Donvito, tra economia e Mezzogiorno




Domenico Di Nuovo



Meridionalista pugliese di spicco, Giovanni Carano Donvito è da ascriversi tra quei personaggi che - nonostante la rettitudine morale e politica e il grande spessore intellettuale - non hanno la fortuna di essere famosi. Identica sorte raramente coinvolge le figure di Salvemini, Fiore e De Viti De Marco, che si sono spesi con le opere e l'attivismo civile e politico alla causa del Mezzogiorno. Eppure a leggere i suoi studi, supportati da una competenza professionale universitaria oltreché dagli ideali liberali, è faticoso comprenderne l'ingiusta dimenticanza. Spiegare il velo d'oblio che è caduto sull'economista di Gioia del Colle (nato nel 1873 e morto nel 1949) è un compito delicato, che sfuma allorquando si prende in considerazione la sua vasta attività pubblicistica, oscillante tra le ricerche in campo finanziario e le problematiche agricole del Sud. E in questo il suo contributo storico ed economico non fu meno importante ed essenziale del Professore molfettese, dell'autore di Popolo di formiche o del Salentino; come pure non sfigurò accanto all'Einaudi, al Croce, al Fortunato e allo Zanotti Bianco, dei quali condivise la strenua opposizione al fascismo.
Cattolico liberale, antiprotezionista e liberista (sempre però attento alle istanze delle masse rurali), pur essendo "figlio" della borghesia cittadina giacché il padre era uno stimato notaio, mise a disposizione la sua competenza fiscale e tributaria all'approfondimento delle cause relative al persistente dualismo economico e all'arretratezza delle strutture agrarie. Una passione culturale che non si limitò a stendere un'impietosa diagnosi sui "mali" della questione meridionale, bensì individuò dei correttivi che per lui consistevano nell'abolizione della politica protezionista, nel sostegno al "libero scambio", nel perseguimento di un nuovo regime tributario e infine nella lotta contro il bolscevismo e la collettivizzazione delle terre.
Prima di tracciare una rapida sintesi del rapporto tra la sua visione economica, la Puglia e il Meridione, appare opportuno segnalare alcuni tra gli argomenti affrontati durante il corso di diversi lustri di insegnamento. Si rivolse alla trattazione del reato fiscale e si batté per una codificazione del diritto tributario; sviluppò una teoria sullo sciopero in rapporto alle perdite economiche e trattò dei problemi connessi al salario e al costo di produzione; approfondì il rapporto tra l'emigrazione e la finanza pubblica ed estese i suoi interessi alle questioni di politica monetaria, doganale e commerciale. Le sue collaborazioni spaziarono sulle principali riviste tecniche dell'epoca, tra cui La rivista internazionale di scienze sociali, La Riforma sociale, La Rivista popolare di N. Colajanni e la stessa Rivista di legislazione tributaria da lui fondata e diretta nel 1907. Tra le opere più ponderose ricordiamo I teoremi fondamentali della Statistica e dinamica finanziaria, Il Trattato di Economia commerciale e di Istituzioni doganali e Le lezioni di Scienza delle Finanze. Nondimeno, costituirono oggetto della sua analisi l'economia di Federico il Grande, gli ebrei in Puglia, la rivoluzione inglese del 1648-1688 e l'Impero Romano.
Fatta questa carrellata di argomenti storico-giuridici ed economici, sarebbe un'operazione monca trascurare i più importanti interessi meridionalistici, per i quali appunto la sua competenza professionale e lo spessore culturale furono il naturale sostrato. La "summa" del suo pensiero è contenuta ne L'economia meridionale prima e dopo il Risorgimento, l'opera più ponderosa e poderosa che egli abbia scritto sul Mezzogiorno. Pubblicata nel 1928 per i tipi della Vallecchi di Firenze, il libro - che uscì nella collana diretta da Umberto Zanotti Bianco - raccoglie il meglio della sua produzione di saggi, studi e inchieste apparsi su riviste e opuscoli in oltre venticinque anni, a partire dagli inizi del Novecento. In esso il Carano illustra quale sia la situazione socio-economica e finanziaria nel Regno delle Due Sicilie: un'agricoltura "squallida", industrie "decadenti", i commerci "languidi" nonché il più assoluto protezionismo, esteso persino al sistema bancario. In pratica, un sistema ancora allo stato feudale per il cui risollevamento non bastarono nemmeno i numerosi provvedimenti sanciti. Se questa era la precaria realtà prima dell'unificazione d'Italia, sostanziali progressi non se ne fecero nemmeno dopo il 1861. Per il professore economista il perno della questione meridionale, che è per lo più sinonimo di "questione agraria", risiede nella cronica carenza di capitali per gli investimenti. Come sostiene nell'introduzione alla parte relativa allo stato delle finanze nel dopo-Risorgimento, "l'agricoltura, ciò è la base della nostra economia, era prevalentissimamente estensiva. Per progredire, occorreva avviarsi sempre più decisamente alla intensiva; qui la tragedia del capitale […]. E lo Stato non fece che aggravare vieppiù la tragedia per ben tre vie, una più disastrosa delle altre: la larga, affrettata vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici, la rapacità del fisco, il fantastico ordinamento del "credito".
La distorta politica finanziaria che Carano Donvito sintetizza nella "gran fretta di fare e di ... strafare, di guadagnare il tempo perduto del passato regime, di spendere e spesso di…spandere senza alcuna vera conoscenza delle nostre fonti tributarie, anzi con la più cieca ignoranza e con la più fatale illusione sulla potenzialità tributaria delle nostre Regioni" rappresenta una delle cause maggiori del malessere dei contadini e della fragilità del sistema agrario: un sistema sostanzialmente immobile poiché privò dei necessari capitali d'esercizio. Questi convincimenti scaturiscono giammai da considerazioni teoriche, quanto invece dalle pratiche esperienze di indagine che egli compì nel Sud all'indomani dell'incarico affidatogli dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni dei contadini nel Mezzogiorno, presieduta dal sen. Faina. La sua parte di inchiesta tese ad illustrare con l'aiuto di dati e di prospetti le influenze della finanza sulle popolazioni e gli enti locali. Le risultanze del triennale lavoro (dal 1906 al 1909) vennero alla fine raccolte nella sezione delle Monografie speciali e sono a tutt'oggi parte integrante degli Atti d'inchiesta.
Dunque, poca saggezza e lungimiranza contraddistinguono la politica economico-finanziaria dei governi post-unitari. Alle vessazioni del fisco (tramite le mille imposte, dazi e gabelle) si è aggiunto l'incameramento dei vasti beni ecclesiastici da parte dello Stato, svuotando il Sud dei necessari capitali. Nel volume Carano Donvito sostiene che una diversa procedura avrebbe dovuto essere intrapresa, per cui anziché ricorrere alle massicce vendite si sarebbe dovuto privilegiare l'istituto dell'enfiteusi, il quale da una parte avrebbe risparmiato il "capitale mobile", dall'altra avrebbe gradualmente consentito il passaggio di quelle proprietà dallo Stato ai cittadini, quindi agli agricoltori. Solo grazie alle emigrazioni massive e alle rimesse d'oltre Atlantico iniziano un reale processo di riequilibrio economico e la ricostituzione del capitale mobiliare. "Si liquidarono - dice - molte posizioni di antichi proprietari soffocati nelle spire di onerosi e gravosi debiti ipotecari, e si vennero quindi, per un verso, sminuzzando gli antichi vasti possessi fondiari, e per l'altro una classe di nuovi proprietari, più moderni, più agguerriti di energie e di capitali".
La ricaduta nel baratro arriva puntualmente nel dopoguerra quando si assiste al rallentamento del movimento migratorio che riduce in modo drastico l'accumulazione dei capitali e in più si ricrea un esubero di manodopera che "svaluta" il lavoro. A questo si è poi associato l'aumento spropositato dell'inflazione che ha prodotto effetti deleteri, specialmente nelle regioni meridionali, ove l'accumulo di ricchezza raggiunta nei decenni precedenti si è ridotto al punto di interrompere qualunque discorso di ripresa sociale ed economica. Il periodo in questione è particolarmente turbolento ed è segnato da moti e da proteste che interessano la Puglia bracciantile. E' il periodo nel quale - all'insegna del motto "la terra ai contadini" - c'è un largo e talvolta spropositato ricorso all'occupazione delle campagne, con violenze ed eccidi. Carano Donvito vi si sofferma per biasimare le suggestioni bolsceviche e i tentativi di collettivizzazione della proprietà. E come potrebbe essere diversamente, vista la sua indole liberale? Egli propugna la libera iniziativa privata, la non ingerenza dello Stato nell'economia e nei rapporti di mercato, l'associazionismo imprenditoriale e un sano cooperativismo. Afferma infatti a proposito: "Noi non siamo rigidi individualisti, assoluti liberisti; comprendiamo invece bene […] il valore dell'associazione e della cooperazione; ma siamo, per non mai smentita esperienza, avversari decisi, convinti di quell'interventismo statale, di quel Socialismo di Stato, di marca teutonica, e che fu, com'è stato ben dimostrato, una delle non ultime cause della rovina germanica […]. Sono persuaso che una delle maggiori, più urgenti riforme del dopoguerra sia appunto questa di spogliare oramai lo Stato di tutto quel cumulo di compiti economici, in gran parte estranei alla sua natura ed alla sua vera funzione, per ridurlo nei giusti limiti della sua normale funzione politica, permettendogli così di compiere quest'ultima col dovuto vigore e precisione".
Anche nel Sud le questioni economiche andrebbero affrontate nel corretto equilibrio tra "individualismo" e "cooperativismo", tra la spontanea iniziativa privata e il senso di appartenenza a un'associazione, tra l'interesse individuale che tende a scomparire in uno "Stato produttore" e il dover collaborare assieme ad altri lavoratori in un'azione complementare e sinergica. Detto questo, l'avvenire dell'agricoltura è da ricercarsi nell'associazione e più propriamente nella sua "industrializzazione".
La chiave di volta di questo processo è la costituzione di grandi società anonime, con sufficienti capitali: di esse i primi azionisti sarebbero gli stessi proprietari fondiari e gli altri i fornitori o produttori di macchine, concime, ecc., come pure gli istituti bancari. "Una grande società anonima - sottolinea -, a differenza delle piccole e medie aziende attuali, a lunga scadenza, si gioverebbe dell'opera di valenti e ben pagati direttori tecnici coadiuvati dai relativi consigli di amministrazione, avrebbe mezzi, senza bisogno di pitoccarli a chicchessia, per bonificare terreni, per costruire grandi serbatoi per irrigazioni, per migliorare viabilità, per impiantare gabinetti, per fare esperimenti su larga scala, per mettere industrie di prima lavorazione e sul mercato prodotti più tipici". Si attuerebbe, in una parola, quella che in economia politica si chiama la legge del concentramento, col distinguo che mentre "i socialisti di Stato", ossia i fautori dello statalismo, vogliono il concentramento nel grande apparato dello Stato, anche in modo coatto, i sostenitori del libero mercato invece in grandi organismi di natura economica.
Soffermandosi poi sui tumultuosi eventi con un'abilità descrittiva che racchiude la dimensione storica, sociale ed economica della Puglia, il Professore non manca di parlare, negli ultimi capitoli, della tragedia agraria di Gioia del Colle (luglio 1920), degli aspetti della lotta di classe nella Terra di Bari e del fenomeno del cooperativismo agricolo in Capitanata. Siamo negli anni del "biennio rosso" (1919-1920), e anche nelle vaste distese del Tavoliere si registrano, come altrove o forse più d'altrove, eccitazioni di masse rurali, invasioni e occupazioni di terreni altrui. Quando lo Stato interviene coi decreti Visocchi e Falcioni (rispettivamente del 1919 e del 1920) per dare una parvenza giuridica alle invasioni promosse dai braccianti, il tutto è già avvenuto.
Il Carano si sofferma a parlare dell'inutile lavoro svolto dall'apposita Commissione provinciale di Foggia. Stando ai verbali delle sedute, l'organismo incaricato di assegnare i terreni alle cooperative avrebbe di fatto funzionato pochissimo. E di questo fallimento la maggiore responsabile sarebbe stata la realtà cooperativistica locale, assolutamente impreparata sia dal punto di vista tecnico-economico che morale. Difetti che egli riconduce allo "sciagurato bolscevismo", allora imperante persino nelle campagne meridionali. Molti altri aspetti di studio meriterebbero di essere riletti e meditati a fondo, se non fosse per il carattere tecnicistico delle argomentazioni. E' la dimostrazione chiara della competenza e della passione intellettuale che contraddistinsero la battaglia meridionalista, a sostegno di un nuovo mondo rurale.
Della stessa Collezione di studi meridionali fa parte il libro sugli Economisti di Puglia, uscito postumo nel 1956. L'opera si presenta incompleta giacché la raccolta degli studi, pubblicati su delle riviste, venne effettuata quando - già anziano - mancavano pochi mesi alla morte. Oltre allo "sguardo storico sintetico" inerente gli economisti, maggiori e minori, succedutisi dal '500 all'800, la prevalenza degli interessi è incentrata sul marchese Palmieri, sull'abate Luca De Samuele Cagnazzi e in misura inferiore sui vari Milizia, Briganti, Rotondo, Bellissari o Acquaviva, Del Re, Cognetti-De Martiis e tanti altri ancora. Balza agli occhi la completa assenza dell'altro grande economista e meridionalista, il marchese Antonio De Viti de Marco (contemporaneo del Carano), che Umberto Zanotti Bianco non manca di puntualizzare nella presentazione del volume. Il silenzio assoluto sul conterraneo andrebbe forse ricercato nella precaria salute dell'Autore, il quale aveva in animo la volontà di farne un'opera più organica e completa.
Sin qui, dunque, una fugace illustrazione della visione economica di uno di quei "formiconi" di Puglia che Tommaso Fiore ebbe modo di citare nell'omonima opera. Disse infatti di lui: "Il professore di scienze politiche ed economiche era piccolo e gracile, quasi trasparente, ma aveva un animo di ferro […] degnamente affiancò De Viti de Marco e Salvemini nella storica battaglia nazionale contro il protezionismo, con un suo particolare contributo di studi ininterrotti su per le riviste tecniche e del tempo. Così ebbe modo di prevedere e denunciare la "depressione economica" che schiudeva le porte al fascismo, e si dichiarò apertamente avversario del ministro del tempo, che era Volpi.
Morì con in bocca, ultime parole: "L'acqua e le strade!".
Antifascista per eccellenza, a costo di non tradire l'onestà intellettuale Carano rinunciò persino alla cattedra nell'Università di Bari (di cui fu uno dei propugnatori assieme a Beltrani, Petraglione e Modugno), per non sottoporsi al giuramento di fedeltà al regime. Già il 5 aprile del 1925 aveva aderito al comizio antifascista di Bari, che segnò la più clamorosa protesta nel Sud contro i provvedimenti eccezionali. E in più di una circostanza si avvalse della sua preparazione per mostrare l'inadeguatezza e l'improvvisazione della politica economica perseguita sotto la dittatura.
Molte altre note si potrebbero riferire sulla vita professionale, culturale e civile dell'economista di Gioia del Colle. Che cioè abbia condiviso con Salvemini la polemica antigovernativa, nell'anteguerra mondiale, sulla fiorentina Unità. Che sia stato libero docente di Scienza delle finanze e diritto finanziario nell'Università di Napoli, dal 1905. Che inoltre abbia trascorso gli anni del primo conflitto a Foggia, in qualità di professore di Economia politica presso l'Istituto Tecnico "P. Giannone". Si potrebbe infine ricordare che fu tra i firmatari del "Manifesto" redatto da Benedetto Croce, come è stato pure tra i rinomati collaboratori della Rivoluzione liberale di P. Gobetti, prima che la rivista venisse soppressa.
Non possiamo tuttavia fare a meno di sottolineare, al termine di queste note, l'alto rapporto che sino alla fine stabilì tra il suo (il nostro) Mezzogiorno e la sua concezione liberale, crociana-einaudiana. Il seguente brano, apparso su Il giornale degli economisti nel 1946, sintetizza meglio di qualunque trattato quanto dinnanzi asserito: "Lo Stato limiti il suo compito a fare del Mezzogiorno ciò che gli individui non furono, non sono e non saranno mai in grado di fare, isolatamente presi: costruisca strade, ricostruisca la terra, rimboscando direttamente i territori più elevati e, favorendo il rimboschimento delle pendici più basse, regoli il deflusso delle acque, intraprenda le bonifiche delle paludi malariche della pianura. Se, diceva Einaudi, lo Stato si limiterà a collaborare in tale guisa alla ricostruzione della terra, avrà finalmente trovato la via per fare il bene, facendosi perdonare il molto male fin qui compiuto e lasciato compiere ad altri". Il precettore Carano impartisce a distanza di cinquant'anni lezioni che, oggi come ieri, suonano di stringente attualità per i teorici liberisti a ventiquattro carati.

 

ERRATA CORRIGE
Caro Direttore,
nel servizio da me curato, intitolato "Donvito, tra economia e Mezzogiorno" ed apparso sul numero IV, Dicembre 1998, ho erroneamente asserito che l'intellettuale Giovanni Carano Donvito rinunciò alla cattedra nell'Università di Bari "per non sottoporsi al giuramento di fedeltà al fascismo".
In realtà, egli fu allontanato dall'insegnamento, nel 1933, a causa di un articolo di politica monetaria alquanto critico nei confronti del regime.
Chiedo scusa a Lei e ai lettori.
Manfredonia, 1 febbraio 1999
Cordialmente Domenico Di Nuovo


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