La sfida del terzo millennio




Renato Dorfles, Giuliano Finardi



Questo secolo, e con esso il secondo millennio della storia della civiltà europea, si conclude con un'emergenza, con una grande crisi dell'occupazione e del lavoro all'interno della società moderna. Finisce con un problema che le generazioni precedenti non avevano mai avuto e ritenevano di aver risolto: il problema di un livello di disoccupazione molto alto, tendenzialmente crescente, che colpisce in modo particolare i giovani e si caratterizza per la sua lunga durata. Si è quindi in presenza di una dimensione emotiva di preoccupazione e di ansia per una società che non sa creare lavoro a sufficienza.
Gli esperti parlano di "workless growth", di crescita senza lavoro, almeno nella realtà comunitaria. L'aumentata produttività legata all'innovazione tecnologica stenta a creare nuova occupazione, ma elimina nello stesso tempo molti vecchi lavori. E il nostro secolo tramonta con il rischio di mancare l'obiettivo di dare a tutti un lavoro, di creare nuova occupazione per consentire che la soppressione dei vecchi mestieri ripetitivi (ad opera dell'innovazione tecnologica e dell'automazione) sia accompagnata da nuovi bacini di impiego e da nuove occasioni di lavoro.

"Jobless society": la fine della cultura del posto fisso
Nel nostro sistema economico che cambia rapidamente e diventa sempre più competitivo a causa delle tre grandi minacce/opportunità evidenziate da Cresson nel Libro Bianco Insegnare e Imparare: smaterializzazione del lavoro e avvento della società dell'informazione, globalizzazione dei mercati, sviluppo tecnologico, vi è un elemento di trasformazione interna di particolare rilevanza che si potrebbe chiamare la fine della cultura del fordismo, e cioè la fine della cultura della grande organizzazione, del lavoro dipendente e della grande appartenenza. Il nostro secolo culmina con la crisi di questo modello. La grande impresa non va più di moda perché il mercato, il sistema economico e le stesse attese dei consumatori sono tutte così segmentate e di nicchia che anche la grande impresa deve articolarsi al suo interno in unità produttive molto mirate al cliente.
Il sistema produttivo privato europeo è un sistema che ha una dimensione media di 6,8 addetti per impresa ed è quindi caratterizzato da una stragrande maggioranza di Pmi (piccole e medie imprese) che giocano un ruolo decisivo nella creazione di occupazione e sono un fattore di stabilità sociale e di progresso economico. Ed è proprio nella piccola impresa che troviamo le realtà più vitali, e i dati lo confermano: oltre il 70 per cento dell'occupazione europea risiede nelle Pmi. La loro vitalità rappresenta pertanto un elemento determinante per l'economia europea: le politiche volte a sostenere il loro sviluppo debbono costituire la colonna vertebrale delle proposte destinate a stimolare l'occupazione e la competitività.
Di fronte a questa situazione, se entra in crisi il valore della grande dimensione - perché solo la piccola sa stare in tutti i meandri, in tutte le nicchie del mercato moderno - allora è evidente che non è il lavoro dipendente della grande organizzazione ad essere determinante per lo sviluppo futuro, bensì il lavoro dipendente nella piccola organizzazione, ed una importanza ancora maggiore assumono il lavoro indipendente, il lavoro autonomo e la piccola imprenditoria. Identificandosi, in molti casi, il manager con l'imprenditore, è dunque in questo ambito che la formazione manageriale e quella continua assumono valenza strategica. I problemi formativi del personale delle Pmi richiederanno soluzioni in grado di interpretare adeguatamente i loro bisogni per offrire servizi e prodotti mirati di formazione.

La sfida per il management
L'alto grado di competitività dei mercati non consentirà più alle imprese di sottoutilizzare la risorsa più importante (e anche più costosa) del prossimo business: l'uomo. I lavori ripetitivi saranno spazzati via dall'automazione e le persone dovranno svolgere ruoli complessi, nei quali si sommeranno competenze tecniche, gestionali, relazionali. Il livello culturale di tutti i lavoratori si muoverà nel tempo verso l'alto, e per tutti diventerà sempre più importante mantenersi competitivi attraverso un apprendimento continuo.
Iniziativa, autoaggiornamento, autostima e fiducia in se stessi, leadership e capacità di comunicare e far crescere i propri collaboratori saranno qualità sempre più importanti per i lavoratori di domani e soprattutto per manager e quadri.
Come si rileva facilmente, quelle sopra elencate sono proprio le qualità di base di un imprenditore, e lo sforzo che molti manager si dovranno preparare a fare è proprio quello di trasformare se stessi e i propri dipendenti in imprenditori.
Il lavoro complesso di domani richiede già ora un grosso sforzo di formazione: l'80 per cento della manodopera del 2000 si trova già sul mercato del lavoro. Formazione, dunque, non solo tecnologica per tener conto delle innovazioni: si pensi alla tecnologia dell'informazione e della comunicazione, oppure a Internet che fino a due anni fa, o poco più, era sconosciuta ai più, ma soprattutto alle competenze di base che umanizzano la persona distinguendola da una macchina o da un robot, per quanto tecnologicamente sofisticati li si vogliano pensare: autonomia, lavoro di gruppo, comunicazione, capacità di relazione e socializzazione, attitudine ad apprendere.
Il già citato Libro Bianco ha ben messo in evidenza queste priorità e ha auspicato una rivalutazione da parte dei sistemi di formazione professionale della cultura generale, che viene incoraggiata soprattutto nei programmi di riconversione dei lavoratori quale passo obbligato verso l'acquisizione di nuove competenze tecniche. Questa indicazione è un confortante segnale di un ritrovato umanesimo all'interno della società tecnologica.

Le sfide per la formazione
Nonostante i molti successi ottenuti negli ultimi anni, scuola e impresa restano due parallele che raramente si incontrano. Specie nei Paesi a cultura latina, il pregiudizio che la cultura d'impresa (basata in gran parte sull'acquisizione di un sapere operativo attraverso l'esperienza) non sia vero sapere in quanto non assimilabile ad una scienza di tipo fisico-matematico è spesso diffuso in modo più o meno latente. I sistemi formativi rivelano questa impostazione: prova ne è il fatto che la cultura manageriale è entrata nel "recinto accademico" solo in tempi relativamente recenti, e spesso solo marginalmente.
Un altro pregiudizio, che i sistemi formativi europei si portano ancora dietro, è la convinzione che la formazione manageriale sia una formazione elitaria, riservata a pochi privilegiati. Prova di questa affermazione è che raramente il sistema di educazione e formazione iniziale prevede esplicitamente il finanziamento dei cosiddetti Mba (Master Business Administration).
Gli Stati membri, attraverso il riconoscimento del pieno diritto della formazione manageriale ad entrare a far parte dei sistemi formativi nazionali, e la Comunità, attraverso il sostegno fornito dai programmi di cui dispone in materia di istruzione/formazione, unitamente alla concreta utilizzazione delle risorse del Fondo sociale europeo, potrebbero svolgere un forte ruolo di "democratizzazione" della formazione manageriale, consentendole di cessare di essere uno strumento elitario quasi opzionale a cui si fa ricorso occasionalmente e non strutturalmente, come invece esige il mercato e in particolare il mondo delle Pmi.
Esaminando le cifre che gli Stati membri investono nel sistema di educazione e formazione, si può rimanere impressionati dall'entità dei finanziamenti nazionali e di provenienza comunitaria. Tuttavia si ha a volte l'impressione che la partecipazione diretta ai programmi europei sia ancora troppo bassa. Le imprese, infatti, concentrate sul proprio business (ciò vale in particolare per le Pmi), non dispongono spesso del know-how né del tempo per costruire progetti formativi da sottoporre all'approvazione comunitaria.
In tema di diffusione della cultura e delle conoscenze, l'insieme delle ricerche, progetti pilota e corsi di formazione che l'Unione promuove stimolando la costituzione di parternariati transnazionali, anche attraverso le università e le scuole di management, dovrebbero essere diffusi al pubblico delle imprese e segnalati quali prototipi da imitare e da diffondere in nuove edizioni riproducibili sull'intero territorio dell'Unione.
Strumenti informatici, quali Internet e la costituzione di banche dati dei prodotti e dei progetti, possono essere un primo passo operativo per favorire l'abbattimento delle frontiere al libero movimento della cultura e dei risultati della ricerca.
La consapevolezza che gli investimenti sulle persone costituiscano la modalità principale per dare solidarietà alle imprese e mantenerle competitive è ormai un fatto diffuso e acquisito da molti imprenditori e manager. La formazione deve essere promossa a nuove logiche, diverse da quelle segnalate dal benefit per i dipendenti, se si vogliono ottenere i risultati in termini di accresciuta competitività delle imprese.
Per i manager, occorrerà passare presumibilmente dall'apprendimento individuale a quello organizzativo e in questo può essere di utile riferimento il modello della "Learning organisation", l'organizzazione che apprende, che si può sintetizzare in tre caratteristiche:
- incoraggia gli individui ad ogni livello dell'organizzazione ad imparare regolarmente e rigorosamente dal proprio lavoro;
- dispone di sistemi per assimilare l'apprendimento seguendo obiettivi diversi;
- considera l'apprendimento da parte dell'intera organizzazione come uno degli obiettivi aziendali.
L'attuazione di questo schema potrà avvenire solo attraverso il coinvolgimento dei manager delle imprese, i quali dovranno essere pronti ad accettare la sfida di una rottura con i tradizionali modelli organizzativi e di management in favore di modelli "cooperativi". Ai nuovi e futuri manager, oltre alle competenze legate al loro ruolo funzionale, occorreranno capacità innovative di formazione che portino a coinvolgere e far partecipi dell'apprendimento l'insieme delle risorse umane in azienda.
A fianco dei nuovi modelli organizzativi, occorrono nuovi schemi per la formazione in impresa che recepiscano le differenze di apprendimento tra giovani in formazione iniziale e adulti già inseriti nel sistema lavorativo. I nuovi schemi di formazione continua dovrebbero essere integranti nei processi di lavoro tali da portare alla valorizzazione dell'apprendimento informale: sviluppo dell'alternanza scuola-lavoro, stage.
Sul piano generale, la formazione da dispensare ai futuri quadri e dirigenti comporta la necessità di creare una cultura della formazione, e ciò richiede particolare attenzione e impegno da parte delle strutture educative e formative. Il modello europeo a cui si deve confrontare l'impresa è un modello che postula una cultura imprenditoriale diffusa in cui il manager deve essere preparato ad affrontare una realtà in continuo cambiamento che richiede livelli sempre più elevati di professionalità ed esige una formazione continua di alta qualità estesa a tutti i livelli aziendali poiché il tasso di obsolescenza dei processi di conoscenza e di abilità è fortemente aumentato. L'integrazione progressiva del mercato interno, la globalizzazione dell'economia e l'avvento delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione cambiano il modo di gestire le imprese. Le differenze culturali dell'Europa significano per definizione che la flessibilità manageriale e le diversità di qualifiche richieste alle imprese implicano una crescente estensione della capacità di lavorare in équipe interculturali per padroneggiare in modo efficace le relazioni internazionali.
In questa dinamica, si colloca naturalmente la formazione manageriale, che rappresenta lo sbocco più alto dell'istruzione e della formazione professionale. E' proprio a livello manageriale che la formazione continua è più avvertita, poiché è a questo livello che è necessario apprendere rapidamente le nuove regole del mercato europeo e dell'economia internazionale per attuare principali strumenti di guida aziendale e ottenere i conseguenti obiettivi di nuove tecniche gestionali: qualità totale, inserimento di nuove tecnologie, marketing, ecc.
L'Unione europea può avere in questo un forte ruolo di stimolo affinché la formazione in impresa si trasformi e diventi sempre più adeguata alle esigenze di apprendimento dell'impresa.

L'azione comunitaria
L'importanza della dimensione europea dell'educazione e della formazione è stata ripresa e rafforzata dagli artt. 126 e 127 del Trattato di Maastricht, in cui viene ribadito, nel rispetto della sussidiarietà, il ruolo della Commissione europea nell'assistere le istituzioni nazionali nell'ambito di particolari discipline, ivi incluso l'aspetto della formazione dei manager.
Le sfide indicate spingono verso nuovi sistemi pedagogici di apprendimento, in cui l'apprendistato diventa parte integrante dell'insegnamento. L'individuo si trova ad avere una nuova responsabilità: la ricerca attiva di conoscenze. Tale approccio è fondamentale per sviluppare la giusta attitudine verso l'occupazione e per l'adattamento continuo ai cambiamenti. Inoltre, la relazione tra scuola e mondo del lavoro viene descritta come la chiave di volta per favorire l'incontro tra la domanda e l'offerta di occupazione. Le imprese vengono incoraggiate ad aprirsi ad un ruolo sociale per facilitare il processo di apprendimento durante tutta la vita.
Una significativa risposta a queste esigenze di cambiamento necessita di una reale collaborazione tra i diversi attori interessati al tema dell'educazione e della formazione: da un lato le scuole, le università, gli istituti di formazione professionale e manageriale; e, dall'altro, le parti sociali, il sistema delle imprese e le istituzioni nazionali e comunitarie. Questa collaborazione permetterà di mettere più concretamente in contatto il mondo formativo allargato col mondo produttivo e con la società civile.
La collaborazione tra le parti dovrà consentire anche di meglio definire la creazione di un sistema di rilevazione permanente dei fabbisogni educativi e formativi, da rendere disponibile su scala comunitaria attraverso un network o banche dati, la cui conoscenza articolata permetterà di strutturare con elevati gradi di flessibilità i livelli di istruzione e formazione in rapporto alle reali esigenze delle imprese e della società civile europea: condizione, questa, fondamentale per far comunicare in tempo reale i luoghi del sapere e della produzione, far rilanciare la competitività in Europa, ovviare all'attuale paradosso che vede da un lato elevati livelli di disoccupazione e, dall'altro, una domanda di occupazione inevasa per mancanza di specifiche qualifiche professionali.
Dobbiamo riconoscere che in quest'ultimo decennio in Europa sono stati effettuati molti sforzi per mettere a punto politiche di formazione continua, in cui particolare attenzione è stata posta alla collaborazione tra gli attori interessati alla materia a livello del territorio.
La questione che resta tuttora aperta è come promuovere il curriculum europeo in un vero spirito europeo, cioè come favorire il cambiamento di mentalità che faccia fare il salto di qualità al sistema educativo e formativo. Dobbiamo passare da un curriculum a base nazionale ad un altro, a base europea. Per far ciò sarà fondamentale la capacità degli attori interessati a diffondere le buone esperienze europee (buone pratiche). Uno sforzo dovrà essere altresì fatto da parte degli enti competenti in ogni Stato membro, al fine di promuovere una maggiore integrazione delle conoscenze e dei curricula in Europa. Questo approccio va al di là dell'aspetto prettamente giuridico del Trattato di Maastricht e implica la reale volontà degli Stati membri di arrivare alla comunanza degli obiettivi, senza perdere le caratteristiche proprie di ogni sistema nazionale.
In questa logica sono stati concepiti i programmi Socrates e Leonardo che, attraverso il finanziamento di progetti pilota, promuovono il cosiddetto "spirito europeo". Per poter partecipare a questi due programmi, la collaborazione tra i partners e la messa in comune di obiettivi e risorse prendono il sopravvento sullo spirito di preservazione nazionale. Le buone soluzioni adottate in uno Stato membro possono servire da esempio e riferimento ad altri Stati, al fine di poter sviluppare nuovi programmi.


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