La
mia "traversata" da giornalista di quasi un secolo mi ha consentito
una consuetudine di conoscenze, di riflessioni, di impegni con l'Artigianato,
naturalmente italiano, ma anche di altri Paesi, non solo europei, bensì
pure americani e asiatici. E ne ho visto ovunque lo stesso volto e cioè
le stesse fondamenta spirituali e spesso culturali da ricercare prima
ancora che nel sudore della fronte, nella mano dell'uomo: Quest'ultima
presenta pure nelle civiltà tecnologiche più avanzate,
spesso con la giustificazione dell'hobby.
Perciò questo è un campo nel quale non esistono soluzioni
di continuità. Nessun mio stupore perciò allorché,
mesi or sono, mi è occorso di leggere che quattro ceramisti di
2300 anni fa hanno lasciato i segni delle loro mani sulla creta e sulla
vernice di vasi ritrovati da archeologi e studiosi in un'officina di
Metaponto, così da rendere riconoscibili le differenti specializzazioni
e persino gesti professionali più tipici degli antichi artigiani.
Il mio itinerario artigiano ha avuto inizio nel '36-'37, allorché
mi avvidi che il settimanale della federazione artigiani, L'Artigiano
riproduceva senza il mio consenso e senza alcun proposito retributivo
miei articoli che nulla avevano a che fare con l'artigianato. Eppure,
diventavano addirittura fondi. E' nel 1938 invece che mi fu offerto
di divenire capo dell'ufficio stampa e studi della Federazione artigiani,
allora inquadrata nella Confindustria, con incarichi esclusivi fino
al 1943 e dal 1946 aggiunti agli altri fino agli inizi di quest'anno.
I ricordi e le cose da dire sono o sarebbero tante, anche perché
la bibliografia in materia non è molto ricca. La stessa rilevanza
politica della materia ha subìto alterne vicende. Le stesse espressioni
del lavoro artigiano sono mutate nel tempo, nei livelli, nello stesso
comportamento della domanda, nella composizione dell'intercambio, in
un mondo che oggi comincia ad affrontare le incognite della globalizzazione.
Anche l'artigiano, quindi, viandante del mondo e forse lui lo è
stato e lo è più di tanti altri. E ciò perché
il suo linguaggio, quello in particolare di certi suoi mestieri, è
stato sempre universale.
Pur avendo vissuto concretamente nel mio io queste convinzioni, o meglio
queste constatazioni, a me è occorso intorno agli anni Sessanta
di essere bersaglio a Piazza Navona, a Roma, della protesta di un artigiano,
che avendo ascoltato il mio sommesso giudizio negativo su di un suo
lavoro espresso a mia moglie, mi disse sdegnato: "Secondo lei l'artigianato
deve morire?". Il mio no corrispondeva certamente al suo, nella
sicura reciproca convinzione che doveva essere migliore. E i tempi,
come si sa, la stanno facendo da acceleratore.
Tre fasi, con
la terza più lunga e dinamica
Chi mi ha seguito in questi miei "medaglioncini" sa che
essi tentano di tratteggiare ambienti e uomini nei quali la vita mi
ha calato come osservatore od operatore.
La prima fase e che conosco è quella immediatamente fascista.
Era l'epoca delle cosiddette comunità artigiane, con qualche
poeta o intellettuale prevalentemente milanese che si era posto a
capo di poco militanti artigiani. Uno di questi capi era, se non erro,
Brunialti, successivamente largamente ignoto.
C'era però a quel tempo un altro intellettuale, questa volta
dichiaratamente fascista, astigiano, e per giunta cognato di Arnaldo
Mussolini, avendo entrambi sposato due sorelle.
Inizia così la seconda fase, o meglio la metà di essa.
Essa porta il nome di Vincenzo Buronzo, la persona che Mussolini al
cambio della guardia nella presidenza sul finire del '39 definì,
con una smorfia forse dispregiativa, con "era un poeta...".
Buronzo, che ho avuto come presidente dall'aprile '38 al novembre
'39 aveva per me una virtù essenziale, derivantegli dalla convinzione
che l'artigiano dovesse essere artisticamente e anche tecnicamente
assistito: di qui l'ENAPI con l'ufficio artistico, con l'ufficio tecnico
per i brevetti e quello commerciale per il marketing. Ma egli aveva
pure una squilibrata attitudine operativa (quella che ne suggeriva
la frequente sostituzione dei suoi direttori o segretari generali,
prontamente assorbiti dalla Confindustria perché di buon livello);
e una sempre insoddisfatta aspirazione ad un inesistente perfezionismo:
otto ore per scrivere un articolo di fondo per un settimanale, con
margini di lettori sempre più ridotti quanto più lo
sforzo di perfezionismo era elevato: intere giornate per scrivere
e imparare a memoria i discorsi che avrebbe pronunciato.
Buronzo si era fatto così un nome, preparato dietro le quinte,
che gli consentiva distanze pure formali con i propri collaboratori,
taluni dei quali, forse per essere napoletani, gli baciavano anche
le mani. Vi erano le eccezioni. Una di queste non è stata però
quella di chi l'ha preso ad esempio dall'adolescenza alla morte, ed
è quello che è stato celebrato quale suo successore
nell'anniversario della morte: uomo guida dell'artigianato, ed a me
è occorso di esserne stato il "consulente" per tutta
la sua carriera.
"Consulente": un termine che per essere all'altezza del
suo compito trascura o dimentica addirittura l'architettura del pensiero
di chi assiste e perciò deve essere pure inventata.
Con me Buronzo ha avuto tutt'altro rapporto. Mi aveva assegnato il
compito di trasformare il settimanale in tre mesi, e mi disse con
compiacimento per lui - e figuriamoci per me - che il cambiamento
era avvenuto molto prima. Per lui perciò io ero l'uomo giusto,
ma per quanto ancora lo sarei stato? Non sapeva certamente che altrettanto
mi è occorso di fare cinque lustri dopo nella direzione de
Il Sole. L'aver cambiato faccia a questo giornale come fu anche scritto,
sono solo i riconoscimenti di allora a ricordarlo, perché chi
scrive per la sua età non ha bisogno di riconoscimenti, ma
solo di controllare con se stesso se i suoi conti personali tornano.
Occasionali sono comunque i motivi che mi hanno condotto all'ufficio
stampa - e feci aggiungere io "studi" dell'Artigianato.
Il primo motivo è stato che quello che ne sarebbe divenuto
segretario generale era un ingegnere, che nel 1927 partecipava al
concorso di direttore della Scuola Arti e Mestieri di Tripoli. Io
in quell'anno, da matricola universitaria della Sapienza di Roma,
avevo organizzato il primo viaggio universitario a Tripoli. Non raggiungemmo
il numero di iscritti necessario e perciò accogliemmo universitari
e professori di Padova e anche l'aspirante ingegnere. Rimanemmo amici,
ma da lontano. Ad avvicinarci furono le frequenti sue visite al nonno,
già presidente della Corte dei Conti, che abitava in un palazzo
dirimpettaio del mio. La strada si chiamava e si chiama con il suggestivo
nome di Quintino Sella.
Quando il mio nome fu proposto a Buronzo, questi lo accolse favorevolmente.
Ricordava il mio comportamento, da lui definito energico, alla Corporazione
delle Professioni e delle Arti dell'anno prima, allorché in
rappresentanza dei dipendenti degli studi professionali (molto più
semplicemente dattilografe) dichiarai che non poteva essere discusso
fra le "varie" il problema del contratto di lavoro della
categoria. Pavolini, quello dell'ultima raffica, era perentorio nel
chiedere il contrario, ma io mi limitai a dire che se la discussione
fosse continuata, portando ad un voto, io avrei votato contro e sarebbe
stata la prima volta che una Corporazione non avesse votato all'unanimità.
Non se ne fece più nulla. Dalla mia parte si schierò
solo il rappresentante dei lavoratori del credito, Gian Pietro Pellegrino,
successivamente ministro del Tesoro a Salò. E di me si disse
che ero un "ragazzaccio", da esonerare da compiti corporativi.
Il mio presidente di allora ai Lavoratori del Commercio mi designò
invece a membro aggregato della Corporazione del Legno. Da lui ho
imparato molto. Forse è l'unica persona dalla quale abbia tanto
imparato nella mia vita di lavoro. E perciò se per lui non
fu gradito il mio trasferimento all'Artigianato (mi disse "lo
fai pure senza il preavviso di otto giorni delle donne di servizio"),
volle riconoscermi per iscritto tutti i miei "meriti". Devo
dire che per me non fu facile il mio distacco da lui, che pure era
stimolato da più favorevoli prospettive di carriera e retributive.
Alla Confindustria, dove già avevo un amico che mi faceva strada,
con il quale insolitamente per lui ci davamo del tu (parlo di Giovan
Battista Codina, al quale la mia vita, i miei ricordi, tutto intero
il mio passato sono legati), fui accolto con un allora più
che mai inconsueto incontro con il Direttore generale della Confindustria,
Giovanni Balella. Credetti di trarre vantaggio nel mio trasferimento
alla Confindustria con la mia rinuncia a membro della Corporazione
del Legno. Ma Balella mi fece rilevare che mi aveva già fatto
nominare membro aggregato della Corporazione delle Professioni e delle
Arti, in rappresentanza della categoria dei fotografi.
Un buono, ma inconcludente inizio per me, perché questa corporazione
da allora non si è mai riunita. Le corporazioni erano divenute
fuori moda. Vari comitati, sempre presieduti da Mussolini, si avvicendavano
e si succedevano. Ognuno aveva la prerogativa di annullare le funzioni
del precedente istituto. Il regime dopo la proclamazione dell'Impero,
dopo la guerra di Spagna, dopo l'asse Roma-Berlino, dopo il razzismo,
dopo le dichiarazioni di guerra che Hitler annuciava all'alba a Mussolini,
perdette la coscienza di se stesso, acquisendo i disastri che si conoscono
e che sono in gran parte il segno della irresponsabilità. Togliamo
perciò a Mussolini tutti gli aggettivi che si è dati
o che gli hanno dato e lasciamogli solo quello che forse solitario
gli ho attribuito e cioè di grande giornalista sbagliato. Forse
egli stesso dall'aldilà mi darà ragione e addirittura
ne potrà restare lusingato, perché chi scrive alla mia
età parla più che altro per se stesso e solo per la
verità, come l'ha vista, affrontata, subita.
Ma che cosa era l'Artigianato a quei tempi? Il regime non se ne è
mai seriamente e direttamente interessato: l'ha ritenuto o una filiazione
più o meno artistica di secondo grado. L'ha dato in consegna
alla Confindustria, alla quale faceva comodo per motivi di rappresentanza
numerica. Gli artigiani erano più numerosi dei piccoli industriali.
Si pensi che gli abbonati al settimanale artigiano erano 300mila e
non sapevano di esserlo, perché in quegli anni il contributo
sindacale veniva a pesare sulle cartelle esattoriali e le dieci lire
allora dovute erano state indebitamente trasferite dalle categorie
al pagamento dell'abbonamento al settimanale. Il nulla dovuto per
l'abbonamento era spiegato con una cartolina gialla. Così si
riusciva a suscitare l'invidia dei periodici del tempo, che a rilevante
inferiore distanza dovevano confrontarsi con un oscuro, modesto settimanale.
Anche per l'editoria, esistono questi scherzi.
La fase Buronzo
Di questa fase sono stato partecipe nel solo biennio del suo finale.
La sua sede in Piazza Venezia, nel palazzo delle Assicurazioni, mi
ha fatto dirimpettaio di Mussolini fino alla conclusione del regime.
Lo intravvedevo con lo sguardo rivolto alla piazza nascosto dalle
tende azzurre dell'oscuramento apposte alle finestre del salone del
Mappamondo. Una lampada accesa perennemente sul fondo del salone faceva
di lui un capo insonne, che invece di fatto era solo immaginazione
popolare e rozza propaganda.
Trovai un ufficio stampa composto in maniera quanto mai singolare.
Nessun giornalista, ma un artigiano restauratore, uno dei tanti segretari
gratuiti di Marinetti che più che agire commentava a modo suo,
un ingegnere che era lì perché aveva sposato la figlia
dello scrittore Milanesi e a questa dedicava il suo approssimativo
tuttofare. Ma riuscimmo a muoverci lo stesso per un quinquennio.
Il complesso del personale centrale, a parte i direttori, era certamente
meno qualificato di quello che avevo trovato nella Confederazione
dei Lavoratori del commercio. Il suo reclutamento era stato più
distratto e la stessa Confindustria poco aveva fatto per migliorarlo,
prelevandone però, quando c'erano, gli elementi migliori. Tutto
al centro si fondava sulla rappresentatività di Buronzo, con
i supporti che lui stesso cercava e curava alla periferia con il buon
livello delle dirigenze regionali. Discorsi e articoli di giornali,
affiancati dalla generica simpatia del regime (Mussolini si vantava
di essere figlio di un fabbro) erano diretti più all'autoesaltazione
della categoria, che non alla determinazione e soluzione dei suoi
problemi. Per anni si è parlato della patente di mestiere,
ma il grosso del loro sviluppo o spesso sopravvivenza gli artigiani
dovevano farselo da sé. Tuttavia i meriti di Buronzo restano:
sono quelli di aver sempre creduto nell'artigianato, di avergli dato
un minimo di coagulo organizzativo, di aver intuito che l'artigiano
senza assistenza artistica, tecnica e commerciale avrebbe fatta poca
strada.
Un salto di qualità venne compiuto invece con il cambio della
guardia nella presidenza intervenuto sul finire del 1930. L'occasione
fu determinata dalla sostituzione del segretario del partito Starace,
un gerarca che aveva esercitato quel ruolo per una decina d'anni,
dando corpo e spesso anche il nome (di frequente il suo suggeritore
era proprio Mussolini, che però lo faceva negare) a tipi enfatici
di saluti al "duce", a contenuti risibili di fogli d'ordine,
ad esercitazioni ginniche dei gerarchi nei cerchi di fuoco, a nuotate
mirabolanti e così via. Tutto ciò aveva alla fine risultati
di popolarità e di simpatia opposti a quelli attesi e lo stesso
Mussolini, anche se tardi, se ne accorse.
Un altro segretario nazionale di partito gli subentrava. Ma questi
era un pilota di guerra, un eroe della guerra di Spagna, un ex squadrista
aitante ed esuberante, con i suoi amici naturalmente, ma raccolti
con l'ironica fantasia romagnola: nella fattispecie ravennate.
I segretari federali di estrazione staraciana furono sostituiti e
comparvero così sulla piazza nelle liste d'attesa, per nuovi
incarichi non sempre conseguiti.
Un'eccezione fra le maggiori è stata quella del federale di
Torino, staraciano di ferro, Piero Gazzotti, organizzatore delle adunate
"oceaniche" che accolsero Mussolini a Torino. Una Torino
che Gazzotti riuscì a far apparire per primo anziché
sabauda entusiasticamente fascista: con le accoglienze al Lingotto
e con il vibrante saluto romano e fascista del senatore Giovanni Agnelli,
con l'orbace tanto deprecata e negata poi dal nipote.
Mussolini, nel cambio della guardia della presidenza a Palazzo Venezia,
ebbe a pronunciare un discorso di vivo elogio delle capacità
sindacali, economiche, organizzative di Gazzotti, che suscitò
in me la più grande e pure ironica sorpresa, perché
i miei primi contatti con il nuovo presidente mi avevano condotto
ad opposte conclusioni. Giudicai allora Mussolini o un pessimo conoscitore
di uomini o un istrione. Penso oggi che sia stato e l'uno e l'altro,
sottolineandone anche una sua certa timidezza nel predisporre i cambi
della guardia. Li faceva annunciare, all'insaputa degli interessati
(dei quali se erano ministri aveva una lettera di dimissioni da utilizzare
quando lo riteneva), alle undici di sera e non sarebbero mai state
accompagnate da commento: era ordinaria amministrazione, proclamata
proprio quando non esisteva.
La mia frequentazione con Gazzotti, dal posto da me occupato e che
per lui era essenziale, e cioè l'ufficio stampa, mi ha consentito
di stabilirne l'esatto livello di capacità. E cioè:
sapeva scegliere i suoi collaboratori, fraternizzava subito con loro.
"Fascistizzava" al massimo l'organismo - quale che fosse
- che era chiamato a dirigere, cercava in tutti i modi che il riflettore
di vertice fosse costantemente puntato pure su di lui, era aperto
a tutte le inventive così motivate. Capirlo in queste sue attitudini
significava divenirne non solo collaboratore insostituibile, ma anche
consigliere primario e amico. A me è occorsa questa ventura,
che fra l'altro non mi è stata particolarmente difficile.
Ho ricordato altre volte, forse anche su queste pagine, che in un
incontro sulle scale dell'EIAR fra Giuseppe Bottai e Gazzotti, cui
anch'io ero presente, il primo nel rallegrarsi con il secondo per
il suo nuovo incarico ebbe a dirgli: "Tutto sta nel dare impronta
e peso all'incarico che si ha, quale esso sia. A me il Duce conferendomi
l'incarico di ministro dell'Educazione ebbe a dirmi che c'era da fare
solo dell'ordinaria amministrazione. Io invece ho varato la Carta
della Scuola".
Bottai, come si sa, ha avuto sempre la predilezione per le Carte (si
ricordi quella del Lavoro), è stato presidente dell'INPS, il
Governatore di Roma, quello per 40 giorni di Addis Abeba, ha fatto
tutte le guerre in calendario, tranne quella di Spagna. Ha cercato
sempre di essere presente con il suo "io" dove il suo sentire
- oltre pure talvolta la coscienza - lo conduceva. Ha compiuto errori,
ma ha saputo anche cercare di riscattarsi. Non l'ho visto che una
sola volta, ma ricordo che subito dopo la marcia su Roma fondò
una rivista che si chiamava Critica Fascista. Era stato fondatore
del fascismo romano, già futurista, già ardito di guerra
della prima guerra mondiale, già comandante delle squadre fasciste
che dal quartiere tiburtino entravano in Roma, essendo stato dal Re
abrogato lo stato d'assedio. L'ambizione di Bottai è stata
sempre quella di far riconoscere che sempre c'era anche lui, anche
quando si trattava di pagare: il suo conclusivo arruolamento nella
Legione Straniera sta a ricordarlo.
Gazzotti, pur a livello largamente inferiore, era fatto della stessa
stoffa. Voleva far sapere di continuo che dove stava lui c'era sempre
qualcosa che si muoveva in senso fascista. Aveva un desiderio permanente:
quello di far muovere il settore nel quale era allocato, di richiamare
l'attenzione di Mussolini e avere il più frequentemente possibile
l'occasione di incontrarlo. Per lui l'artigianato doveva essere assolutamente
fascista. I suoi problemi sarebbero stati risolti più o meno
alla stessa maniera di prima, però se possibile anche con altre
iniziative.
La mia prima interpretazione di questa sua aspirazione fu quella di
suggerirgli di cambiare la testata de L'Artigiano in quella de L'Artigianato
Fascista. Mi disse subito: "preparami un telegramma per il Duce".
E poi iniziò una serie di editoriali su problemi artigiani
che io gli scrivevo e che erano preceduti da una mezza colonna scritta
personalmente da lui, in cui gli artigiani venivano esortati ad essere
fascisti condividendo problemi ed esigenze generali del momento. Sempre
sul piano giornalistico riusciva a far pubblicare alcuni suoi articoli
(erano scritti miei d'occasione) su Il Popolo d'Italia, ma ciò
avveniva solo quando la mia macchina da scrivere aveva vinto le proprie
indolenze al riguardo.
Ogni tanto mi diceva: "Non vado da Mussolini da molto tempo,
che possiamo fare?". Una volta l'occasione fu la presentazione
di un bollettino ciclostilato che aveva per oggetto problemi internazionali
dell'Artigianato. Un'altra volta fu la presentazione del progetto
per la costituzione di un Istituto mediterraneo e coloniale dell'Artigianato,
denominato "Alessandro Mussolini".
Accompagnai Gazzotti in questa visita, attendendolo in anticamera.
Ne uscì soddisfatto. Mussolini aveva dato il suo assenso, aveva
elargito duecentomila lire per l'esecuzione del progetto in un'area
di Ostia che avrebbe dovuto essere messa a disposizione da parte del
Governatore di Roma. Ma si era espresso contrario alla denominazione
Alessandro Mussolini, che considerava un atto di improduttiva piaggeria.
Non altrettanto aveva fatto per le scuole intestate alla madre, maestra
elementare, Rosa Maltoni. (La storia mi ha sempre ricordato l'importanza
eccezionale dell'aver avuto come madre un'insegnante elementare. È
un titolo di studio per un figlio che vale più di tante lauree).
Sennonché l'indomani i giornali pubblicarono il comunicato
come io l'avevo predisposto, con il fabbro di scena. Ripensamento
o disattenzione del Duce nell'inserimento compiaciuto sempre, quando
si trattava di Gazzotti, del comunicato nella cartella da inviare
al ministero della Cultura popolare?.
Un'altra occasione ancora fu la presentazione al Duce di un paio di
scarpe autarchiche, delle quali ancora mi vergogno. Erano di tela
con una suola articolata in pezzi di legno sui quali erano sovrapposti
alcuni tondini di gomma, ricavati da gomme d'auto esauste. Mussolini
esaminò compiaciuto queste scarpe: erano presenti, me compreso,
anche i massimi dirigenti dell'Artigianato tedesco. Ma quelli erano
i tempi in cui Mussolini comandava che le mele in Italia, come quelle
presentategli, dovessero tutte pesare almeno mezzo chilo.
Gazzotti è stato questo e l'Artigianato con lui ha vissuto
fino al termine del regime. Di lui si è scritto che il 26 luglio
ha cercato di passare il confine di Bardonecchia con i lingotti d'oro,
che invece non c'erano e furono smentiti dallo stesso Badoglio. Io
con altri due gli sono rimasto accanto in questa vicenda ed ho fatto
per lui quanto dovevo fare con la pubblicazione della smentita sui
giornali di Roma, in ciò aiutato da Vittorio Gorresio. Mussolini
lo sottopose ad un lungo Purgatorio nominandolo presidente dell'Ente
tessile autarchico poco prima del 25 aprile del 1945. Gazzotti è
venuto a trovarmi dopo di allora, con un ruolo semplicemente scambiato:
prima io accompagnavo lui; dopo lui accompagnava me. Eravamo, dunque,
amici e per me quella politica aveva esaurito il suo tempo. Quanto
gratificante è l'animo umano quando riesce a dirci queste cose
e la stessa conclusiva vecchiaia ci consente di dire che l'unica contabilità
veramente perenne è questa.
L'Artigianato
in più di mezzo secolo
Un nuovo spirito, una nuova struttura, una nuova dinamica hanno caratterizzato
l'Artigianato nell'ultimo mezzo secolo del millennio. Le organizzazioni
nazionali sono divenute tre o quattro, nella scia delle opposte ispirazioni
politiche. Una sola è stata la maggiore, la più trainante,
più stabilmente motivata, ed è stata la Confederazione
Generale, con la permanenza mia nell'intero mezzo secolo ai suoi vertici
diretti e indiretti, in parallelo con le mie prevalenti funzioni nella
Confindustria.
Difatti della Confederazione sono stato consulente diretto della presidenza
e della direzione generale, avendo concluso i miei incarichi nel settore
di consulente dell'Artigiancassa, nel campo degli studi, della stampa
e della propaganda. Il 1992 è stato l'anno del mio commiato.
Avevo visto l'Artigianato ai primi albori del secondo decennio fascista
e l'ho continuato a vedere fino alla morte del suo presidente onorario,
Manlio Germozzi, del quale mi è occorso di dover scrivere l'introduzione
al volume che ne ha celebrato l'anniversario della morte.
Dire di Germozzi, da me conosciuto, seguito, e in parte non secondaria
forse anche consigliato naturalmente in bene ma anche in inconsapevole
male dal 1938, scrivere di lui mi è sembrato perciò
anche scrivere, con la dovuta modestia, anche di me stesso. C'era
infatti simbiosi tra noi due: io cercavo di interpretare lui, lui
cercava di interpretare me. Eravamo profondamente diversi, come caratteri,
radici, livelli di affinità, ma abbiamo camminato insieme,
in reciproca soddisfatta coerenza.
Fino al 1943 era stato segretario dell'Artigianato romano, essendo
anche delegato della Confederazione trasferitasi nella cosiddetta
Repubblica Sociale. Il 5 giugno 1944, giorno della liberazione di
Roma, era lo stesso al suo posto, pensando alla rinascita e alla ricostruzione.
Io avevo preferito essere cercato e sollecitato dalla Confindustria
per ridare il mio contributo nel campo della stampa e della propaganda
e poco dopo dallo stesso Germozzi per dare il mio apporto, che era
giornalistico ma anche politico, all'Artigianato che si rinnovava.
Germozzi invece non si era mosso dal suo posto, pur nelle contraddizioni
delle vicende e degli incarichi che aveva ricoperti. Mi venne riferito
che si compiacesse di fruire della collaborazione - la mia - di uno
che da tre sue parole faceva discendere premesse e conclusioni di
profonda ed esatta meditazione e applicabilità. Ma non sono
certo, a mio modo di vedere, le benemerenze o intuizioni personali
a valere, bensì il fatto che abbiamo potuto compiere insieme
un lungo cammino.
Gli inizi della Confederazione Generale risalgono proprio al 4 giugno
1944, con la costituzione ufficiale il 10 gennaio 1945.
Nell'intreccio tra intuizioni, battaglie, conquiste, l'Artigianato
ha coperto e vinto tante tappe. Quando, ad esempio, si rileva che
15 milioni di persone operano nelle dimensioni minori contro 5mila
nella grande industria, quando si guarda alle radici del made in Italy,
quando si esaltano le tradizioni produttive che in tanti centri italiani
si rinnovano e continuano ad elevarsi a prototipi d'arte, quando si
riscontra la progressiva incidenza richiesta da produzione e servizi,
quando ancora gli orizzonti dischiusi dalla tecnologia - cui anche
gli artigiani con le loro invenzioni minori da secoli concorrono -
si espandono e si fa appello nelle stesse applicazioni alla mente
e alla mano dell'uomo, c'è stato sempre anche Germozzi, come
ci sono quanti agli stessi vertici oggi ne continuano l'opera, avente
come meta il progresso.
Ma l'espressione del rinnovamento conseguito dall'Artigianato in questi
ultimi decenni, la stessa natura delle sue rivendicazioni, la stessa
dimensione, anche aziendale, delle sue allocazioni, hanno trovato,
nella parola e nell'azione, alcuni punti fermi, da sempre rivivere,
ma sempre soprattutto da sospingere oltre.
E perciò sono da sottolineare in questa panoramica, che riaffiora
dalla mia memoria di testimone:
- la naturale capacità artigiana determinante non solo nelle
fasi congiunturali positive, ma anche e soprattutto in quelle di crisi,
da sempre potenziare. Ed oggi siamo appunto in una fase se non di
crisi certo estremamente delicata e difficile (in termini di sviluppo,
di occupazione, di Mezzogiorno che pone l'Artigianato nell'interesse
del Paese in prima linea).
- la crescente attualizzazione dell'Artigianato non solo per il suddetto
motivo, ma nella pratica dei suoi valori essenziali, che riguardano
la libertà, la creatività del lavoro, l'identità
della persona con l'impresa, la vocazione all'insegnamento nei confronti
dei giovani, la stretta saldatura con la famiglia che frequentemente
vive unita nella sfera del lavoro. Su questo terreno tante sono le
risposte che la nostra società continua a sollecitare e che
sono tanto più urgenti, quanto più l'artigianato certamente
ha continuato ad avanzare, prevalentemente con le sue forze, né
protette o incentivate come altre.
E perciò si guarda risolutamente innanzi.
Così l'Artigianato, come anche noi l'abbiamo potuto vivere
in questi anni, si presenta al Paese con una cultura che sa essere
sempre nuova; con la capacità di risposta alla domanda di rinnovamento
che si leva dalla nostra società. Di qui la denuncia artigiana
che comporta il ripensamento dello Stato sociale, alla luce delle
esperienze fin qui compiute e che sono largamente negative in termini
non solo di rapporti costi-ricavi, ma anche di ingiustificabili sperequazioni
alla luce pure di un'autocritica, che deve sempre meglio qualificarsi
non solo nella denuncia, ma anche nella costruzione.
Oggi c'è da aggiungere la globalizzazione, che per l'Artigianato
però non è mai stato un fenomeno in fieri. Ricordiamo
infatti che il primo viandante del mondo è stato sempre l'artigiano,
cui fra l'altro vanno attribuite tutte le iniziative di integrazione,
di collaborazione anche organizzativa intervenuta in Italia per l'Artigianato
occidentale e mediterraneo pure a cominciare dagli anni Trenta.
Molti però sono ancora i ribaltamenti che devono essere compiuti,
avendo lo sguardo rivolto all'artigiano non solo impresa, ma anche
cittadino. E perciò determinanti sono e saranno: un rinnovamento
della struttura statale diretto a garantire efficienza (la sua inefficienza,
invece, comporta per le imprese un costo non distante da quello provocato
dall'inflazione), piena giustizia, eliminazione del parassitismo pubblico
in parte secondaria pure di pretesa socialità, che è
ancora nella fase dei propositi, a parte qualche passo innanzi certamente
compiuto in forza pure dell'azione della Confederazione Generale;
una progettualità organica (il termine "programmazione"
non mi è congeniale, perché ha sempre manifestato un
esercizio abusivo, in conseguenza di deviazioni e aberrazioni politiche,
fino a tradursi in "libro dei sogni") che non è ancora
entrata in azione. Di qui la persistente latitanza della strutturazione,
fra l'altro quella della spesa, latitanza che non solo va combattuta,
ma realmente sconfitta, senza altri indugi.
E i bersagli per l'Artigianato di ieri e di oggi non possono essere
che quelli di una fiscalità che promette, ma non si placa.
A quest'ultimo proposito mi piace ricordare come scritto oggi il pensiero
di un nostro egregio economista del primo decennio del secolo, "Qualcuno
imbecille - insegnava Pantaleoni - può inventare ed imporre
tasse. L'abilità consiste nel a) ridurre le stesse, dando nondimeno
servizi efficienti corrispondenti all'importo delle tasse; b) fissare
le tasse in modo che non ostacolino la produzione o per lo meno che
la danneggino il meno possibile.
Il monito fa parte degli studi, dei fondamenti storici della nostra
economia, con particolare riferimento per quelle piccole imprese -
fra queste, in prima linea, quelle artigiane - che devono subire gravami
oltrepassanti la misura dei balzelli, a causa pure delle lievitazioni
dei costi burocratici derivanti dalla natura degli adempimenti richiesti.
Altro che semplificazione! Non sono solo le cifre ufficiali poste
sotto i nostri occhi a contare, ma il gigantismo statistico, che i
politici negano, ma che il contribuente ben conosce. La realtà
è che l'Artigianato dà, potrebbe dare di più,
ma per andar avanti nell'interesse di tutti deve soprattutto combattere.
Senza lembi
nascosti o strappati
Nel commentare l'anniversario della morte di un protagonista di questo
cammino che continua, e cioè di Manlio Germozzi, e parlando
della Confederazione da lui presieduta e da me pure vissuta, ho scritto
che il suo vessillo, a differenza di altri vessilli che pure continuano
a sventolare, è senza lembi strappati o nascosti.
Mi sia consentita qui l'immodestia, ma facendo questa constatazione
ho pensato anche a quella che per mia ventura è stata la mia
esistenza. E forse questa è stata la mia storia con vista,
come oggi scrive qualcuno.
Nel concludere questo spicchio di Artigianato che ho vissuto da dentro,
c'è implicito un ammonimento che non è mio, ma senza
conoscerlo letteralmente è stato sempre nel mio subcosciente:
"Senza nulla rinnegare, non aggrapparti al sistema di principi
e di abitudini al quale si è sempre rimasti fedeli, adattali
ai tempi, ma non perseguire stupidamente le mode, capirai meglio il
mondo che cambia".
D'altra parte storia, cronaca, verità hanno sempre avuto rapporti
difficili; e i lettori quando leggono spesso ne sono più convinti
di chi scrive o riferisce. Anch'io di questa modestia ho cercato di
essere custode. Lo dico a me stesso, con la speranza che gli eventuali
lettori me ne diano riconoscimento.
|