Il Terzo Mondo non sorride pił




Ralph O'Neil



L'Occidente impone sanzioni al Pakistan? Pazienza, dichiara il premier di Islamabad, il Pakistan è disposto a sopportarne il peso e a produrre all'interno a costi più elevati almeno parte di quello che non potrà più ottenere dall'estero. Alcuni mesi fa un altro leader musulmano, il primo ministro della Malaysia, aveva invitato i Paesi colpiti dalla crisi asiatica a commerciare di più tra loro, integrandosi localmente invece di cercare legami più stretti con mercati - e sistemi politico-sociali - molto lontani.
Siamo di fronte, prima ancora che a un mutamento di politica economica, ad un cambiamento di clima culturale, che si riflette in decine di episodi differenti e sempre più frequenti: i Paesi emergenti non solo stanno rapidamente scivolando verso condizioni di minore sviluppo e di maggiore instabilità, ma stanno anche perdendo il sorriso e rischiano di diventare Terzo Mondo dopo aver sognato di essere ormai prossimi ad agganciarsi al Primo. E dopo aver guardato con fiducia e aspettativa al mercato, si son fatti più guardinghi, più circospetti, talvolta ostili: lo considerano come una nuova forma di colonialismo occidentale e stanno procedendo a tappe forzate verso nuove forme di protezionismo.
I brutti avvenimenti degli ultimi mesi, con la crisi russa (erroneamente passata in seconda linea nei commenti occidentali), con la perdurante crisi asiatica, con le contrapposte bombe pakistane e indiane, col malessere dell'America Latina e col caos in molte parti dell'Africa, dove continuano ad accendersi focolai di guerra, devono essere analizzati sullo sfondo di questo grande cambiamento di umore, che potrebbe avere conseguenze importanti sul nostro futuro.
Dietro questi andamenti c'è un grande denominatore comune: la perdita di potere d'acquisto delle materie prime, prodotti tipici delle economie poco avanzate. E' la conseguenza della caduta dei prezzi, non sufficientemente bilanciata dall'aumento delle quantità vendute, un ennesimo frutto della grande trasformazione tecnologica che fa sì che, in una società sempre più legata all'informazione, i tre quarti del prodotto lordo dei Paesi più avanzati sia costituito da produzione immateriale. Dalla crisi petrolifera del 1973 la quantità di petrolio, o suo equivalente, necessaria per produrre un dollaro di produzione media si è all'incirca dimezzata, così come è scesa l'incidenza dei metalli, delle fibre tessili naturali e via di seguito.
L'indebolimento della domanda di lungo periodo, spesso accompagnato da un vistoso aumento dell'offerta per l'imperfetto funzionamento di mercati in cui le informazioni non sono molto diffuse, si è ripercosso molto fortemente sui prezzi. In questo senso, la figura 1, che mostra l'andamento dei prezzi delle materie prime industriali nel corso di dieci anni, è emblematicamente rivelatrice. Ponendo pari a 100 l'indice medio in dollari del 1990, abbiamo riportato i valori nominali in dollari con una linea continua, mentre con la linea tratteggiata abbiamo calcolato i valori in termini reali in dollari del 1990 (i valori del 1998 sono ovviamente gli ultimi disponibili).


Il risultato è estremamente chiaro: la caduta dei prezzi delle materie prime industriali si è accompagnata a una, sia pur moderata, inflazione nei Paesi consumatori (nella figura si fa riferimento all'indice dei prezzi al consumo negli Stati Uniti). Rispetto al 1990, il paniere di beni americani che si possono acquistare con una tonnellata media di materie prime si è ridotto di un terzo.
Per il già citato scarso aumento delle quantità, questo andamento crea le premesse per una forte tensione economica che si traduce in malessere politico: forse indiani, pakistani e quant'altri sarebbero meno nazionalisti se guadagnassero di più vendendo le loro merci. La figura mostra, al contrario, che la risalita dei prezzi nel periodo 1993-1995, vale a dire dopo la recessione innescata dalla Guerra del Golfo, ha consentito di superare i livelli del 1989 soltanto in termini monetari, ma non in termini di potere d'acquisto. E' ancora più significativo che, dopo i massimi del '95, pur con un'economia occidentale e mondiale in espansione, i prezzi abbiano cominciato a cedere rapidamente. La caduta ha rivelato un'accelerazione impressionante a partire dall'autunno '97, quando gli effetti della crisi asiatica hanno cominciato a farsi sentire concretamente.
Per le materie prime alimentari, il discorso è leggermente diverso perché le tecnologie non possono sostituire il bisogno di cibo. Anzi, un mondo post-industriale, divenuto meno povero, domanda una maggiore quantità di alimenti. Come si può vedere dalla figura 2, la caduta del 1992-'93 è molto più contenuta, la ripresa del 1994 porta i valori reali, e non solo quelli nominali, a superare i livelli del 1990, e da allora si ha una sostanziale stabilità. Anche così, la tendenza più recente è nuovamente alla discesa, e questo per un motivo che francamente fa paura: non è che la gente abbia meno fame, ma, soprattutto con la crisi asiatica, molti Paesi, a cominciare dall'Indonesia, stanno riscivolando indietro e non possono più permettersi i precedenti livelli alimentari.
La Fig. 3 e la tabella mettono a confronto i due tipi di andamenti e permette di concludere che - seppure con diverse accentuazioni - l'andamento di lungo periodo è chiaramente decrescente e riguarda, in maniera più o meno marcata, i principali comparti delle materie prime (i dati relativi alle materie prime tessili non mostrano infatti andamenti migliori).


A questa tendenza di lungo periodo si aggiunge un'accentuazione congiunturale che si sta facendo sempre più forte col passare del tempo. Dalla seconda metà di maggio si sono addirittura verificati veri e propri cedimenti dei mercati. Tanto per fare qualche esempio, alle aste australiane i prezzi della lana hanno accusato un brusco calo. Motivo? Il "fattore Giakarta", vale a dire l'assenza dei compratori indonesiani, normalmente importanti consumatori di lane, cui si aggiunge un generalizzato calo dei consumi asiatici, soprattutto sudcoreani e cinesi.
Sempre a partire da quella data, il rame ha messo a segno un nuovo, forte ribasso, un altro di una lunghissima serie nera: valeva quasi 1.900 dollari la tonnellata, ed è ripiombato a circa 1.600. Nel frattempo è crollata anche la richiesta asiatica di metalli preziosi. Secondo una stima del World Gold Council, il Sud-Est asiatico aveva assorbito quasi 157 tonnellate di oro nel 1997 (primo trimestre), ed è stato venditore netto di oltre 268 tonnellate nello stesso periodo (primo trimestre) del 1998, anche per le raccolte di "oro per la patria" in Indonesia e in Corea. Quanto all'argento, ha perso il 15 per cento del suo valore.


Il petrolio mostra il calo più consistente, nonostante le riduzioni di produzione decise dall'Opec. Certo, è una bella notizia per i Paesi consumatori, affamati di energia, ma al tempo stesso è una decurtazione di risorse finanziarie per i Paesi produttori, i quali, con il loro sviluppo, contribuivano alla stabilità dell'intera area.
Nella figura, la 4, abbiamo pazientemente ricostruito i prezzi, espressi in dollari, del greggio (e precisamente della qualità che è normalmente presa come benchmark, il Brent del Mare del Nord) e li abbiamo deflazionati con l'indice dei prezzi al consumo degli Stati Uniti, a partire dal 1980, ossia immediatamente dopo il cosiddetto "secondo shock petrolifero".
Risultato di questa elaborazione: in dollari del 1980, il prezzo del petrolio, che allora si aggirava intorno ai 25 dollari al barile, è sceso di due terzi, e ne vale circa 8. Se si spingesse il calcolo all'indietro, fino alla crisi petrolifera del 1973, si troverebbe che siamo tornati a prezzi di 2-3 dollari al barile circa, ossia ai livelli precedenti la guerra del Kippur.
La caduta dei prezzi in termini reali è stata controbilanciata dall'aumento dei volumi produttivi, ma solo in parte. Nella figura 5 abbiamo calcolato il "valore teorico" degli introiti dei Paesi dell'Opec, misurando la quota dell'Opec sul totale della produzione mondiale di petrolio e applicandovi il prezzo del petrolio Brent. Il valore effettivo può discostarsi alquanto da quello risultante dal nostro calcolo, perché non tutto il petrolio è Brent e i prezzi sono differenziati. La tendenza generale, però, è la stessa e appare chiaramente visibile: dopo essere crollati di più della metà tra il 1980 e il 1985, gli introiti dell'Opec si sono stabilizzati attorno al 50 per cento dei valori massimi, con una moderata, recente tendenza a scendere. Questa stabilizzazione si sta rivelando insufficiente a finanziare programmi di sviluppo per i quali sono necessarie, invece, risorse crescenti.


Conclusione di questo discorso: il calo dei prezzi delle materie prime costituisce il sintomo di un nuovo malessere economico che è carico di un pesante potenziale di destabilizzazione. Riteniamo, per intanto, che tale caduta abbia contribuito in maniera rilevante all'aumento illegale di produzione di sostanze stupefacenti: perché mai un contadino latino-americano dovrebbe coltivare commodities che perdono valore, quando gli occidentali sono disposti a pagare a buon prezzo quantità crescenti di cocaina?
Destabilizzazioni di questo genere saranno sempre più frequenti e pongono interrogativi di carattere generale sui mercati: per funzionare bene, i mercati hanno bisogno di condizioni non troppo disuguali, di ragioni di scambio non troppo inique, di meccanismi che non ricaccino una delle parti verso la povertà. Se l'Occidente non saprà assicurare un simile assetto, prepariamoci a un grande fallimento del mercato globale.


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