M. Lamberti, Il dott. Carlo Levi pittore, in Archivio di Stato di Torino, Un'esperienza culturale e politica nella Torino degli anni Trenta, Torino, 1985, pp. 13-39.
2) Cfr. C. Levi, Bosco di Evo, poesie, a cura di P. Perilli, Roma, Mancosu editore, 1993.
3) Cfr. V. Barani, Come "non" pubblicare gli inediti di Carlo Levi, in "Otto/Novecento", (1993), 6, pp. 215-220.
4) Secondo la stessa Barani, a Linuccia Saba spettava il compito di visionare ed operare una scelta delle liriche migliori del poeta.
5) In una lettera di Linuccia Saba a Levi si legge: "Io sto molto allo studio e le poesie sono quasi finite. Quelle scritte al confino mi piacciono veramente e senza riserve. Credo che, anche essendo molto severi, farai bene a pubblicarle. Se sapessi che ti fermi un po' a Torino te ne manderei una scelta che potresti far vedere lì a qualche amico. Lo puoi fare senza timore". (Lettera di Linuccia Saba a Carlo Levi del 16 luglio 1947, Fondo manoscritti, Università di Pavia, carte Carlo Levi, epistolario).
6) Frequente sarà, come si vedrà più avanti, l'uso nella poesia di Levi dell'enjambement, al quale è affidato il compito di scandire il penoso senso di malinconia che attanaglia l'autore.
7) Cfr. G. Leopardi, Alla luna, vv. 1-3 e 9, oltre che, naturalmente, l'idillio intitolato proprio La vita solitaria.
8) Cfr. F. Petrarca, Solo e pensoso i più deserti campi, v. 2.
9) Il riferimento è alla donna-soggetto destinataria della poesia, già menzionata al primo verso della lirica da quell'aggettivo "cara", che non può essere riferito, come potrebbe anche sembrare, alla terra. La lontananza per tre anni dalla donna amata ha spinto Levi a instaurare una sorta di epistolario ideale con essa, cui confida i propri tormenti. In molte poesie delle prime due raccolte è presente il riferimento, diretto o indiretto, a questa donna.
10) Cfr. N. Tranfaglia, Il Tribunale Speciale e il confino nel moderno Stato di polizia, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, XXII, Torino, UTET, 1995, pp. 529-537. Di particolare interesse storico-documentario è il saggio di L. Musci, Il confino fascista di polizia. L'apparato statale di fronte al dissenso politico e sociale, in A. Dal Pont-S. Carolini, L'Italia al confino, Milano, La Pietre, 1983, Vol. I.
11) Si riferisce forse ai tentativi dell'autorità fascista di provare la colpevolezza dei più di ottanta arrestati nell'operazione di polizia di cui abbiamo detto. La strategia di difesa di Levi e dei suoi compagni era stata preparata già a priori. In caso d'arresto si doveva negare e negare, pure l'evidenza.
12) Il perimetro della cella in cui è detenuto.
13) Cfr. C. Levi, Gli anni di "Energie Nuove", in "Il Contemporaneo", 18 febbraio 1956.
14) Cfr. lettera di Ada a Piero Gobetti del 25 settembre 1919, in Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza, Lettere 1918-1926, a cura di Ersilia Alessandrona Perona, Torino, Einaudi, 1991, pp. 173-174.
15) Scrive Norberto Bobbio: "L'immagine di Carlo Levi è per me inscindibile da quella del mondo gobettiano in cui si era formato nella Torino degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, quando aveva fatto le prime prove di pittore e di scrittore collaborando alle riviste gobettiane" (N. Bobbio, Levi, artista gobettiano, in "La Stampa" del 17/6/1990).
16) Si veda, almeno, il saggio di A. D'Orsi, Carlo Levi nella Torino gobettiana, in "Nuova Antologia", 131, 1986, 4, pp. 155-173.
17) Citazione tratta dal carteggio tra Carlo Levi e Natalino Sapegno, pubblicato in due puntate, e col titolo La fraterna amicizia dei gobettiani Carlo Levi e Natalino Sapegno, su "Basilicata", Matera, gennaio 1986, pp. 13-20. Cfr. anche N. Bobbio, L'insegnamento di Piero Gobetti, in "Rinascita", III, 1946, 7, pp. 157-163. Oggi in AA.VV., Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, Roma, Bulzoni, 1974-1979, 5 Voll., V, (1979), pp. 627-651.
18) Compone nell'aprile del 1934: "[ ... ] Questi che io stringo in metri e sembran veri / paesi e terre e affetti, altro non sono / che larve di memoria onde abbisogno [ ... ]".
19) Il brano è stato tratto da C. Levi, Quaderno di prigionia, che A. Mastrovecchio riporta in "Galleria", n. 3-6, 1967.
20) Cfr. G. Bàrberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori Editore, 1976.
21) Cfr. N. Bobbio, Gozzano e Gobetti, in L'Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Passigli, Firenze, 1986, pp. 9-33.
22) Cfr. Cultura e letteratura nel primo ventennio del secolo, in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951.
23) Cfr. G. Bàrberi Squarotti, La città, la provincia, l'amore in Poesia, op. cit.
24) Cfr. G. Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Roma, Newton Compton, 1993, p. 568.
25) L. Bernini, Per le poesie di Carlo Levi, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Pavia nell'a. a. 1985/'86, relatrice la Prof.ssa M.A. Grignani.
26) Si noti come, per le poesie, Levi non alteri il nome dei paesi lucani che lo videro confinato, cosa che fece invece nel Cristo.
27) "Esci da questi chiusi / segni, dai veli neri / e dagli occhi pazienti / dei dolori e degli usi, / e ritrovare i misteri allegri dei viventi." (novembre 1935).
28) Cfr. C. Levi, Bosco di Eva, op. cit., p. 7.
29) Così in Fiore reciso: "Vorrei essere con te sulla riva / dove ti ho conosciuta / e dipingendo il tuo viso / ho mutato la mia vita. / Danzando con te si scopriva / l'anima sprovveduta / e mi tremava in un riso / tuo, di gioia spaurita. / Da questa chiusa afa estiva tre anni di vita perduta / lontano dal tuo paradiso / e dalla tua bocca smaritata; / la vita che si apriva / nostra, non anco goduta / come un bocciuolo reciso / è stata, ed ecco, è svanita" (luglio 1935).
30) C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, ed. del 1992, Torino, Einaudi, pp. 72 e 80.
31) Si legga, per maggiore chiarezza, il saggio che Levi compose, proprio durante questo periodo, dal titolo Paura della pittura (sta in C. Levi, Paura della libertà, Torino, Einaudi, 1946, pp. 127-134).
32) Forse il riferimento è al noto ciclista italiano Bartali, una delle prime figure che entrarono prepotentemente nell'immaginario collettivo di molti paesetti del Meridione e, nel nostro caso, della Sicilia, nel secondo dopoguerra. Scrive Carlo Levi in una pagina di Le parole sono pietre: "[ ... ] In un angolo, davanti a una stanzetta nera, seduto su una sedia sgangherata, un vecchio costruiva con pazienza Paladini di Francia. [ ... ] Altri paladini, di zucchero, con meravigliosi colori e armi d'argento e d'oro e pennacchi rossi e azzurri sugli elmi, stavano nelle vetrine di qualche oscura bottega, insieme a rosee donne nude a cavallo di un gallo, e a dei Bartali in bicicletta. Erano i primi a comparire, di quelli che si dovevano dare ai bambini per la festa dei Santi, il primo novembre [ ... ]" (C. Levi, Le parole sono pietre, Torino, Einaudi, 1955, cit., p. 61).
33) Cfr. C. Levi, Le parole, op. cit., 1955, pp. 18-19.
34) Fu così grande l'affetto e la stima che legarono Levi al suo giovane allievo, Rocco Scotellaro, che non poté non ricordarlo come validissimo e affezionato compagno, proprio durante il viaggio-inchiesta che intraprese nel Sud e da cui nascono molte sue liriche. Scrive il poeta: "[ ... ] Nel mio racconto non avevo parlato di lui [Scotellaro], ma tuttavia egli era presente in ogni pagina, in ogni parola. Non mi aveva lasciato un momento in questa breve corsa nelle terre della Riforma; e volle prendere per me gli appunti, con l'affettuosa modestia dei suoi modi di ragazzo, scrivendoli, come era sua abitudine, su pezzetti di carta, su pacchetti di sigarette, su scatole di cerini; parlò con i contadini con quella sua capacità di rapporto diretto che riusciva ad aprire facilmente anche le bocche e gli animi più serrati[ ... ]. Vorrei qui non soltanto ricordarlo e salutarlo, ma parlare più a lungo di lui, del poeta della libertà contadina [ ... ]. Qui resta soltanto il ricordo e il rimpianto [ ... ]". (Cfr. C. Levi, Le parole, op. cit., pp. 22-26).
35) C. Levi, Ibidem, p. 31.
36) Sta in R. Scotellaro, E' fatto giorno, (poesie), Milano, Mondadori, 1954, p. 26.
37) I braccianti siciliani del fondo agricolo della Ducea di Bronte e del Meridione in generale, ove vivono, miseramente, di quello che possono guadagnare giornalmente.
38) Le case dei contadini, costruite con paglia e fango.
39) Potrebbe anche essere un indiretto riferimento alla flotta regale di Orazio Nelson (1758-1805). Il marinaio inglese, infatti, per il contributo dato a Re Ferdinando di Borbone nel reprimere la Rivoluzione napoletana del 1799, ebbe come compenso il feudo di Bronte in Sicilia.
40) Sopra il monte, ove vive nelle pagliare, non è più solo, ma accanto e intorno ad esso comincia a nascere una nuova consapevolezza e una nuova dignità contadina.
41) Ovviamente, la poesia si presta ad essere letta sotto una prospettiva puramente politica, anzi meramente marxistica. Una lettura, questa, che semplicisticamente riduce e travisa la vera natura della poesia leviana di questo periodo.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000