Artigianato: dalla parte dell'uomo




Gennaro Pistolese



La mia "traversata" da giornalista di quasi un secolo mi ha consentito una consuetudine di conoscenze, di riflessioni, di impegni con l'Artigianato, naturalmente italiano, ma anche di altri Paesi, non solo europei, bensì pure americani e asiatici. E ne ho visto ovunque lo stesso volto e cioè le stesse fondamenta spirituali e spesso culturali da ricercare prima ancora che nel sudore della fronte, nella mano dell'uomo: Quest'ultima presenta pure nelle civiltà tecnologiche più avanzate, spesso con la giustificazione dell'hobby.
Perciò questo è un campo nel quale non esistono soluzioni di continuità. Nessun mio stupore perciò allorché, mesi or sono, mi è occorso di leggere che quattro ceramisti di 2300 anni fa hanno lasciato i segni delle loro mani sulla creta e sulla vernice di vasi ritrovati da archeologi e studiosi in un'officina di Metaponto, così da rendere riconoscibili le differenti specializzazioni e persino gesti professionali più tipici degli antichi artigiani.
Il mio itinerario artigiano ha avuto inizio nel '36-'37, allorché mi avvidi che il settimanale della federazione artigiani, L'Artigiano riproduceva senza il mio consenso e senza alcun proposito retributivo miei articoli che nulla avevano a che fare con l'artigianato. Eppure, diventavano addirittura fondi. E' nel 1938 invece che mi fu offerto di divenire capo dell'ufficio stampa e studi della Federazione artigiani, allora inquadrata nella Confindustria, con incarichi esclusivi fino al 1943 e dal 1946 aggiunti agli altri fino agli inizi di quest'anno.
I ricordi e le cose da dire sono o sarebbero tante, anche perché la bibliografia in materia non è molto ricca. La stessa rilevanza politica della materia ha subìto alterne vicende. Le stesse espressioni del lavoro artigiano sono mutate nel tempo, nei livelli, nello stesso comportamento della domanda, nella composizione dell'intercambio, in un mondo che oggi comincia ad affrontare le incognite della globalizzazione. Anche l'artigiano, quindi, viandante del mondo e forse lui lo è stato e lo è più di tanti altri. E ciò perché il suo linguaggio, quello in particolare di certi suoi mestieri, è stato sempre universale.
Pur avendo vissuto concretamente nel mio io queste convinzioni, o meglio queste constatazioni, a me è occorso intorno agli anni Sessanta di essere bersaglio a Piazza Navona, a Roma, della protesta di un artigiano, che avendo ascoltato il mio sommesso giudizio negativo su di un suo lavoro espresso a mia moglie, mi disse sdegnato: "Secondo lei l'artigianato deve morire?". Il mio no corrispondeva certamente al suo, nella sicura reciproca convinzione che doveva essere migliore. E i tempi, come si sa, la stanno facendo da acceleratore.

Tre fasi, con la terza più lunga e dinamica
Chi mi ha seguito in questi miei "medaglioncini" sa che essi tentano di tratteggiare ambienti e uomini nei quali la vita mi ha calato come osservatore od operatore.
La prima fase e che conosco è quella immediatamente fascista. Era l'epoca delle cosiddette comunità artigiane, con qualche poeta o intellettuale prevalentemente milanese che si era posto a capo di poco militanti artigiani. Uno di questi capi era, se non erro, Brunialti, successivamente largamente ignoto.
C'era però a quel tempo un altro intellettuale, questa volta dichiaratamente fascista, astigiano, e per giunta cognato di Arnaldo Mussolini, avendo entrambi sposato due sorelle.
Inizia così la seconda fase, o meglio la metà di essa. Essa porta il nome di Vincenzo Buronzo, la persona che Mussolini al cambio della guardia nella presidenza sul finire del '39 definì, con una smorfia forse dispregiativa, con "era un poeta...".
Buronzo, che ho avuto come presidente dall'aprile '38 al novembre '39 aveva per me una virtù essenziale, derivantegli dalla convinzione che l'artigiano dovesse essere artisticamente e anche tecnicamente assistito: di qui l'ENAPI con l'ufficio artistico, con l'ufficio tecnico per i brevetti e quello commerciale per il marketing. Ma egli aveva pure una squilibrata attitudine operativa (quella che ne suggeriva la frequente sostituzione dei suoi direttori o segretari generali, prontamente assorbiti dalla Confindustria perché di buon livello); e una sempre insoddisfatta aspirazione ad un inesistente perfezionismo: otto ore per scrivere un articolo di fondo per un settimanale, con margini di lettori sempre più ridotti quanto più lo sforzo di perfezionismo era elevato: intere giornate per scrivere e imparare a memoria i discorsi che avrebbe pronunciato.
Buronzo si era fatto così un nome, preparato dietro le quinte, che gli consentiva distanze pure formali con i propri collaboratori, taluni dei quali, forse per essere napoletani, gli baciavano anche le mani. Vi erano le eccezioni. Una di queste non è stata però quella di chi l'ha preso ad esempio dall'adolescenza alla morte, ed è quello che è stato celebrato quale suo successore nell'anniversario della morte: uomo guida dell'artigianato, ed a me è occorso di esserne stato il "consulente" per tutta la sua carriera.
"Consulente": un termine che per essere all'altezza del suo compito trascura o dimentica addirittura l'architettura del pensiero di chi assiste e perciò deve essere pure inventata.
Con me Buronzo ha avuto tutt'altro rapporto. Mi aveva assegnato il compito di trasformare il settimanale in tre mesi, e mi disse con compiacimento per lui - e figuriamoci per me - che il cambiamento era avvenuto molto prima. Per lui perciò io ero l'uomo giusto, ma per quanto ancora lo sarei stato? Non sapeva certamente che altrettanto mi è occorso di fare cinque lustri dopo nella direzione de Il Sole. L'aver cambiato faccia a questo giornale come fu anche scritto, sono solo i riconoscimenti di allora a ricordarlo, perché chi scrive per la sua età non ha bisogno di riconoscimenti, ma solo di controllare con se stesso se i suoi conti personali tornano.
Occasionali sono comunque i motivi che mi hanno condotto all'ufficio stampa - e feci aggiungere io "studi" dell'Artigianato. Il primo motivo è stato che quello che ne sarebbe divenuto segretario generale era un ingegnere, che nel 1927 partecipava al concorso di direttore della Scuola Arti e Mestieri di Tripoli. Io in quell'anno, da matricola universitaria della Sapienza di Roma, avevo organizzato il primo viaggio universitario a Tripoli. Non raggiungemmo il numero di iscritti necessario e perciò accogliemmo universitari e professori di Padova e anche l'aspirante ingegnere. Rimanemmo amici, ma da lontano. Ad avvicinarci furono le frequenti sue visite al nonno, già presidente della Corte dei Conti, che abitava in un palazzo dirimpettaio del mio. La strada si chiamava e si chiama con il suggestivo nome di Quintino Sella.
Quando il mio nome fu proposto a Buronzo, questi lo accolse favorevolmente. Ricordava il mio comportamento, da lui definito energico, alla Corporazione delle Professioni e delle Arti dell'anno prima, allorché in rappresentanza dei dipendenti degli studi professionali (molto più semplicemente dattilografe) dichiarai che non poteva essere discusso fra le "varie" il problema del contratto di lavoro della categoria. Pavolini, quello dell'ultima raffica, era perentorio nel chiedere il contrario, ma io mi limitai a dire che se la discussione fosse continuata, portando ad un voto, io avrei votato contro e sarebbe stata la prima volta che una Corporazione non avesse votato all'unanimità. Non se ne fece più nulla. Dalla mia parte si schierò solo il rappresentante dei lavoratori del credito, Gian Pietro Pellegrino, successivamente ministro del Tesoro a Salò. E di me si disse che ero un "ragazzaccio", da esonerare da compiti corporativi. Il mio presidente di allora ai Lavoratori del Commercio mi designò invece a membro aggregato della Corporazione del Legno. Da lui ho imparato molto. Forse è l'unica persona dalla quale abbia tanto imparato nella mia vita di lavoro. E perciò se per lui non fu gradito il mio trasferimento all'Artigianato (mi disse "lo fai pure senza il preavviso di otto giorni delle donne di servizio"), volle riconoscermi per iscritto tutti i miei "meriti". Devo dire che per me non fu facile il mio distacco da lui, che pure era stimolato da più favorevoli prospettive di carriera e retributive.
Alla Confindustria, dove già avevo un amico che mi faceva strada, con il quale insolitamente per lui ci davamo del tu (parlo di Giovan Battista Codina, al quale la mia vita, i miei ricordi, tutto intero il mio passato sono legati), fui accolto con un allora più che mai inconsueto incontro con il Direttore generale della Confindustria, Giovanni Balella. Credetti di trarre vantaggio nel mio trasferimento alla Confindustria con la mia rinuncia a membro della Corporazione del Legno. Ma Balella mi fece rilevare che mi aveva già fatto nominare membro aggregato della Corporazione delle Professioni e delle Arti, in rappresentanza della categoria dei fotografi.
Un buono, ma inconcludente inizio per me, perché questa corporazione da allora non si è mai riunita. Le corporazioni erano divenute fuori moda. Vari comitati, sempre presieduti da Mussolini, si avvicendavano e si succedevano. Ognuno aveva la prerogativa di annullare le funzioni del precedente istituto. Il regime dopo la proclamazione dell'Impero, dopo la guerra di Spagna, dopo l'asse Roma-Berlino, dopo il razzismo, dopo le dichiarazioni di guerra che Hitler annuciava all'alba a Mussolini, perdette la coscienza di se stesso, acquisendo i disastri che si conoscono e che sono in gran parte il segno della irresponsabilità. Togliamo perciò a Mussolini tutti gli aggettivi che si è dati o che gli hanno dato e lasciamogli solo quello che forse solitario gli ho attribuito e cioè di grande giornalista sbagliato. Forse egli stesso dall'aldilà mi darà ragione e addirittura ne potrà restare lusingato, perché chi scrive alla mia età parla più che altro per se stesso e solo per la verità, come l'ha vista, affrontata, subita.
Ma che cosa era l'Artigianato a quei tempi? Il regime non se ne è mai seriamente e direttamente interessato: l'ha ritenuto o una filiazione più o meno artistica di secondo grado. L'ha dato in consegna alla Confindustria, alla quale faceva comodo per motivi di rappresentanza numerica. Gli artigiani erano più numerosi dei piccoli industriali. Si pensi che gli abbonati al settimanale artigiano erano 300mila e non sapevano di esserlo, perché in quegli anni il contributo sindacale veniva a pesare sulle cartelle esattoriali e le dieci lire allora dovute erano state indebitamente trasferite dalle categorie al pagamento dell'abbonamento al settimanale. Il nulla dovuto per l'abbonamento era spiegato con una cartolina gialla. Così si riusciva a suscitare l'invidia dei periodici del tempo, che a rilevante inferiore distanza dovevano confrontarsi con un oscuro, modesto settimanale. Anche per l'editoria, esistono questi scherzi.

La fase Buronzo
Di questa fase sono stato partecipe nel solo biennio del suo finale. La sua sede in Piazza Venezia, nel palazzo delle Assicurazioni, mi ha fatto dirimpettaio di Mussolini fino alla conclusione del regime. Lo intravvedevo con lo sguardo rivolto alla piazza nascosto dalle tende azzurre dell'oscuramento apposte alle finestre del salone del Mappamondo. Una lampada accesa perennemente sul fondo del salone faceva di lui un capo insonne, che invece di fatto era solo immaginazione popolare e rozza propaganda.
Trovai un ufficio stampa composto in maniera quanto mai singolare. Nessun giornalista, ma un artigiano restauratore, uno dei tanti segretari gratuiti di Marinetti che più che agire commentava a modo suo, un ingegnere che era lì perché aveva sposato la figlia dello scrittore Milanesi e a questa dedicava il suo approssimativo tuttofare. Ma riuscimmo a muoverci lo stesso per un quinquennio.
Il complesso del personale centrale, a parte i direttori, era certamente meno qualificato di quello che avevo trovato nella Confederazione dei Lavoratori del commercio. Il suo reclutamento era stato più distratto e la stessa Confindustria poco aveva fatto per migliorarlo, prelevandone però, quando c'erano, gli elementi migliori. Tutto al centro si fondava sulla rappresentatività di Buronzo, con i supporti che lui stesso cercava e curava alla periferia con il buon livello delle dirigenze regionali. Discorsi e articoli di giornali, affiancati dalla generica simpatia del regime (Mussolini si vantava di essere figlio di un fabbro) erano diretti più all'autoesaltazione della categoria, che non alla determinazione e soluzione dei suoi problemi. Per anni si è parlato della patente di mestiere, ma il grosso del loro sviluppo o spesso sopravvivenza gli artigiani dovevano farselo da sé. Tuttavia i meriti di Buronzo restano: sono quelli di aver sempre creduto nell'artigianato, di avergli dato un minimo di coagulo organizzativo, di aver intuito che l'artigiano senza assistenza artistica, tecnica e commerciale avrebbe fatta poca strada.
Un salto di qualità venne compiuto invece con il cambio della guardia nella presidenza intervenuto sul finire del 1930. L'occasione fu determinata dalla sostituzione del segretario del partito Starace, un gerarca che aveva esercitato quel ruolo per una decina d'anni, dando corpo e spesso anche il nome (di frequente il suo suggeritore era proprio Mussolini, che però lo faceva negare) a tipi enfatici di saluti al "duce", a contenuti risibili di fogli d'ordine, ad esercitazioni ginniche dei gerarchi nei cerchi di fuoco, a nuotate mirabolanti e così via. Tutto ciò aveva alla fine risultati di popolarità e di simpatia opposti a quelli attesi e lo stesso Mussolini, anche se tardi, se ne accorse.
Un altro segretario nazionale di partito gli subentrava. Ma questi era un pilota di guerra, un eroe della guerra di Spagna, un ex squadrista aitante ed esuberante, con i suoi amici naturalmente, ma raccolti con l'ironica fantasia romagnola: nella fattispecie ravennate.
I segretari federali di estrazione staraciana furono sostituiti e comparvero così sulla piazza nelle liste d'attesa, per nuovi incarichi non sempre conseguiti.
Un'eccezione fra le maggiori è stata quella del federale di Torino, staraciano di ferro, Piero Gazzotti, organizzatore delle adunate "oceaniche" che accolsero Mussolini a Torino. Una Torino che Gazzotti riuscì a far apparire per primo anziché sabauda entusiasticamente fascista: con le accoglienze al Lingotto e con il vibrante saluto romano e fascista del senatore Giovanni Agnelli, con l'orbace tanto deprecata e negata poi dal nipote.
Mussolini, nel cambio della guardia della presidenza a Palazzo Venezia, ebbe a pronunciare un discorso di vivo elogio delle capacità sindacali, economiche, organizzative di Gazzotti, che suscitò in me la più grande e pure ironica sorpresa, perché i miei primi contatti con il nuovo presidente mi avevano condotto ad opposte conclusioni. Giudicai allora Mussolini o un pessimo conoscitore di uomini o un istrione. Penso oggi che sia stato e l'uno e l'altro, sottolineandone anche una sua certa timidezza nel predisporre i cambi della guardia. Li faceva annunciare, all'insaputa degli interessati (dei quali se erano ministri aveva una lettera di dimissioni da utilizzare quando lo riteneva), alle undici di sera e non sarebbero mai state accompagnate da commento: era ordinaria amministrazione, proclamata proprio quando non esisteva.
La mia frequentazione con Gazzotti, dal posto da me occupato e che per lui era essenziale, e cioè l'ufficio stampa, mi ha consentito di stabilirne l'esatto livello di capacità. E cioè: sapeva scegliere i suoi collaboratori, fraternizzava subito con loro. "Fascistizzava" al massimo l'organismo - quale che fosse - che era chiamato a dirigere, cercava in tutti i modi che il riflettore di vertice fosse costantemente puntato pure su di lui, era aperto a tutte le inventive così motivate. Capirlo in queste sue attitudini significava divenirne non solo collaboratore insostituibile, ma anche consigliere primario e amico. A me è occorsa questa ventura, che fra l'altro non mi è stata particolarmente difficile.
Ho ricordato altre volte, forse anche su queste pagine, che in un incontro sulle scale dell'EIAR fra Giuseppe Bottai e Gazzotti, cui anch'io ero presente, il primo nel rallegrarsi con il secondo per il suo nuovo incarico ebbe a dirgli: "Tutto sta nel dare impronta e peso all'incarico che si ha, quale esso sia. A me il Duce conferendomi l'incarico di ministro dell'Educazione ebbe a dirmi che c'era da fare solo dell'ordinaria amministrazione. Io invece ho varato la Carta della Scuola".
Bottai, come si sa, ha avuto sempre la predilezione per le Carte (si ricordi quella del Lavoro), è stato presidente dell'INPS, il Governatore di Roma, quello per 40 giorni di Addis Abeba, ha fatto tutte le guerre in calendario, tranne quella di Spagna. Ha cercato sempre di essere presente con il suo "io" dove il suo sentire - oltre pure talvolta la coscienza - lo conduceva. Ha compiuto errori, ma ha saputo anche cercare di riscattarsi. Non l'ho visto che una sola volta, ma ricordo che subito dopo la marcia su Roma fondò una rivista che si chiamava Critica Fascista. Era stato fondatore del fascismo romano, già futurista, già ardito di guerra della prima guerra mondiale, già comandante delle squadre fasciste che dal quartiere tiburtino entravano in Roma, essendo stato dal Re abrogato lo stato d'assedio. L'ambizione di Bottai è stata sempre quella di far riconoscere che sempre c'era anche lui, anche quando si trattava di pagare: il suo conclusivo arruolamento nella Legione Straniera sta a ricordarlo.
Gazzotti, pur a livello largamente inferiore, era fatto della stessa stoffa. Voleva far sapere di continuo che dove stava lui c'era sempre qualcosa che si muoveva in senso fascista. Aveva un desiderio permanente: quello di far muovere il settore nel quale era allocato, di richiamare l'attenzione di Mussolini e avere il più frequentemente possibile l'occasione di incontrarlo. Per lui l'artigianato doveva essere assolutamente fascista. I suoi problemi sarebbero stati risolti più o meno alla stessa maniera di prima, però se possibile anche con altre iniziative.
La mia prima interpretazione di questa sua aspirazione fu quella di suggerirgli di cambiare la testata de L'Artigiano in quella de L'Artigianato Fascista. Mi disse subito: "preparami un telegramma per il Duce". E poi iniziò una serie di editoriali su problemi artigiani che io gli scrivevo e che erano preceduti da una mezza colonna scritta personalmente da lui, in cui gli artigiani venivano esortati ad essere fascisti condividendo problemi ed esigenze generali del momento. Sempre sul piano giornalistico riusciva a far pubblicare alcuni suoi articoli (erano scritti miei d'occasione) su Il Popolo d'Italia, ma ciò avveniva solo quando la mia macchina da scrivere aveva vinto le proprie indolenze al riguardo.
Ogni tanto mi diceva: "Non vado da Mussolini da molto tempo, che possiamo fare?". Una volta l'occasione fu la presentazione di un bollettino ciclostilato che aveva per oggetto problemi internazionali dell'Artigianato. Un'altra volta fu la presentazione del progetto per la costituzione di un Istituto mediterraneo e coloniale dell'Artigianato, denominato "Alessandro Mussolini".
Accompagnai Gazzotti in questa visita, attendendolo in anticamera. Ne uscì soddisfatto. Mussolini aveva dato il suo assenso, aveva elargito duecentomila lire per l'esecuzione del progetto in un'area di Ostia che avrebbe dovuto essere messa a disposizione da parte del Governatore di Roma. Ma si era espresso contrario alla denominazione Alessandro Mussolini, che considerava un atto di improduttiva piaggeria. Non altrettanto aveva fatto per le scuole intestate alla madre, maestra elementare, Rosa Maltoni. (La storia mi ha sempre ricordato l'importanza eccezionale dell'aver avuto come madre un'insegnante elementare. È un titolo di studio per un figlio che vale più di tante lauree). Sennonché l'indomani i giornali pubblicarono il comunicato come io l'avevo predisposto, con il fabbro di scena. Ripensamento o disattenzione del Duce nell'inserimento compiaciuto sempre, quando si trattava di Gazzotti, del comunicato nella cartella da inviare al ministero della Cultura popolare?.
Un'altra occasione ancora fu la presentazione al Duce di un paio di scarpe autarchiche, delle quali ancora mi vergogno. Erano di tela con una suola articolata in pezzi di legno sui quali erano sovrapposti alcuni tondini di gomma, ricavati da gomme d'auto esauste. Mussolini esaminò compiaciuto queste scarpe: erano presenti, me compreso, anche i massimi dirigenti dell'Artigianato tedesco. Ma quelli erano i tempi in cui Mussolini comandava che le mele in Italia, come quelle presentategli, dovessero tutte pesare almeno mezzo chilo.
Gazzotti è stato questo e l'Artigianato con lui ha vissuto fino al termine del regime. Di lui si è scritto che il 26 luglio ha cercato di passare il confine di Bardonecchia con i lingotti d'oro, che invece non c'erano e furono smentiti dallo stesso Badoglio. Io con altri due gli sono rimasto accanto in questa vicenda ed ho fatto per lui quanto dovevo fare con la pubblicazione della smentita sui giornali di Roma, in ciò aiutato da Vittorio Gorresio. Mussolini lo sottopose ad un lungo Purgatorio nominandolo presidente dell'Ente tessile autarchico poco prima del 25 aprile del 1945. Gazzotti è venuto a trovarmi dopo di allora, con un ruolo semplicemente scambiato: prima io accompagnavo lui; dopo lui accompagnava me. Eravamo, dunque, amici e per me quella politica aveva esaurito il suo tempo. Quanto gratificante è l'animo umano quando riesce a dirci queste cose e la stessa conclusiva vecchiaia ci consente di dire che l'unica contabilità veramente perenne è questa.

L'Artigianato in più di mezzo secolo
Un nuovo spirito, una nuova struttura, una nuova dinamica hanno caratterizzato l'Artigianato nell'ultimo mezzo secolo del millennio. Le organizzazioni nazionali sono divenute tre o quattro, nella scia delle opposte ispirazioni politiche. Una sola è stata la maggiore, la più trainante, più stabilmente motivata, ed è stata la Confederazione Generale, con la permanenza mia nell'intero mezzo secolo ai suoi vertici diretti e indiretti, in parallelo con le mie prevalenti funzioni nella Confindustria.
Difatti della Confederazione sono stato consulente diretto della presidenza e della direzione generale, avendo concluso i miei incarichi nel settore di consulente dell'Artigiancassa, nel campo degli studi, della stampa e della propaganda. Il 1992 è stato l'anno del mio commiato.
Avevo visto l'Artigianato ai primi albori del secondo decennio fascista e l'ho continuato a vedere fino alla morte del suo presidente onorario, Manlio Germozzi, del quale mi è occorso di dover scrivere l'introduzione al volume che ne ha celebrato l'anniversario della morte.
Dire di Germozzi, da me conosciuto, seguito, e in parte non secondaria forse anche consigliato naturalmente in bene ma anche in inconsapevole male dal 1938, scrivere di lui mi è sembrato perciò anche scrivere, con la dovuta modestia, anche di me stesso. C'era infatti simbiosi tra noi due: io cercavo di interpretare lui, lui cercava di interpretare me. Eravamo profondamente diversi, come caratteri, radici, livelli di affinità, ma abbiamo camminato insieme, in reciproca soddisfatta coerenza.
Fino al 1943 era stato segretario dell'Artigianato romano, essendo anche delegato della Confederazione trasferitasi nella cosiddetta Repubblica Sociale. Il 5 giugno 1944, giorno della liberazione di Roma, era lo stesso al suo posto, pensando alla rinascita e alla ricostruzione. Io avevo preferito essere cercato e sollecitato dalla Confindustria per ridare il mio contributo nel campo della stampa e della propaganda e poco dopo dallo stesso Germozzi per dare il mio apporto, che era giornalistico ma anche politico, all'Artigianato che si rinnovava. Germozzi invece non si era mosso dal suo posto, pur nelle contraddizioni delle vicende e degli incarichi che aveva ricoperti. Mi venne riferito che si compiacesse di fruire della collaborazione - la mia - di uno che da tre sue parole faceva discendere premesse e conclusioni di profonda ed esatta meditazione e applicabilità. Ma non sono certo, a mio modo di vedere, le benemerenze o intuizioni personali a valere, bensì il fatto che abbiamo potuto compiere insieme un lungo cammino.
Gli inizi della Confederazione Generale risalgono proprio al 4 giugno 1944, con la costituzione ufficiale il 10 gennaio 1945.
Nell'intreccio tra intuizioni, battaglie, conquiste, l'Artigianato ha coperto e vinto tante tappe. Quando, ad esempio, si rileva che 15 milioni di persone operano nelle dimensioni minori contro 5mila nella grande industria, quando si guarda alle radici del made in Italy, quando si esaltano le tradizioni produttive che in tanti centri italiani si rinnovano e continuano ad elevarsi a prototipi d'arte, quando si riscontra la progressiva incidenza richiesta da produzione e servizi, quando ancora gli orizzonti dischiusi dalla tecnologia - cui anche gli artigiani con le loro invenzioni minori da secoli concorrono - si espandono e si fa appello nelle stesse applicazioni alla mente e alla mano dell'uomo, c'è stato sempre anche Germozzi, come ci sono quanti agli stessi vertici oggi ne continuano l'opera, avente come meta il progresso.
Ma l'espressione del rinnovamento conseguito dall'Artigianato in questi ultimi decenni, la stessa natura delle sue rivendicazioni, la stessa dimensione, anche aziendale, delle sue allocazioni, hanno trovato, nella parola e nell'azione, alcuni punti fermi, da sempre rivivere, ma sempre soprattutto da sospingere oltre.
E perciò sono da sottolineare in questa panoramica, che riaffiora dalla mia memoria di testimone:
- la naturale capacità artigiana determinante non solo nelle fasi congiunturali positive, ma anche e soprattutto in quelle di crisi, da sempre potenziare. Ed oggi siamo appunto in una fase se non di crisi certo estremamente delicata e difficile (in termini di sviluppo, di occupazione, di Mezzogiorno che pone l'Artigianato nell'interesse del Paese in prima linea).
- la crescente attualizzazione dell'Artigianato non solo per il suddetto motivo, ma nella pratica dei suoi valori essenziali, che riguardano la libertà, la creatività del lavoro, l'identità della persona con l'impresa, la vocazione all'insegnamento nei confronti dei giovani, la stretta saldatura con la famiglia che frequentemente vive unita nella sfera del lavoro. Su questo terreno tante sono le risposte che la nostra società continua a sollecitare e che sono tanto più urgenti, quanto più l'artigianato certamente ha continuato ad avanzare, prevalentemente con le sue forze, né protette o incentivate come altre.
E perciò si guarda risolutamente innanzi.
Così l'Artigianato, come anche noi l'abbiamo potuto vivere in questi anni, si presenta al Paese con una cultura che sa essere sempre nuova; con la capacità di risposta alla domanda di rinnovamento che si leva dalla nostra società. Di qui la denuncia artigiana che comporta il ripensamento dello Stato sociale, alla luce delle esperienze fin qui compiute e che sono largamente negative in termini non solo di rapporti costi-ricavi, ma anche di ingiustificabili sperequazioni alla luce pure di un'autocritica, che deve sempre meglio qualificarsi non solo nella denuncia, ma anche nella costruzione.
Oggi c'è da aggiungere la globalizzazione, che per l'Artigianato però non è mai stato un fenomeno in fieri. Ricordiamo infatti che il primo viandante del mondo è stato sempre l'artigiano, cui fra l'altro vanno attribuite tutte le iniziative di integrazione, di collaborazione anche organizzativa intervenuta in Italia per l'Artigianato occidentale e mediterraneo pure a cominciare dagli anni Trenta.
Molti però sono ancora i ribaltamenti che devono essere compiuti, avendo lo sguardo rivolto all'artigiano non solo impresa, ma anche cittadino. E perciò determinanti sono e saranno: un rinnovamento della struttura statale diretto a garantire efficienza (la sua inefficienza, invece, comporta per le imprese un costo non distante da quello provocato dall'inflazione), piena giustizia, eliminazione del parassitismo pubblico in parte secondaria pure di pretesa socialità, che è ancora nella fase dei propositi, a parte qualche passo innanzi certamente compiuto in forza pure dell'azione della Confederazione Generale; una progettualità organica (il termine "programmazione" non mi è congeniale, perché ha sempre manifestato un esercizio abusivo, in conseguenza di deviazioni e aberrazioni politiche, fino a tradursi in "libro dei sogni") che non è ancora entrata in azione. Di qui la persistente latitanza della strutturazione, fra l'altro quella della spesa, latitanza che non solo va combattuta, ma realmente sconfitta, senza altri indugi.
E i bersagli per l'Artigianato di ieri e di oggi non possono essere che quelli di una fiscalità che promette, ma non si placa. A quest'ultimo proposito mi piace ricordare come scritto oggi il pensiero di un nostro egregio economista del primo decennio del secolo, "Qualcuno imbecille - insegnava Pantaleoni - può inventare ed imporre tasse. L'abilità consiste nel a) ridurre le stesse, dando nondimeno servizi efficienti corrispondenti all'importo delle tasse; b) fissare le tasse in modo che non ostacolino la produzione o per lo meno che la danneggino il meno possibile.
Il monito fa parte degli studi, dei fondamenti storici della nostra economia, con particolare riferimento per quelle piccole imprese - fra queste, in prima linea, quelle artigiane - che devono subire gravami oltrepassanti la misura dei balzelli, a causa pure delle lievitazioni dei costi burocratici derivanti dalla natura degli adempimenti richiesti. Altro che semplificazione! Non sono solo le cifre ufficiali poste sotto i nostri occhi a contare, ma il gigantismo statistico, che i politici negano, ma che il contribuente ben conosce. La realtà è che l'Artigianato dà, potrebbe dare di più, ma per andar avanti nell'interesse di tutti deve soprattutto combattere.

Senza lembi nascosti o strappati
Nel commentare l'anniversario della morte di un protagonista di questo cammino che continua, e cioè di Manlio Germozzi, e parlando della Confederazione da lui presieduta e da me pure vissuta, ho scritto che il suo vessillo, a differenza di altri vessilli che pure continuano a sventolare, è senza lembi strappati o nascosti.
Mi sia consentita qui l'immodestia, ma facendo questa constatazione ho pensato anche a quella che per mia ventura è stata la mia esistenza. E forse questa è stata la mia storia con vista, come oggi scrive qualcuno.
Nel concludere questo spicchio di Artigianato che ho vissuto da dentro, c'è implicito un ammonimento che non è mio, ma senza conoscerlo letteralmente è stato sempre nel mio subcosciente: "Senza nulla rinnegare, non aggrapparti al sistema di principi e di abitudini al quale si è sempre rimasti fedeli, adattali ai tempi, ma non perseguire stupidamente le mode, capirai meglio il mondo che cambia".
D'altra parte storia, cronaca, verità hanno sempre avuto rapporti difficili; e i lettori quando leggono spesso ne sono più convinti di chi scrive o riferisce. Anch'io di questa modestia ho cercato di essere custode. Lo dico a me stesso, con la speranza che gli eventuali lettori me ne diano riconoscimento.


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