Il lavoro? Un optional




Federico Tanza



La "vertenza lavoro" che riguarda l'Italia, e in particolare le regioni del Sud, sarà lunga e tormentata. Sarà un percorso disseminato di ostacoli di cui è francamente impossibile calcolare oggi l'entità. Da qualunque lato la si prenda, la questione appare complicata e ispira un diffuso senso di impotenza e di frustrazione. Per coloro i quali speravano che si trattasse di un "clima psicologico", al quale si potesse porre rimedio con buono spirito di volontà e di collaborazione, sono arrivati, come una mazzata, i dati apparentemente inspiegabili della situazione economica: tra il 1997 e il 1998 l'Italia ha continuato a distruggere posti di lavoro, invece di crearne di nuovi.
Impotenza e frustrazione nascondono un problema di metodo e un problema di sostanza. Per quel che riguarda il metodo, ci si sta accorgendo che la grande "questione sociale" italiana non può più essere interpretata esclusivamente attraverso l'occhio delle relazioni industriali. E che, di conseguenza, la "questione del lavoro" non può più essere delegata al sindacato, cioè al rappresentante istituzionale di coloro che un'occupazione già ce l'hanno e che esprimono perciò come solo interesse quello di difenderne la durata e la remunerazione. L'enorme presenza sociale del sindacalismo italiano, che a partire dagli anni '59-'60 è da noi fattore decisivo nella vita civile e nei meccanismi di decisione che influenzano lo sviluppo economico, è ormai di gravissimo ostacolo alla comprensione dei problemi del Paese e alla ricerca delle soluzioni.
Ne è una lampante dimostrazione proprio l'irrisolvibile "questione del lavoro". In Italia sono le donne la gran maggioranza di chi cerca lavoro (ma le donne rappresentano soltanto un terzo degli occupati e molto meno di un terzo degli iscritti al sindacato); in Italia, su dieci persone in cerca di lavoro, sette hanno meno di 29 anni (l'Italia è il Paese europeo dove fra i disoccupati più bassa è la quota di adulti e maggiore è quella dei giovani, che naturalmente non hanno rappresentanza sindacale); la crisi del lavoro risiede soprattutto nelle regioni meridionali le quali, rispetto al resto del Paese, hanno una capacità di creare occupazione praticamente nulla (e naturalmente un tasso di sindacalizzazione nettamente inferiore alla media nazionale); infine, l'estrema lentezza con la quale chi in Italia perde il posto riesce a rientrare nel mercato del lavoro - altra caratteristica che rende la nostra situazione più grave delle altre - coincide frequentemente anche con la perdita di membership sindacale. La conclusione è che il problema sta sempre di più dalla parte di chi è "fuori" (dal lavoro e dal sindacato) e molto meno dalla parte di chi è "dentro".
In prospettiva, le cose si complicano, se possibile, ancora di più. E' certo infatti che l'offerta di lavoro continuerà a ridursi. La popolazione in età attiva nel nostro Paese sta diminuendo da almeno un paio d'anni e nel prossimo futuro le sempre più ridotte generazioni di giovani non riusciranno a compensare le "uscite" degli anziani. Colpisce in modo particolare la rapidità con la quale l'Italia sta invecchiando. Allo stato attuale siamo l'unica nazione al mondo in cui la popolazione al di sopra dei sessant'anni è più numerosa di quella sotto i vent'anni. Questo squilibrio demografico "costringe" a ritardare l'età di effettivo ritiro dal lavoro per allontanare nel tempo la crisi dell'intero sistema pensionistico e previdenziale. Tra meno di trent'anni i pensionati supereranno gli occupati. E neanche a dirlo, fra le file del sindacato i pensionati già superano la metà degli iscritti totali. Nel sindacato, e nel tavolo attorno al quale si discuterà prossimamente della "questione del lavoro", la rappresentanza degli interessi pende in misura evidente a loro favore. Ma in questo modo le porte d'ingresso per i più giovani nel mercato del lavoro finiranno per sbarrarsi del tutto.
L'intero sistema produttivo rischia di perdere colpi su colpi. Tra venticinque anni ci saranno cinque milioni di italiani in meno; ma, soprattutto, ci saranno tre milioni e 200 mila giovani italiani in meno e ben cinque milioni e mezzo di persone in meno in età compresa tra i venti e i sessant'anni. La forte riduzione della popolazione attiva diverrà ancor più evidente quando alla porta del mercato del lavoro busseranno i pochi giovani nati dopo la fine degli anni Settanta. Quell'immenso "buco" sociale ed economico potrebbe essere in qualche misura riempito soltanto da una crescita del lavoro femminile, da una velocizzazione delle "uscite" e dei "rientri", dalla generazione di lavoro al Sud.
Tutto lascia pensare, invece, che la diminuzione di offerta di lavoro finirà per essere contrastata da un aumento della produttività. Ecco spiegato il dato apparentemente "paradossale" che viene dalla ripresa economica che distrugge occupazione. Ed ecco spiegata anche la diversa "qualità" del problema che ci affligge rispetto agli altri Paesi dell'Unione europea, e non soltanto: la Gran Bretagna, con la nostra stessa popolazione, conta ben quattro milioni e mezzo di lavoratori in più; i ragazzi e le ragazze statunitensi con meno di diciotto anni sono attualmente oltre settanta milioni (e si tratta di un record storico) e si apprestano ad irrompere con tutta la loro straordinaria forza di propulsione nel vasto mercato interno della produzione e dei consumi. Ecco spiegata, infine, la ragione per cui la "questione del lavoro", così come la si è impostata sino ad oggi nel nostro Paese, sembra francamente irrisolvibile.


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