Amnestia, non amnesia




Aldo Bello



L'inferno, sulla Terra, ha molti nomi, dal Sahara al Gobi, dall'Himalaia al triangolo delle Bermude e ai vulcani del Pacifico. Ma nessuno riassume meglio della Patagonia la desolazione dei luoghi, la crudeltà dei deserti, la ferocia dei ghiacci. Qui tutto è furibondo: un continente che svanisce nella morsa di due oceani, l'insensata malinconia delle banchise che pullulano di pinguini e di cormorani, il grigio ostinato del cielo e del mare, il vento che rasoia il vuoto più ostico del mondo, i nevai che si avvitano sulle cordigliere e sfagliano a valle con tonfi devastanti.
Difficile assistere a un tramonto. Il sole è sopra le nuvole di gelo. Più difficile capire l'allegria smodata dei delfini che mulinano tra le sagome imponenti delle balene. Impossibile poi dialogare con i piccoli indios Jagan e Acaluf studiati - lombrosianamente - dal piemontese capitano di vascello Giacomo Bove, che prima di esplorare la Terra del Fuoco aveva partecipato alla spedizione che aveva aperto tra il Circolo polare artico norvegese e lo Stretto di Bering il "passaggio a Nord-Est". Impervio parlarci, perché il loro vocabolario è ricco di trentamila parole, quando i profeti del Vecchio Testamento ne usavano appena seimila. Sopravvivono, costoro, nudi sotto le pelli di foca, unti di grasso per difendersi dal freddo, facendo vita nomade, tagliando le onde stratosferiche con canoe veloci come barracuda. Prima di Bove li aveva conosciuti Darwin, e dopo di lui li avevano incontrati Padre Alberto De Agostini (dal 1914 al 1954), poi Luis Sepùlveda, poi ancora Bruce Chatwin. Tutti esterrefatti dalla loro capacità di far fronte alla volubilità apocalittica della natura: tempeste di neve, scontri di correnti marine sul punto cruciale dell'unica fascia della Terra percorribile tutta per mare, passando a sud dell'Australia e del Capo di Buona Speranza, slavine di ghiaccio che precipitano nello Stretto di Magellano da duemila metri d'altezza, scogli che emergono torvi dal pelo dell'acqua e hanno nomi disperati: Isola Furia, Isola dei Defunti, Isola del Diavolo, Isola Desolada. Tra isola e isola, cimiteri di navi e memorie marinare da incubo.
E' il Mondo della fine del mondo, come ha scritto Sepùlveda: la terra in cui la primavera è sotto zero, per la gioia dei leoni marini e delle procellarie dalle ali d'acciaio; l'estate disgela primitivi licheni e schiude milioni di uova; e, senza soluzione di continuità, l'autunno e l'inverno alternano miracolose luminosità ad algide oscurità nel giro di pochi minuti. Un lembo emerso per anacoreti masochisti o per avventurieri che combattevano la noia mettendosi la morte in tasca, al punto che chi doppiava Capo Horn, il promontorio di geografia incostante e di sicura perfidia, si metteva un orecchino al lobo dell'orecchio, segno della riuscita di un'impresa da filo di rasoio.
Ancora oggi ci vuole molto coraggio e un po' di disprezzo della vita per affrontare questo particolare inferno. E sarà per questo che, già al primo impatto, si capisce il silenzioso avvertimento del Creatore: qui è persino inutile aver paura.
Questa terra desolata, che ha l'Antartide a vista, rischiò di diventare italiana. Nel 1868, infatti, proprio mentre il cosiddetto "brigantaggio" meridionale cominciava ad entrare in crisi, un presidente del Consiglio, il generale Luigi Menabrea, ritenne che il problema dei "fuorbanditi" potesse essere risolto con la creazione di un lager in Patagonia, dove i meridionali, abituati a stagioni estive caldissime e ad inverni miti, avrebbero trovato una temperatura media di dodici gradi sotto zero: quanto bastava e avanzava per sterminarli con la complicità del clima, dell'abbandono e della fame.
In una lettera indirizzata al plenipotenziario Enrico Della Croce di Loyola, datata 16 settembre '68, e firmata dal Menabrea, è scritto che "si deve porgere ogni cura per quanto si riferisce all'efficacia dei sistemi punitivi onde migliorare la condizione morale del nostro paese [...]. Ella non ignora certamente in quali tristi condizioni versino alcune parti d'Italia ed Ella ben conosce come già più volte abbia dato opera a ricercare se, col mezzo degli stabilimenti penali in lontane contrade e colla deportazione dei rei, non raggiungerebbesi quel miglioramento che, nelle condizioni presenti, è pressoché impossibile ottenere col sistema in vigore della reclusione".
Alla premessa seguiva la proposta: "In tempi addietro furono fatti studi per fondare uno stabilimento di simil natura nelle regioni bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori argentini e le regioni deserte. Quel progetto, rimasto allo stadio di semplice studio preparatorio, potrebbe forse utilmente essere coltivato".
Finalità del progetto: l'acquisto della Terra del Fuoco, senza che ciò significasse imposizione di una sovranità italiana al di là dell'Atlantico: "Le terre da noi eventualmente scelte sarebbero fra quelle totalmente disabitate e l'occupazione non avrebbe in vista lo stabilimento di una Colonia". Insomma, un puro e semplice campo di sterminio per deportati meridionali, a cinque mesi di navigazione dalla loro terra natale.
La risposta del plenipotenziario argentino fu inequivocabile: "La repubblica argentina ha preteso e tutt'ora pretende un assoluto diritto di neutralità sulle terre - tutte - al di qua e al di là dello Stretto di Magellano. La sovranità argentina sulle zone indicate da Vostra Eccellenza è incontestabile essendo colà un luogo ove sorgeva l'antica missione di Carmen e un forte occupato dagli argentini [...]. Poca speranza mi rimane che ai disegni del Governo italiano possano essere favorevoli gli animi di questi Governanti, i quali, infatti, negarono la vendita, l'ospitalità, l'affitto, il comodato"".
Così il Sudamerica evitò di esportare un massacro, che aveva già indotto Napoleone III, evidentemente informato di quanto accadeva in Italia, ad affermare che "nemmeno i Borboni potevano fare di peggio", e che avevano visto il deputato Mancini, che ne doveva discutere in Parlamento, lavarsi pilatescamente le mani, sostenendo: "Preferisco non fare rivelazioni di cui l'Europa potrebbe inorridire". E così si imbiancarono i sepolcri della conquista del Sud.
C'erano state macchie orrende nella storia dell'unificazione della penisola. Dal giorno della strage di Bronte ad opera del Bixio a quelli della cancellazione di interi paesi dalla carta geografica italiana, come Campochiaro, Guardiaregia, Casalduni e Pontelandolfo, fino alle stragi di contadini meridionali che registrarono come rilevò Denis Mack Smith - più caduti di tutte quante le guerre del Risorgimento, fu applicato con determinazione il "salutare terrore" richiesto e ottenuto da Minghetti e perseguito con ferocia indiscriminata dai La Marmora, dai Cialdini, dai Persano, dai Bava Beccaris, coraggiosi fucilatori di prigionieri, e per questo insigniti delle più alte onorificenze, che stendevano un velo di regime sulle terga velocemente voltate a Custoza o a Lissa, o sui cannoneggiamenti contro la folla inerme per le strade di Milano.
In questo contesto rientrava la proposta del Menabrea, che aveva una sua logica terrificante: spedire in capo al mondo, perché vi lasciassero la pelle, i componenti di quell'"ultimo ceto" che un altro ineffabile generale, aiutante di campo del "Re galantuomo", Vittorio Emanuele II, (alias Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia, oppure innominato figlio di un tal Tanaca, macellaio della fiorentina Porta Romana, che secondo D'Azeglio, nemico esplicito dell'Unità, quale fu fatta, sostituì l'autentico successore, perito in un incendio provocato dalla nutrice), il Solaroli, riteneva "le più grandi canaglie", da fucilare senza processo, senza costose detenzioni e senza informare l'opinione pubblica.
Del resto, i piemontesi erano esperti in campi di sterminio per meridionali. Uno era stato installato in una depressione naturale alla periferia di San Maurizio, nel Canavese, a poca distanza da Torino. Civiltà Cattolica ne scrisse nel 1861: i prigionieri, soldati borbonici e papalini da "rieducare", giungevano nel porto di Genova dopo tre-quattro giorni di navigazione, stipati sottocoperta come bestie, e dopo almeno una settimana di marce forzate raggiungevano il campo, le cui condizioni erano orrende: "mezza razione di cattivo pane" e una ciotola di brodaglia al giorno. In un'area in cui per otto mesi all'anno il termometro scendeva sotto lo zero, erano costretti a dormire in tende senza giaciglio. Morivano come mosche per fame e per freddo.
Quando il generale Manfredo Fanti scrisse a Cavour per chiedergli di noleggiare navigli all'estero, perché la Marina non era in grado di deportare al Nord quarantamila prigionieri, furono attrezzati altri lager: nel territorio di San Benigno Canavese, ad Alessandria, a Fenestrelle di Val Chisone (fra le nevi, a 1.200 metri d'altitudine, in casematte senza finestre), nel territorio di Milano, nelle isole Capraia, Gorgona, Giglio, Ponza, in Sardegna, in Maremma. Si chiede Lorenzo Del Boca, nel suo aureo Maledetti Savoia: "Quanti morti? Quanti storpiati per sempre? Quanti lasciati impazzire dal dolore e dalla nostalgia? Certo, le vittime dovettero essere migliaia, anche se non vennero registrate da nessuna parte. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo. Morti di nessuno. Terroni".
I nostri desaparecidos.
Perché riferisco questi fatti? Perché sono rimasti assolutamente sconosciuti. La storia è stata scritta da zelanti filosabaudi, che hanno nobilitato una dinastia di rozzi mascalzoni e ladri del pubblico erario, di corruttori, di cannoneggiatori di città, di nani accidiosi. E ha sorvolato su tutto, persino - è cronaca che abbiamo vissuto - sui diciotto treni che presero la via della Svizzera portando al sicuro, tra la caduta del fascismo e la caduta della monarchia, quanto di prezioso era contenuto nei palazzi reali e nelle biblioteche, tutto ciò che fu umanamente possibile far scomparire, dai tesori della corona a un intero vagone di documenti, solo in minima parte restituiti all'Italia, nei quali è scritta la storia dei Savoia, cioè la nostra storia. Quella vera, e non l'altra, costruita sul culto dei falsi eroi e sulla retorica di regime. E ora che i Savoia vogliono tornare nel nostro Paese, debbono compiere un gesto in parte riparatore: si tengano pure quanto hanno rapinato allo Stato, ma rendano quanto hanno rapinato alla storia italiana, perché siano cancellate per sempre le menzogne che hanno originato le nostre avventure più rovinose.
Tutto ciò che emerge dalle ricerche di Del Boca completa, in un certo senso, l'analisi che era stata avviata a suo tempo da Carlo Alianello, col suo La conquista del Sud. Era partito, questo scrittore e storico, con un romanzo-verità presto dimenticato, L'alfiere, nel quale descriveva la spedizione dei Mille, ma vista dalla parte dei borbonici: era il contraltare di Da Quarto al Volturno, del celebratissimo garibaldino Giulio Cesare Abba. Poi Alianello, decisamente filoborbonico, aveva gettato un masso nelle acque paludose della storia italiana, con pamphlet sull'invasione militare e sull'annessione del Reame che passò immediatamente nel dimenticatoio, come se si trattasse - e in realtà si trattava - di una vergogna di famiglia. Del Boca filoborbonico non è: ha solo gettato un altro macigno su un'epoca storica, sui suoi retroscena, sulle vicende che portarono all'Unità della penisola, intorno alle quali la storiografia italiana, compresa quella attuale, si è comportata con inimmaginabile doppiezza, e sulle quali ha scelto di tacere, o di non indagare, o di indagare negando la verità, lasciandola in un ambiguo cono d'ombra. Si sa, i tempi da noi "maturano" con ritmi molto vicini all'eternità.
Quella verità, o quelle verità, non alimentano la disunità degli italiani, che semmai proprio quei silenzi, quelle menzogne e quelle distorsioni hanno contribuito a determinare.
Sicuramente, serviranno a chiarirci da dove venivamo e dove tutti insieme possiamo eventualmente andare, se riusciremo a superare pregiudizi, odii, discriminazioni, e quant'altro ha avvelenato la nostra antropologia culturale, politica ed economica fino ai nostri giorni. E altrettanto sicuramente l'amnestia non può contare sull'amnesia, ma sulla conoscenza, sulla consapevolezza e sull'intelligenza di tutti i cittadini di questa nostra imperfettissima repubblica. Un popolo senza memoria non esiste come popolo. Un popolo che sedimenta quelle memorie e ne fa una lezione di comportamento per il futuro crea gli statuti fondamentali della propria vita politica e civile. Ed evita che possano prender quota epigoni del Menabrea che auspicano la nascita di Patagonie in patria, con muri che recingano la disperazione di milioni di nuove gavette di ghiaccio, in ritirata verso la deriva mediterranea.


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