L'EURO E L'ECONOMIA DEL SALENTO




Dino Viterbo



Iniziamo con una nota di ottimismo: essa viene da una ricerca pan-europea sulle aspettative dell'Euro realizzata due mesi fa da Duri & Bradstreet (società leader mondiale della business information) su un campione di 1.800 grandi, medie e piccole imprese tra cui 120 italiane.
C'è da dire innanzitutto che gli imprenditori europei sono decisamente "euroentusiasti", in modo particolare i piccoli imprenditori. Per quanto riguarda i piccoli imprenditori italiani, l'88% ritiene positiva la nostra entrata nell'Euro a partire dall'1 gennaio 1999. Essi considerano altamente vantaggioso operare con una moneta salda, godere di migliori opportunità, fare i conti con una maggiore competitività - anche se parte degli imprenditori più piccoli (microimprese) sono convinti che essa diminuirà (produzioni di nicchia?), - attuare un riposizionamento dei prezzi senza grosse oscillazioni. Inoltre, a parte le industrie, secondo le valutazioni, l'entrata nell'Euro renderà più conveniente viaggiare all'estero, investire in azioni, ricevere canali TV, cambiare più facilmente lavoro, curarsi la salute, mandare i figli all'Università.
Ciò è importante perché l'entrata nell'Euro - con conseguenze da equipararsi ad un'innovazione di tipo epocale - necessita di consensi e di atteggiamenti mentali positivi per avere successo. E non mi riferisco solo all'innovazione finanziaria, ma all'innovazione di mentalità e di costume.
L'economia della provincia di Lecce, meglio conosciuta come Salento - anche se non si identifica con lo stesso - generalmente risulta sottostimata nei vari "rating" (Prometeia, Il Sole-24 Ore, etc), a causa di una serie di endemiche, strutturali condizioni ambientali: scarsa diffusione di "valori" commerciali urbani e quindi "statisticizzabili", dato lo scarso peso demografico della stragrande maggioranza dei comuni; forte autoconsumo; accentuata presenza di lavoro sommerso, però in via d'emersione; di microimprese senza addetti; dell'artigianato, di rendite non dichiarate: basti pensare agli affitti delle seconde case non iscritte al REC, 1/3 dell'intera Puglia.
Ciò premesso, è indubbio che la provincia nei suoi valori medi accusi un "incompleto" sviluppo secondo gli indici più significativi, anche se l'elevato tasso di natalità delle imprese e la buona propensione all'export (dovuto quasi interamente ad aziende locali) dimostrano una crescente generalizzata vivacità imprenditoriale ed economica, che la pongono su scala regionale seconda solo alla provincia di Bari. Tale vivacità testimonia una voglia d'impresa spontanea - bottom by (che parte dal basso) -dimostrata pure dal successo conseguito in provincia dalla Legge 488, dalla L. 95/95 (ex 44) sull'imprenditorialità giovanile, dalla L. 236 (beni culturali e ambientali) e infine dai provvedimenti previsti dal "pacchetto Treu" (contratti di gradualità e formazione lavoro, cosiddetto prestito d'onore, etc.). C'è da rilevare che istituzioni ed enti territoriali hanno supportato tutto ciò: Provincia, Camera di Commercio, Università, Associazione Industriali, Istituti di Credito, i quali ultimi hanno accordato delle corsie preferenziali di finanziamento alle PMI.
Grande disponibilità hanno manifestato le associazioni sindacali, tanto che la nostra provincia è considerata un banco di prova riguardo la concertazione sociale (v. Patto Territoriale). Certo, il tasso di disoccupazione provinciale ufficiale (24,6%) la pone al 10° posto in Italia, ma se la Commissione Europea moltiplica per 0,54 il dato fornito dall'Italia significa che quel dato è da discutere.
Non toccata negli anni Sessanta dalla politica industriale per "poli" dei grandi complessi a partecipazione statale, l'economia salentina agli inizi degli anni Settanta era ancora sostanzialmente basata sull'agricoltura, mentre veniva affermandosi un settore del calzaturiero e dell'abbigliamento a capitale endogeno. Il quadro complessivo attuale è diverso ed è il risultato di una transizione verso il settore industriale e dei servizi: su circa 12.000 miliardi di valore aggiunto prodotto nella provincia, solo l'8% è imputabile al settore agricolo. Le attività industriali prevalenti vedono oltre un terzo degli occupati nel settore calzaturiero -abbigliamento (un valore doppio di quello nazionale); seguono l'industria edilizia, alimentare, meccanica, legno e altre. Circa il 78% degli addetti è occupato in unità locali con meno di cento addetti; solo 6 unità locali superano i 500 e 2 i 1.000 addetti. Pochissime superano i 100 miliardi di fatturato, solo alcune i 50. Brevemente, si potrebbe affermare che la provincia di Lecce sia passata direttamente alla fase industriale post-fordista con una miriade di piccole imprese operanti ai vari livelli del sub-contractoring (specialmente nell'abbigliamento). E' da aggiungere che ciò avviene in minore misura nel calzaturiero in cui le due maggiori imprese - meritori punti di riferimento dell'intero sistema economico-sociale salentino - hanno inizialmente verticalizzato il processo produttivo, pur in presenza di una forte quota di manodopera a domicilio, non configurandosi a tutt'oggi come l'impresa rete del Keiretsu, cioè il distretto industriale giapponese.
Le imprese operanti nel sub-contractoring anche internazionale sono la maggioranza; le quote di imprese operanti quasi esclusivamente in conto proprio è inferiore al 10%. Le PMI salentine, improntate alla specializzazione flessibile e diffuse in larga parte del territorio (30 Comuni su 97 presentano un indice d'industrializzazione superiore alla media regionale) configurano dei veri sistemi locali di tipo distrettuale (Casarano e Tricase) o in via di formazione, cioè intermedi (Otranto-Poggiardo, Nardò, Gallipoli, Maglie). Per alcuni di essi dovrebbe esserci quanto prima il riconoscimento ufficiale della Regione Puglia secondo la Legge 317/91.
Ma, tornando alle imprese contoterziste, chiamate da noi semplicemente façoniste, esse rappresentano un universo molto diversificato, secondo una nostra recente indagine; façoniste pure, in transizione concentrate sullo sviluppo del proprio marchio, operanti su commessa e subfornitrici con un unico committente. C'è da precisare che nello stesso settore anche l'Emilia Romagna conta l'80% delle imprese contoterziste. Comunque, oltre a fornire o a sub-fornire aziende più grosse dello stesso Salento, altre, per esempio, lavorano per Della Valle (marchi Tod's e Hogan) a Presicce, o per Benetton a Nord, e ancora per Armani e Versace, oltre che per il proprio marchio. Certo, non tutti i committenti sono di questo calibro; c'è di fatto che la provincia, secondo "Prometeia", occupa un posto migliore nelle esportazioni che nel V.A. prodotto: ciò potrebbe stare a significare che essendo spesso le fasi finali della confezione e della commercializzazione del prodotto situate in altre regioni o all'estero, parte del V.A. evade. E' opportuno rilevare che tra i produttori locali sono riusciti ad emergere quelli che hanno affiancato alle conoscenze specifiche del settore la continua ricerca di nuovi mercati: in ciò ha avuto buon gioco chi ha fatto della conoscenza delle lingue straniere un vantaggio competitivo (ciò sarebbe opportuno pure per impiegare le laureate in lingue della nostra Università).
Ma questi localismi territoriali, da alcuni chiamati "biodiversità culturali ed economiche" o "economie di prossimità" (supply sides economies), vanno relazionati ad economie di mercati più vasti, alle cosiddette economie di globalità. La forma d'internazionalizzazione più nota e praticata dalle aziende salentine è l'export, anche se vi sono aziende che praticano forme più evolute come l'I.D.E., joint venture, o utilizzano il traffico di perfezionamento passivo. I maggiori rischi che le PMI salentine incontrano nell'export sono: ritardi nei pagamenti; rischi di cambio e di variazione dei prezzi; ritardi nella consegna e complessità delle pratiche doganali; difficoltà nel finanziamento o nell'assicurazione dei crediti; differenze nelle normative tecniche e nelle regole di sicurezza; difficoltà nell'assistenza tecnica post-vendita. Su alcuni di essi, normative europee di recente approvate e l'entrata nell'Euro dovrebbero perseguire benefici effetti.
In modo molto sintetico, quasi sinottico, possono riconoscersi alcuni punti di forza e di debolezza delle PMI salentine nell'entrata nell'Euro.

Punti di forza:
- disponibilità di manodopera soprattutto femminile, ed elevato livello di professionalità raggiunto in certe imprese; ciò favorisce la nascita di nuove piccole e medie imprese, inoltre l'introduzione dei contratti di gradualità apporta notevoli benefici all'occupazione nel tessile-abbigliamento;
- elevata qualità e specializzazione della produzione e notevole flessibilità organizzativa;
- spiccata propensione di numerose imprese ad operare all'estero;
- l'esistenza di alcune iniziative in favore della cooperazione e della diffusione dell'informazione tra le imprese: Azienda Speciale della Camera di Commercio, Consorzio Fidi per le PMI, Eurosportello Camera di Commercio, Consorzio COPAC dell'abbigliamento, etc.

Punti di debolezza:
- alle dimensioni eccessivamente ridotte sono da ricondursi i problemi di sottocapitalizzazione, di difficoltà di accesso al credito, dello scarso utilizzo di marchi propri, di dipendenza da pochi committenti;
- la bassa propensione all'aggregazione impedisce significative economie nelle fasi di approvvigionamento delle materie prime e di commercializzazione dei prodotti;
- insoddisfacente propensione all'innovazione;
- inadeguatezza delle infrastrutture (opere primarie e secondarie) nelle aree produttive, reti di trasporto (la provincia risulta la meno dotata della Puglia).

Nella relazione finale sui sistemi produttivi locali della Puglia (Misura 4.1 Programma Operativo Plurifondo 1994-99), predisposta dalle Università di Bari e di Lecce, dall'IPRES e dal CUM, si proponevano tre strumenti per venire incontro a queste esigenze: i centri di servizio settoriale; le agenzie di sviluppo locale; i consorzi fra le imprese.
La capacità di innovarsi deve essere la chiave strategica di successo sui mercati delle imprese salentine. Essa, però, comporta per gli imprenditori la ricerca di investimenti e perciò la capacità di acquisire capitali di rischio e di credito esterno. Obiettivi che sono ostacolati nel Sud sia dalla mancanza di mercati finanziari locali, che agiscano da canali di trasformazione del risparmio in capitali di rischio (se ne è parlato molto presso la Camera di Commercio a proposito dei "fondi chiusi"), sia da ritardi e inefficienze, che ridimensionano il ruolo della funzione pubblica nell'economia. Ciò non significa che manchi per il Sud una legislazione "ad hoc" e lo abbiamo visto prima. Tutt'altro, in questi ultimi anni anzi gli interventi legislativi si sono moltiplicati: il panorama agevolativo nazionale e comunitario messo a disposizione delle imprese, soprattutto quelle medio-piccole, per aiutarle nella progressiva internazionalizzazione, è addirittura eccessivamente ricco di testi e di decreti, tanto da disorientarle, allontanandole dall'utilizzo.
Pertanto lo scetticismo di ottenere finanziamenti pubblici e la stanchezza verso i lenti "iter" burocratici dell'apparato pubblico hanno finora sollecitato il ricorso delle piccole imprese locali al credito ordinario: forma di finanziamento maggiormente sperimentata è stato il mutuo ipotecario, seguito dal leasing.
Nei prossimi anni la concorrenza internazionale si inasprirà. Nel 2005, la completa operatività dell'Uruguay Round accrescerà il volume degli scambi, ma metterà in difficoltà quelle imprese locali che puntano su strategie di "dominazione mediante i costi" (price-oriented) e che non potranno più competere con i Paesi a basso costo della manodopera.
Il sentiero evolutivo del sistema produttivo salentino presenterà, quindi, un punto di biforcazione: progressiva destrutturazione causata dall'espulsione dal mercato delle imprese meno preparate, ma che contribuiscono alla creazione del milieu (cioè l'ambiente socio-culturale-produttivo), oppure adattamento alle nuove condizioni ambientali.
In quest'ultima ipotesi ancora due opzioni saranno possibili:
a) sfruttare i differenziali salariali internazionali, decentrando le fasi maggiormente labour intensive della produzione e mantenendo in loco quelle strategicamente più importanti e a maggior valore aggiunto (taglio dei tessuti, assemblaggio della scarpa, controllo della qualità, coordinamento dell'attività);
b) adottare strategie di "differenziazione" consistenti nella realizzazione di linee proprie di prodotti (ciò potrebbe attuarsi, ad esempio, nei consorzi d'imprese attraverso una vasta gamma di prodotti offerta - v. COPAC -) e/o nella fornitura di servizi accessori che "fidelizzano" il committente. In tal modo è possibile trasferire la competizione dal prezzo alla qualità, usufruendo della rendita di posizione offerta dal marchio made in Italy.
Ma il tempo a disposizione perché le imprese compiano i necessari aggiustamenti si riduce sempre più drasticamente. Le recenti vicende che hanno sconvolto i mercati finanziari asiatici e le connesse forti svalutazioni delle divise accresceranno la competitività, in termini di prezzo, dei produttori dell'Estremo Oriente.
Un problema analogo costituirà la partecipazione dell'Italia alla moneta unica europea. Questa sarà infatti più forte della Lira italiana e ciò si tradurrà in una perdita di appeal dei locali prodotti di bassa qualità. L'adozione dell'Euro, inoltre, non permetterà più fluttuazioni sul mercato dei cambi UE; non ci saranno più, quindi, quelle svalutazioni della Lira che hanno tanto spesso consentito alle piccole imprese italiane di conquistare nuove fette di mercato estero, soprattutto quando la congiuntura nazionale comprimeva pericolosamente la domanda interna.
Le politiche locali, però, spesso non tengono conto di ciò. Tanto è vero che i contratti di gradualità, sebbene abbiano finalità sociali di grande rilievo, incoraggiano l'assunzione di manodopera garantendo sgravi per i primi anni di ogni nuovo rapporto di lavoro. Ma, quando tra qualche anno l'effetto degli incentivi cesserà, l'aggravio dei costi della manodopera coinciderà con una congiuntura internazionale per molte di esse sfavorevole. Gli investimenti dovrebbero quindi prediligere l'ammodernamento degli impianti e la formulazione di nuove strategie piuttosto che l'allargamento della base occupazionale che di fatto penalizza l'efficienza.
La sfida del nuovo millennio consisterà nel fronteggiare l'ascesa economica dei Paesi in via di sviluppo. Le lavorazioni di bassa qualità quasi certamente scivoleranno verso altre regioni e, quindi, il Salento potrà soltanto puntare sul rafforzamento delle politiche di marchio, presenti al suo interno, salvo casi sporadici, solo a livello embrionale, oppure sulla fornitura di servizi accessori che arricchiscono il prodotto finito e facilitano l'affezione del cliente/committente. Insomma, bisognerebbe passare da un mercato come quello attuale in cui la domanda domina e configura l'offerta ad un mercato in cui l'offerta domina e configura la domanda. Ma sono ancora poche le imprese che dal "façonismo puro" o dalla dipendenza da un unico committente si sono evolute o si stanno evolvendo verso strutture più dinamiche in grado di affrontare i futuri cambiamenti.
Le istituzioni pubbliche, nonostante l'impegno, non sono finora riuscite nella creazione di un milieu favorevole ai necessari adattamenti. Creare le condizioni dello sviluppo significa anche garantire la possibilità di accedere a tutte le informazioni necessarie a mantenere o consolidare i vantaggi competitivi acquisiti.
L'accelerazione dei ritmi del cambiamento potrebbe impedire al sistema Salento di adeguare la propria struttura alle nuove, mutevoli esigenze del contesto. La ormai localmente diffusa "conoscenza tacita" deve interagire maggiormente con la "conoscenza codificata" o meglio "certificata" (anche attraverso l'Azienda Speciale della Camera di Commercio) in Puglia o in altre regioni: le strutture formative giocheranno un ruolo essenziale e probabilmente richiederanno azioni sinergiche tra Università, Enti di Formazione ed imprese, accelerando il processo d'integrazione.
Un'ulteriore annotazione riguarda l'occupazione. Nell'ambito industriale, com'è noto, un incremento della produzione non causa necessariamente un dinamismo positivo degli occupati, anzi la ristrutturazione degli investimenti comporta spesso uno snellimento occupazionale dell'impresa con affidamento all'esterno di fasi di segmenti produttivi (lean production). Solo se il tasso incrementale della produzione supera l'omologo tasso incrementale della produttività, con acquisizione di nuovi mercati, l'occupazione potrà crescere. Ma nella fase di smaterializzazione dell'economia che stiamo vivendo sono le attività immateriali (progettazione, commercializzazione, marketing) e di servizio quelle che contano di più: in queste ultime inserirei le attività turistiche, fortemente incidenti sul reddito complessivo attraverso il "moltiplicatore turistico" e i cui introiti saranno, secondo le previsioni UE, in forte ascesa per i prossimi anni.


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